Manuale anti-pratico di Ballardismo applicato

Dietro una realtà che si sfalda sotto il peso dell’accelerazione tecnocapitalista si cela una dottrina segreta: il ballardismo! Guida per iniziati a una corretta applicazione del capolavoro di theory fiction firmato da Simon Sellars

La norma, per quanto riguarda la psiche umana, è la rivendicazione e l’uso della libertà, intesa come  potere di revisionare e di istituire norme, un assunto che implica, di norma, il rischio della follia.
(G. Canguilhem)

Tra tutte le ossessioni del pensiero moderno, il rapporto fra politica, razionalità e arte è sicuramente una fra le più dure a morire. Dalla cattedrale della ragione kantiana, eretta sulle sue prime due critiche e andata a fuoco con la terza – ossia nel momento in cui il filosofo di Köingsberg si è chiesto come l’arte potesse essere inserita nel macchinario della ragione – ai dibattiti marxisti dello scorso secolo sul ruolo dell’arte nella rivoluzione, la storia della modernità e della razionalità è la storia di una perenne e dolorosa insonnia estetica.

Un ottimo riassunto delle ragioni di queste notti insonni è un recente e acceso scambio di tweet che ha coinvolto Alex Williams, uno degli autori di Inventare il Futuro, Robin Mackay, fondatore della casa editrice Urbanomic, e il blogger Xenogothic, che, oltre ad aver preso parte all’hellthread, ha scritto una dettagliata cronaca di quanto accaduto. L’oggetto del contendere è il ruolo politico dell’arte e la responsabilità, sociale e etica, che un artista si deve assumere portando a termine la propria opera. In particolare, si discute su quale sia il «compito» politico, l’utilità sociale e il fine etico di un’opera letteraria (un romanzo, più o meno) che  finalmente arriva adesso anche in Italia: Ballardismo applicato di Simon Sellars.

La copertina di Ballardismo applicato, la theory-fiction di Simon Sellars in uscita per la collana Not di NERO.

Le tesi che dominano la discussione sono essenzialmente due: da un lato, Williams sostiene la «dura distinzione» fra arte e politica. La politica è il campo della «responsabilità» e del management razionale delle risorse, delle infrastrutture e della popolazione; l’arte, invece, «può essere molte altre cose»

L’arte può, in poche parole, fare ciò che la politica non dovrebbe fare: ad esempio, trasgredire la logica della gestione razionale del mondo. Per quanto Williams sostenga che la politica possa avvalersi dell’arte per fini propagandistici, le due sfere non devono mai coincidere, pena il cadere nelle peggiori forme di irrazionalismo guerrafondaio. La politica è «un processo di manipolazione complesso e la re-ingegnerizzazione di tendenze dinamiche, di vettori di emergenza e organizzazione, e l’abilità di navigare spazi strategici»; l’arte, al contrario, può permettersi di perdersi liberamente nel romanticismo e nell’irrazionalità più completa. «L’estetizzazione della politica = fascismo», have you even read Benjamin?

Dall’altra, Mackay e Xenogothic sostengono che questa divisione non solo non sia necessaria, ma che sia deleteria per chi vuole ripensare il presente. Se l’«irrazionalismo» può essere nocivo per la visione managerialista della politica proposta da Williams, lo stesso potrebbe non valere se cambiassimo la «scala» presa in considerazione, ridefinendo l’oggetto stesso della politica. Mackay, infatti, sostiene che, se prendessimo in considerazione la «micropolitica post-68» e la filosofia di Deleuze e Guattari, della CCRU e le forme più acide del pensiero di Mark Fisher, il temuto romanticismo williamsiano potrebbe essere «reso rigoroso» e diventare uno strumento con cui analizzare e rendere aliena la nostra vita quotidiana. Piuttosto che immaginare la politica come una partita di Age of Empires, potremmo ridurre la scale presa in considerazione, rivolgendo la nostra attenzione alla ricostruzione del nostro quotidiano, e ridefinirla come un rinnovamento che passa anche attraverso l’arte, la moda e l’architettura. Inoltre, ribadendo questo argomento, Xenogothic aggiunge che l’arte può costringere la politica a confrontarsi con movimenti che eccedono gli interessi dell’ingegnerizzazione delle infrastrutture e della popolazione. L’arte può permettersi di mostrare movimenti planetari, inumani e eerie, costringendo la politica a superare se stessa e a prendere in considerazione ciò che non è immediatamente presente o ciò che non può essere controllato, almeno in questo momento storico, dall’essere umano. In breve, secondo Mackay e Xenogoth, ibridando arte e politica si possono pensare in maniera più efficace le politiche tanto del personale quanto del planetario.

Alle spalle di questa discussione da sala da tè paraccademica si staglia un’imponente nube nera. Simon Sellars, autore dell’opera rea di aver generato questo thread, risponde a queste due tesi affermando che entrambe sono essenzialmente incapaci di descrivere il portato politico del suo lavoro. Entrambe distorcono il rapporto fra Ballardismo applicato e la sfera politica e etica. Anche le categorie più strane e hip prodotte dalla filosofia non riescono ad addomesticare la sostanza del romanzo, per il quale, per ammissione dello stesso Sellars, è difficile parlare di un «programma politico» definito o di un’affiliazione a qualche scuola di pensiero contemporanea. Se vorranno confrontarsi con il suo lavoro sarà meglio che accettino la sua «spocchia anti-intelletualistica» e evitino di trovare scorciatoie tanto rispettabili quanto scontate e insufficienti. Inoltre, se mai volessero trasformare questo scambio in una conferenza in cui risolvere il dissidio sarà meglio che, prima di qualsiasi teoria, ci sia «una seduta spiritica sotto il Westway, e un’evocazione rituale di anomalie celesti». Più occulto, meno accelerazione. 

Ballardismo

Alla luce di Ballardismo applicato, risposte tanto caustiche non sono affatto sorprendenti. Il libro di Sellars, oltre ad essere un capolavoro di hauteur-couture goth e uno straordinario esemplare di theory-fiction, è il racconto in prima persona di un dottorato, avvenuto in un universo parallelo molto simile al nostro, il cui progetto ha come scopo l’esporre in maniera chiara le proposizioni essenziali del Ballardismo, la teoria filosofica che guida implicitamente le opere di J. G. Ballard. Il risultato di questa ricerca è però disastroso. Lo studio di questa disciplina immaginaria porta il protagonista del racconto a svelare una realtà occulta fatta di cospirazioni, UFO, fetish alieni, esperimenti neuroscientifici iperinvasivi e vecchietti telepatici, e lo spinge a una sorta di gnosi estrema: Ballard è davvero riuscito ad interpretare i «prossimi cinque minuti» della specie umana, ma nessuna teoria può racchiudere in maniera coerente questa manifestazione. 

L’unico Ballardismo possibile è una lucidissima paranoia apocalittica, teoricamente incomprensibile e logicamente insostenibile, ma capace di leggere in maniera dettagliata una realtà che diventa sempre più complessa e fuori dalla portata delle capacità cognitive umane. Nulla di umano sopravvive al prossimo futuro e, parafrasando Burroughs, secondo cui Ballard toccava le «radici non-sessuali della sessualità», il Ballardismo ci mostra l’origine essenzialmente non-umana del progresso e del futuro dell’umanità. «Mi immagino trascinato da forze mortali che non posso comprendere, proprio come il malcapitato che in Crash si scontra con l’auto del narratore e viene scagliata fuori dal parabrezza, schiantandosi sul cofano».

Per questo, il protagonista del romanzo abbandona ogni pretesa di coerenza o di comprensione della filosofia che guida la fantascienza ballardiana e decide di applicare su di sé le conseguenze profonde del Ballardismo, iniziando una rigorosa autoanalisi in cui si tramuterà in un sismografo in grado di tracciare i contorni di questa mutazione inumana. Il Ballardismo non è, dunque, una teoria, ma è, almeno all’apparenza, la nuda descrizione dell’alterazione aliena della sfera psico-sociale prodotta dall’accelerazione tecnocapitalista. Spiega Sellars: «Per quanto riguarda il Ballardismo, nessuno dovrebbe considerarlo uno strumento concettuale con cui trovare il senso del mondo, a meno che non si è stanchi di vivere. […] Il Ballardismo applicato arriva a un soffio dall’ammazzarlo, e questo è precisamente il punto».

Chiaramente, questa rapida esposizione del Ballardismo ha due effetti: ci mostra esplicitamente le motivazioni superficiali dei tweet di Sellars, ma presta generosamente il fianco alle critiche di Williams. Da un lato, infatti, il Ballardismo è una sorta di pensiero magico/apofantico smaccatamente antipolitico. Che senso avrebbe tentare di inquadrarlo in una cornice politica definita? Dall’altro, però, il Ballardismo potrebbe essere facilmente attaccabile. Dopotutto, una teoria che si presenta come una mera descrizione di quanto sta accadendo e che si fonda sull’impossibilità di essere concettualizzata è un esempio emblematico di quell’irrazionalismo romantico contro cui Williams ha scoccato i suoi strali. Il Ballardismo potrebbe essere un esemplare di quelle che Reza Negarestani ha recentemente definito zero-claims theories: una teoria che pretende di essere totalmente neutra e descrittiva, giustificando in questo modo la mancanza di qualsiasi impianto critico.

Eppure, sotto la superficie qualcosa continua a muoversi e rende questa critica inefficace e superficiale. Gli episodi che si susseguono all’interno di Ballardismo applicato suggeriscono infatti che questo primo livello di lettura non sia sufficiente. Pagina dopo pagina il tecnomisticismo proposto da Sellars delinea silenziosamente un metodo implicito e una filosofia politica che sembra essere volontariamente criptata ed esoterica nel senso più letterale del termine. Lungi dall’essere una teoria senza contenuto, il Ballardismo costruisce sul suo apocalitticismo – che resta, in ogni caso, il vero cuore pulsante di quest’opera – una teoria dell’azione politica e del superamento del presente che mette a dura prova tanto il razionalismo williamsiano quanto l’accelerazionismo deleuzoguattariano di Mackay e Xenogothic. Sotto la teorizzazione esplicita dei non-principi del Ballardismo e le descrizioni di una realtà che rapidamente si sfalda sotto il peso dell’accelerazione costante del tecnocapitalismo si cela una dottrina segreta, una dottrina che sembra delinearsi all’insaputa del protagonista del racconto e anche, in una certa misura, come mi ha candidamente confermato lo stesso Sellars in una conversazione privata, dell’autore del romanzo stesso. Come accade nella foresta descritta da Ballard in Foresta di cristallo, una teoria politica implicita si cristallizza spontaneamente nelle pagine di Ballardismo applicato.

Vista la natura esoterica di questa teorizzazione, però, non mi assumerò il compito di svelare completamente tale segreto. Sellars ha speso talmente tante energie nel depistare, scoraggiare e allontanare ogni forma di esplicitazione di un possibile contenuto politico del suo libro che mi sembrerebbe quantomeno indelicato vanificare i suoi sforzi dicendovi cosa, a mio avviso, si nasconde dietro a Ballardismo applicato. Inoltre, il romanzo rifiuta ogni tipo di autorità esegetica e non accetterebbe mai di lasciarmi l’ultima parola sul suo contenuto; data la natura elusiva e apocalittica del testo ogni mia teoria lascerebbe fuori qualcosa di essenziale e sarebbe condannata ad essere tremendamente incompleta.

Per questo non mi avventurerò in guide concettuali o dotte delucidazioni sul contenuto del romanzo, ma mi limiterò a tracciare una sorta di mappa del tesoro, composta da tre indizi, che dovrebbero guidarvi verso il cuore teorico di Ballardismo applicato. Il primo indizio l’avete già superato ed è, banalmente, il termine Ballardismo. Gli altri due saranno due concetti provenienti dalle forme più torbide e inquietanti dell’accelerazionismo contemporaneo, quell’accelerazionismo che si è recentemente riunito intorno all’hashtag #cavetwitter. I due termini sono templessità e anti-prassi. Il mio obiettivo è quello di creare un foglietto illustrativo con cui instaurare un primo contatto con la logica profonda del Ballardismo. Non vi rovinerò il brivido dell’iniziazione, mi limiterò a darvi degli appigli che facilitino la vostra discesa.

Templessità

La cultura Occidentale ha proposto, essenzialmente, due visioni del tempo: una circolare e una lineare. Il tempo è stato concettualizzato, nella gran maggioranza dei casi, o come un eterno ritorno, legato alla ciclicità delle stagioni, dei ricambi generazionali o alle ripetizioni regolari delle crisi economiche e sociali, o come una linea retta che descrive la marcia della Storia, in cammino verso il suo stesso compimento o annichilimento, a seconda del temperamento del teorico di riferimento. Questi modelli, secondo Anna Greenspan e Nick Land, sono divenuti obsoleti. Per descrivere la temporalità in cui siamo inseriti dobbiamo assumere una posizione teorica meno ingenua e immaginare geometrie più complesse. La modernità, secondo Greenspan e Land, possiede infatti una temporalità controintuitiva in cui il passato, il presente e il futuro non solo sono collassati gli uni sugli altri nella sfera culturale – formando, come affermava Jameson, un pastiche postmoderno e privo di senso –, ma hanno innescato un bizzarro processo produttivo materiale in cui si danno forma vicendevolmente. 

Traendo ispirazione dall’ecologia di Timothy Morton e distorcendo leggermente e volutamente l’accelerazionismo di Greenspan e Land, potremmo esemplificare questa revisione concettuale affermando che, per capire la nostra temporalità, dobbiamo comprendere come i resti di materiale organico arcaico abbiano ripreso vita sotto forma di petrolio e siano divenuti la linfa vitale del sistema produttivo attuale che, a sua volta, sta causando il riscaldamento del clima del pianeta producendo un futuro che retroagisce su di noi, informando, nel migliore dei casi, le nostre attuali politiche globali, nazionali e personali. In altre parole, possiamo dire che l’ombra lunga della modernità in cui siamo immersi ci mostra come la divisione netta fra passato, presente e futuro sia, probabilmente da sempre, ma sicuramente in questo momento storico, una messa in scena: le tre dimensioni temporali convivono sotto forma di commistioni di materiali anonimi, si inseguono come se fossero un loop, e causano effetti le une sulle altre in maniera weird e non-lineare. «Mentre la modernizazzione temporale avanza si spinge simultaneamente nel passato». Per comprendere, dunque, l’accelerazione tecnocapitalista in cui siamo immersi dobbiamo riuscire a tracciare le convulsioni di questo strano serpente temporale che tenta di mangiarsi la coda incessantemente. «Accelerare oltre la velocità della luce significa tornare indietro nel tempo. Ad un certo punto, nei racconti di fantascienza, la modernità completa il suo revisionismo teologico riscoprendo il suo culmine escatologico nel tempo-come-loop. Giorno del giudizio. La fine arriva quando il futuro torna indietro a prenderci. […] La modernità si è resa lineare solo per de-linearizzarsi in maniera più radicale».

Questa temporalità, che assume la forma, a seconda dell’autore che si sta interpellando, di una spirale o di un impossibile labirinto dritto, viene definita templessità. Queste figure geometriche paradossali sono uno degli elementi cardine dell’immaginario politico del Ballardismo. Nel romanzo di Sellars, infatti, gli scritti di Ballard vengo esplicitamente considerati come delle macchine del tempo capaci di trasportare il protagonista nelle zone più remote e inaccessibili delle spire della templessità e di accelerare l’attualizzazione di mondi che ancora non esistono o che sono esistiti in un’Antichità-senza-Tradizione. La fantascienza ballardiana non ha trame, ma possiede quelle che Sellars definisce – citando l’Impero del Soledeep assignments, degli incarichi abissali che provengono da passati remoti o da futuri prossimi, che scardinano la realtà attuale e deviano il corso del presente. La temporalità del Ballardismo è fatta di ritorni improbabili e per nulla ciclici, comunicazioni con «cose» uscite da un’epoca in cui nessun umano ha mai messo piede e lunghe disquisizioni paranoiche circa il valore ontologico del Mandela effect.

Cercando di trarre le fila del discorso, dunque, possiamo concludere che, contro la claustrofobia degli eterni ritorni e la linearità del There is no alternative di thatcheriana memoria, il Ballardismo propone un tempo radicale in cui il futuro retroagisce sul presente causando mutazioni inquietanti e imprevedibili e il passato non riesce a restare confinato nella sua tomba, insistendo sul presente e riscrivendosi di volta in volta. Il mondo, preso in questa spirale temporale, pullula di passati, presenti e futuri alternativi; al Ballardista basta decidere di accettare il sacrificio di sangue necessario per seguire la direzione di queste retroazioni e insistenze scismatiche per superare l’orizzonte chiuso del presente. Sarà più facile immaginare la fine del mondo piuttosto che la fine del capitalismo, «ma noi abbiamo smesso di romanticizzare la fine del mondo. Il nostro unico interesse è il destino di tutti gli altri universi controfattuali».

Anti-prassi

Questa visione del mondo, in cui l’accelerazione del tecnocapitalismo ha raggiunto un livello di complessità inumana e il tempo perde le sue forme canoniche, tramutandosi in una spirale fuori controllo da cui fuoriescono un patchwork di mondi possibili, ci mette davanti alla domanda politica più complessa e, in un certo senso, odiosa: che fare?

Dopotutto, come detto precedentemente, il Ballardismo, preso come un semplice metodo di autoanalisi apofantica e come una descrizione della catastrofe in atto, dovrebbe crollare davanti al peso dell’effettivo impegno politico «sul campo», fallire nel tradursi in una teoria dell’azione politica coerente e dovrebbe mostrare finalmente le sue carte, rivelandosi per il nichilismo fatalista e irrazionalista che si suppone che sia. Questo, però, non accade. Il Ballardismo trova solidi alleati politici fra le teorie recentemente emerse nella blogosfera accelerazionista, vera erede dell’accelerazionismo grunge della CCRU e della cyberculture anni novanta. In particolare, il Ballardismo sembra in grado di convivere in perfetta armonia con un concetto formalizzato da Edmund Berger e Vincent Garton: l’anti-prassi.

In prima battuta, come è facile immaginare, un concetto chiamato «anti-prassi» può far sorridere o far sollevare qualche sdegnosa sopracciglia: siamo forse arrivati al punto di criticare la prassi e di proporre il completo abbandono di ogni forma di azione politica? Non dobbiamo più fare niente e aspettare la fine del mondo? Come è altrettanto facile immaginare, però, l’anti-prassi non è il rifiuto completo della prassi e, chiaramente, non ci chiede di abbandonare totalmente le nostre attività politiche, qualsiasi esse siano.

L’anti-prassi è costituita da due principi fondamentali: rendere l’azione politica il più impersonale possibile e intensificare i processi di liberazione ed emancipazione attualmente esistenti, non situandoci dentro/contro il capitalismo, ma seguendo quei vettori politici che puntano direttamente verso una possibile uscita. 

Il primo principio è facilmente comprensibile: se, come afferma il Ballardismo, il sistema economico in cui siamo inseriti ha raggiunto dei livelli di complessità inumani e una struttura totalmente depersonalizzata e depersonalizzante, la politica non può nulla contro questa creatura finché rimarrà confinata nelle sue stanze umaniste e soggettiviste. Fintanto che la politica anticapitalista si dividerà fra lo spontaneismo anarchico – in cui il soggetto o la collettività senza autorità che esercitano la loro critica dell’esistente restano il punto focale dell’azione politica – e la conquista dell’egemonia culturale attraverso la formazione di un partito, vero soggetto e guida illuminata di ogni conflitto, non ci sarà alcuna speranza di scalfire il realismo capitalista. L’unica strategia vincente è giocare sullo stesso campo del mostro che stiamo affrontando, radicarsi nella materialità impersonale del mondo-senza-di-noi, citando Eugene Thacker, raggiungere la stessa velocità dell’accelerazione tecnocapitalista e disperde ogni forma di antropocentrismo e soggettivismo, tracciando, per usare il gergo di Deleuze e Guattari, delle linee di fuga tanto dal sistema in cui siamo inseriti quanto dalle identità che ci legano a questo stesso sistema. L’anti-prassi, quindi, lungi dal proporre di non fare niente, propone la via politica più impegnativa: imparare a fare terra bruciata, in noi stessi e intorno a noi, per creare degli scismi all’interno della coltre depressiva che ci ha inglobati da tempo. Accelerare, disperdersi, occultare, inumanizzare. L’anti-prassi «in fondo non è una teoria politica; è una mobilitazione del materialismo».

Da questo primo principio discende il secondo: raggiungere livelli di emancipazione e liberazione sempre maggiori e sempre meno umani e soggettivi. L’anti-prassi, specialmente nella versione proposta da Vincent Garton, è una politica della libertà e coincide senza scarti con lo sforzo di rendere questa stessa libertà sempre più illimitata e pervasiva. Piuttosto che tentare di arginare e modellare la materia (perché, come è facile intuire, anche in questo caso, non si parla di persone, soggetti e partiti, ma della materia senza nome che compone il mondo) come se fossimo i suoi illuminati ingegneri, l’obiettivo dell’anti-prassi è di liberare tutta la sua potenza espressiva. Evitando tanto l’ossessione per la libertà negativa dei libertari contemporanei quanto le manie di controllo razionale che hanno contraddistinto la modernità, l’anti-prassi propone uno sforzo costante verso una libertà essenzialmente non-umana, in cui la nostra specie è inserita ma di cui non è il centro assoluto. Come nota lo stesso Garton, dunque, questa libertà non ha nulla a che fare con i ridicoli argomenti dell’anarco-capitalismo, ma rimanda direttamente al principio cardine dell’esoterismo contemporaneo, proposto e formalizzato da Crowley, Spare e Parsons, inserendosi in una lunga tradizioni di esperimenti di liberazione esistenziale e politica: Do what thou wilt shall be the whole of the Law. Fa ciò che vuoi sarà tutta la Legge.

Davanti a questa teoria, il Ballardismo cambia completamente pelle: l’apocalitticismo diviene un tentativo di sottoporci alla sparizione, dolorosa e inquietante, delle nostre identità e della realtà che ci circonda e l’autonalisi diventa un esercizio parresiastico attraverso il quale il narratore esercita questa libertà corrosiva nella sua veste più radicale. Le atrocità ballardiane sono, dunque, parte integrante di una xenopolitica austera e rigorosa. Come ci ricorda, però, il finale di Ballardismo applicato, questo è a malapena l’inizio.