Le catene del presentismo

La retromania è finita (forse), ma del futuro nessuna traccia: siamo pronti al lento suicidio del presente continuo?

Out of the Past è un film prodotto dalla storica RKO Pictures e diretto dal regista francese Jacques Tourneur, che proprio con la RKO Pictures diresse una serie di horror a bassissimo budget che fecero scuola, prima di firmare questo capolavoro del genere noir. La sua trama complicata, forte di una sceneggiatura degna del Dashiel Hammett più ispirato, si deve a Daniel Mainwaring, scrittore e sceneggiatore che firmerà poco più tardi lo script de L’invasione degli ultracorpi e per essere poi travolto dal maccartismo, cosa che gli fece avere qualche problemino con l’industria cinematografica per essere stato inserito nella Lista nera di Hollywood.

Out of the Past fu poeticamente tradotto per la distribuzione italiana con Le catene della colpa, ma è conosciuto anche con un classico nome da gangster-movie all’italiana: La banda degli intoccabili. Soprattutto per via della rapida trasformazione economica di cui l’America fu vittima in quei tempi (la pellicola esce nel 1947), il film è dominato da un palpabile e malinconico senso di nostalgia nei confronti di quel passato idealizzato che Oltreoceano viene indicato con il termine Americana e che è tanto efficacemente quanto inquietantemente riassunto da Main Street, USA, la strada principale delle varie Disneyland in giro per il mondo. Tale nostalgia carica di suspense e tensione un plot che ha per tema proprio il ritorno del passato nel presente. Molti anni prima del thriller cronenberghiano A History of Violence, altro film che ragiona sul ritorno del passato, la pellicola di Tourneur presentava un raffinato cortorcuito retromaniaco caratterizzato da un presente crepuscolare che evoca un invidiabile passato quasi del tutto scomparso, ma al tempo stesso innestato con un altro passato cupo e travagliato che invece si ripresenta malignamente: e in questo caso è infatti bello citare la traduzione francese del titolo, La Griffe du passé, «L’artiglio del passato».

Trame di questo genere sono piuttosto frequenti nel cinema contemporaneo, ma se quel film fosse stato fatto oggi avrebbe mantenuto quello stesso romantico alone di nostalgia? Certo, è da poco uscito l’ultimo discutibile film di Jim Jarmusch, I morti non muoiono, ideale prosecuzione di Solo gli amanti sopravvivono, e insieme a questo ne continueranno a uscire molti altri considerando che l’industria cinematografica attinge fortemente dal patinato gusto retromaniaco almeno da un paio di decenni. Lo stesso Retromania di Simon Reynolds parlava di una situazione culturale giunta a un vicolo cieco per via del suo continuo ritorno al passato, incapace di organizzare la costruzione di un immaginario futuristico, o anche solo diverso da quelli passati. Ma il punto è proprio questo: è sensato parlare ancora di retromania come di una tendenza imperante e onnipervasiva?

Qui è opportuno differenziare il piano culturale da quello politico, anche se l’uno influenza l’altro e viceversa, in maniera spesso inscindibile. Giunti all’ultimo scorcio del 2019, credo ormai che risulti più attuale e autentico descrivere la nostra contemporaneità come totalmente impantanata nel suo più immediato e cieco presente, anziché nel suo passato. Il discorso sulla retromania sembra essere ormai obsoleto, politicamente parlando. Ha certamente funzionato per alcuni anni; perché è vero, il primo periodo della vera diffusione di internet aveva corrisposto a un prepotente ritorno al passato, una fase dominata dal senso del ricordo e da una memoria che non voleva o non poteva farsi storia, affogando nel revisionismo il nostro giudizio e il nostro modo di pensare. Oggi invece le cose sembrano leggermente diverse. La tecnologia si è sviluppata in maniera veloce e costante, modificando radicalmente il mondo e la percezione che abbiamo di questo. Sembra che il futuro smart, iperconnesso e tecnologico che sognavamo fino a pochi decenni fa sia finalmente arrivato, forse in maniera talmente veloce da farci trovare impreparati. Diversi aspetti della tecnologia ci restano oscuri, mentre altri sappiamo già con una certa sicurezza che si riveleranno pericolosi o dannosi per la nostra libertà – e più in generale sopravvivenza.

Così, prima della nascita di internet costruivamo utopie ed eravamo proiettati verso il futuro, a volte con un’ingenuità quasi illuministica: pensavamo che internet sarebbe stato un paradiso comunitario, nonostante il monito del cyberpunk. Poi siamo passati, attraverso gli infiniti archivi digitali, alla fascinazione morbosa per il passato: abbandonando la nostra capacità di immaginare scenari futuri abbiamo iniziato a vaporizzare quell’entusiasmo internettiano. Infine, ci siamo ritrovati immersi in un inviolabile presentismo che da una parte non ci consente di elaborare il passato, dall’altra ci impedisce di guardare verso il futuro.

Passato paternale

Lo scrittore Antonio Scurati, intervistato subito dopo aver vinto il Premio Strega 2019, ha spiegato che con il suo romanzo M. Il figlio del secolo voleva raccontare «la Storia ad altezza d’uomo», per poi proseguire sostenendo che viviamo prigionieri del presente – si parla di «presentismo» –, mentre la nostra esistenza andrebbe misurata su un metro temporale più lungo, perché misurandola solo sul piano temporale del presente le cose importanti della vita si perdono. Il suo discorso era incentrato su un’ennesima tirata paternalistica avente per tema l’importanza della Storia. Non a caso il suo ultimo libro, il primo di una trilogia dedicata a Benito Mussolini, presenta una tesi davvero originale: il fascismo è stato una brutta cosa.

Questo episodio apparentemente innocuo è in realtà riassuntivo del modo di pensare della sinistra mainstream.  La condanna a vivere univocamente e ineluttabilmente nello stato del presente porta con sé, quasi fosse una pena accessoria, il tentativo di attualizzare ancora una volta – per l’ennesima volta – il passato. Il passato non è vissuto come una narrazione dalla quale attingere dopo aver meditato su errori e virtù in vista della progettazione di un futuro, quanto piuttosto come topos da classicizzare. Il passato viene insomma richiamato unicamente per rivendicare autorevolezza e rispettabilità. Proprio ragionando su queste sfasature notiamo come «[…] al “classico” in quanto tale continuiamo nonostante tutto a connettere valori ritenuti universali, come la perfezione, la misura, l’equilibrio, la grazia, l’intensità e la naturalezza dell’espressione» e al tempo stesso gli attribuiamo «[…] messaggi sempre attuali per la pienezza della civiltà, intendendoli come perpetui e atemporali e rimuovendone la natura di prodotti storicamente determinati» – come spiega Salvatore Settis nel suo Futuro del «classico». Il classico – è bene ricordarlo – è un concetto arbitrario e occidentale, e irradia di fondatezza e atemporalità le azioni e i prodotti che, platonicamente, ne partecipano. È un qualcosa che riguarda il passato ma che è utilizzato nel presente; allo stesso tempo, il costante richiamo a una tale sacralità inibisce lo sviluppo di una ipotetica configurazione materiale del futuro.

Radicalizzando questo discorso – ricordando cioè soltanto ciò che rientra nel concetto di «classico», e ricordando soltanto i vincitori lasciando ai margini tutto il resto –, ci ritroviamo con una Storia piallata e priva di reale porosità dialettica, la cui concretizzazione più lampante è la fukuyamiana fine della storia. Senza considerare che il nostro presente inizia ad essere sempre più algoritmico, e le conseguenze di questo potrebbero essere non proprio piacevoli: come notava l’artista Trevor Paglen, «il passato è un luogo alquanto razzista. E noi disponiamo solo dei dati del passato per istruire l’Intelligenza Artificiale».

In questo modo quel poco di buono che il nostro travagliato passato più prossimo ha apportato finisce per scomparire, favorendo l’inerzia di un presente espanso dominato da umori passeggeri, privo di intuizioni e riferimenti; è proprio a proposito di questi temi che Mario Tronti parla di una «politica senza Novecento» il cui esempio più lampante è il pensiero post-ideologico tanto in voga negli ultimi tempi. Sono idiosincrasie umorali che fanno capo a un modo di intendere la temporalità come un qualcosa di esclusivamente immediato, sganciato da qualsiasi prospettiva pragmatica e progettuale.

Ma cosa si trova alle fondamenta di questo modo di pensare? Il lassismo contemporaneo che sta portando il mondo al collasso in nome del motto «tutto e subito», prima di farsi condizione esistenziale è innanzitutto una delle modalità di intendere filosoficamente il futuro – come vedremo, negandolo.

Il presentismo è caratterizzato da una dimensione temporale «ridotta a un solo istante, al cui interno troviamo tutte le entità che via via compongono l’universo»

Metafisica del futuro

È fatto noto come il concetto di tempo abbia impegnato pensatori e scienziati di ogni epoca, sconfitti ogni qual volta abbiano provato ad abbozzarne una definizione, una formulazione di qualsiasi tipo o una risposta alle domande che suscita. 

Il tempo è, a voler semplificare all’osso, una delle questioni fondamentali della filosofia. Ma anche senza ripercorrere l’intera storia del rapporto tra filosofia e tempo, è evidente a chiunque come la nostra percezione del tempo sia scandita da: una porzione recuperabile solo attraverso la memoria, chiamata passato; una porzione evanescente e istantanea che viviamo momentaneamente, chiamata presente; una porzione di tempo che deve ancora accadere, chiamata futuro. E però, già quando si prova a circoscrivere ognuna di queste dimensioni – quando si cerca di capire fin dove arrivi il passato, o fin dove arrivi il futuro, o quanto duri il presente, o quando si prova a capire quale relazione intercorra tra tempo e spazio – sorgono problemi significativi.

Può apparire banale e scontato percepire il tempo come qualcosa che scorre, quindi considerare pertinente l’esistenza di entità nel passato, nel presente e nel futuro; eppure è proprio il tema su cui si interroga il dibattito filosofico contemporaneo sulle cosiddette «ontologie temporali». Le questioni di ontologia temporale riguardano in particolare la relazione tra esistenza e presenza – tra chi, cioè, distingue in maniera più o meno radicale tra esistere ed essere presente. Tra le varie correnti di pensiero, perlopiù di area anglofona e analitica (ma anche italiana con esponenti come Giuliano Torrengo, Samuele Iaquinto, Andrea Iacona), bisogna distinguere tra quelle che sono essenzialmente le due scuole principali: una che considera i «modelli dinamici», ovvero la concezione secondo cui il tempo è inteso come un continuo flusso di eventi, a prescindere dall’idea che se ne possa fare l’osservatore; l’altra che considera i «modelli statici», vale a dire pensare il tempo nei termini di un blocco che non scorre, nonostante gli eventi si susseguano secondo un indubbio ordine temporale. 

Tra i modelli dinamici, l’«erosionismo» è la teoria secondo cui il passato non è reale, ma lo sono soltanto il presente e il futuro. Il futuro mano a mano che si rende presente svanisce nel passato cessando di essere realtà. Il presente è da considerare come il bordo di un futuro che di volta in volta viene consumato, «eroso» appunto dal tempo che passa. 

L’erosionismo è anche chiamato «decrementismo», in opposizione alla concezione diametralmente opposta chiamata appunto «incrementismo», secondo la quale esiste tutto ciò che è passato o presente, non considerando come esistenti le entità future. Il presente in questo caso svolge precisamente l’opposta funzione di margine della tesi erosionista: separa il tempo già trascorso da quello non ancora trascorso.

L’«eternismo» è invece la concezione secondo cui esiste tutto ciò che è passato, presente o futuro. Esistiamo noi che viviamo il presente in questo momento così come esiste William Shakespeare o il presidente degli Stati Uniti d’America dell’anno 2187. L’idea di eternismo è conciliabile tanto con il modello dinamico (il tempo in questo caso può essere pensato come una storia con un insieme ordinato di momenti) quanto con quello statico (il passaggio del tempo sembrerebbe essere una percezione illusoria). 

Non è così per il «presentismo», secondo cui esiste solo ciò che è (al) presente. Chiaramente, una posizione di questo tipo contempla un tipo particolare di modello dinamico, una sorta di sintesi sottrattiva tra erosionismo e incrementismo. In Filosofia del futuro, Samuele Iaquinto e Giuliano Torrengo, sostanzialmente riassumendo le posizioni di Prior, Hinchliff e Markosian, spiegano che il presentismo è caratterizzato da una dimensione temporale «ridotta a un solo istante, al cui interno troviamo tutte le entità che via via compongono l’universo». La linea temporale non è da immaginare come la classica freccetta che scorre verso destra (il futuro), quanto piuttosto come una barretta priva di frecce al cui interno accade la mutazione continua di tutto ciò che esiste, venendo così a costituire lo scorrere del tempo.

Le ontologie temporali che ho rapidamente presentato sono state concepite da diversi pensatori che hanno affrontato il problema del tempo apportando i loro contributi dal punto di vista metafisico, logico e ontologico, ma non in quello morale – o quantomeno non in maniera diretta ed esplicita. Eppure, potrebbe essere non completamente privo di costrutto ragionare sulle eventuali conseguenze politico-esistenziali delle diverse posizioni, a cominciare dalla tesi che tra tutte, come abbiamo visto, sembra essere quella più vicina al senso comune: il presentismo.

Presentismo esistenziale

Nell’aprile del 1988 James Ballard in un’intervista per ZG intitolata Myths of the Near Future (sì, proprio come la sua raccolta di racconti dell’82) raccontava come negli Trenta e Quaranta del Novecento la gente mostrasse un grande interesse per il futuro, anche perché gli attribuiva uno sfondo morale superiore a quello in cui vivevano. Persino totalitarismi come il fascismo erano fortemente programmatici e ambivano alla costruzione di un futuro «migliore». Dalla fine degli anni Cinquanta invece «[…] il futuro in qualche modo ha perduto la sua presa. Io penso che sia morto. La gente ha perduto interesse per il futuro. Hanno cominciato ad aver paura del futuro». La prosperità degli anni Sessanta e Settanta, anche per via della smisurata espansione industriale e dell’esplosione pop, indusse una specie di infantilismo, e la gente smise di aver a che fare con una scala temporale che andasse al di fuori dell’immediato presente: «la gente non ha più alcun senso di quel che è accaduto ieri o di quel che potrebbe accadere dopodomani». 

Ballard parla di smantellamento del tempo, una dimensione in cui si è immersi nella pienezza dei propri bisogni e delle proprie soddisfazioni, nella quale un monolitico presente ammanta di nebbia il passato e il futuro, costringendoli alla scomparsa. 

Un altro scrittore di fantascienza, William Gibson, fa dire a uno dei protagonisti del capolavoro Pattern Recognition (un caso di traduzione italiana del titolo in questo caso orribile: L’accademia dei sogni): «Non abbiamo futuro perché il nostro presente è troppo volatile. La sola possibilità che ci rimane è la gestione del rischio. La trottola degli scenari dell’attimo presente». Pattern Recognition è tra le altre cose il primo romanzo del Ciclo di Bigend, la trilogia gibsoniana in cui la temporalità non è più iper-futuristica come nella tradizione di altre sue opere (Neuromante, La notte che bruciammo Chrome, ecc…), ma spostata a un presente/futuro: un futuro prossimo per citare Ballard. 

La stessa precarietà del futuro è anche al centro dell’opera di Franco «Bifo» Berardi. In Dopo il futuro insiste su come l’idea di futuro fosse stata in passato mossa da un modello teleologico progressivo, una positività percepita come insita in questo concetto, ma che è andata col tempo svanendo. Più radicalmente, Bifo parla di una lenta cancellazione del futuro causata da quello che invece Mark Fisher ha ribattezzato realismo capitalista: secondo Bifo, «al Capitale non occorre più usufruire dell’intero tempo di vita di un operaio, gli occorrono frammenti isolati di tempo, istanti di attenzione e di operatività». Nemmeno la certezza di essere schiavi per tutta la vita godendo almeno di una sicurezza economica: il Capitale «[…] va alla ricerca del frammento di lavoro che può essere sfruttato a un costo più basso, lo cattura, lo usa e lo espelle. Il tempo di lavoro è frattalizzato, cioè ridotto a frammenti minimi ricomponibili […]».

Sarebbe rincuorante poter ammettere di aver fatto la scelta di pigiare il piede sull’acceleratore per vedere finalmente il collasso in diretta; oppure aver accettato, attraverso tutte le sue conseguenze, il fatto che la vita non sia dotata di senso.

Sull’orlo del suicidio

Com’è noto, per Antropocene intendiamo l’era che vede l’essere umano come principale responsabile dei cambiamenti della Terra. Ma a questa responsabilità effettiva non corrisponde alcuna presa di coscienza: al contrario, il nostro disinteresse nei confronti del problema del cambiamento climatico, il ritardare di volta in volta misure drastiche che cercherebbero di porvi rimedio, frutto dell’incapacità di andare oltre il presente e capire che il futuro potrebbe essere ben più traumatico di quanto non sia ora, mostrano chiaramente quanto egemonica sia la visione presentista (da questo punto di vista le ultime prodezze di Bolsonaro parlano chiaro). 

Sarebbe almeno rincuorante poter ammettere di aver fatto la scelta di pigiare il piede sull’acceleratore per vedere finalmente il collasso in diretta; oppure aver accettato, attraverso tutte le sue conseguenze, il fatto che la vita non sia dotata di senso e per questo invocare una pulsione di morte più grande di noi che ci porti via; insomma sarebbe liberatorio – oltre che in qualche modo razionale – sapere che questa nostra indifferenza è parte di un progetto. Purtroppo non è così. D’altronde è una situazione che non riguarda soltanto l’ecologia, ma anche vari altri settori che ormai da anni gridano all’allarme: dall’economia, con la sua ormai abusata frattura «1% ricchi vs. 99% poveri», alla stessa information technology, col suo tentativo di costruire un’IA già completamente perfezionata lasciando in libertà una serie di vuoti parametrici che potrebbero attivarsi in nostro sfavore per le contingenze più svariate. Le risposte più immediate a simili problemi sono cose come il capitalismo verde, la rivalutazione di imprenditori come Elon Musk e Jeff Bezos e l’automazione al servizio del Capitale.

La narrazione ufficiale della catastrofe non è insomma né quella proposta da Bifo né quella avanzata dallo stesso Fisher. Eppure vivere nello stato di allarme e di crisi irrisolvibile a cui siamo sottoposti quotidianamente non è affatto normale. Caratteristica distintiva dei nostri tempi, questa condizione esercita anche notevoli influenze sul nostro apparato psichico, con conseguenze chiaramente di natura depressiva. Il film di Paul Schrader, First Reformed, parla proprio di questo: un uomo decide di far abortire sua moglie dopo aver riflettuto sul fatto che il mondo è in rovina, finendo per suicidarsi. 

La figura del depresso cronico, o meglio ancora del suicida, è probabilmente archetipica della condizione contemporanea in cui ci è dato di vivere. Il suicida è probabilmente colui che vive in maniera più intensa il presente, tanto da metterlo in un piano che è privilegiato rispetto al passato e al futuro. Per compiere il fatal gesto bisogna abbandonare ogni aspettativa positiva per il futuro che sta arrivando, o vivere un presente talmente saturo di malignità da offuscare il futuro. Ma al tempo stesso, il suicidio è anche un redde rationem nei confronti del passato che vede quest’ultimo come sostanzialmente vissuto invano, screditando l’importanza dei momenti che sono trascorsi in favore di un soffocante presente che diviene vieppiù insopportabile.

La mia non vuole certo essere un’apologia del suicidio, anche se come pratica può sicuramente avere un senso, e sulla sua legittimità si interrogano diverse linee di pensiero contemporaneo. Lo scrittore Thomas Ligotti ad esempio è assediato da questo e altri dubbi, come se sia conveniente o meno essere nati. Così come lo era il filosofo suicida Carlo Michelstaedter che nel suo La persuasione e la rettorica radicalizzava sino al paradosso, oltrepassando l’engagement dans l’action sartreano, la percezione del tempo vissuto: «Fare non è per aver fatto; aver fatto non giova; quello che hai fatto non l’hai nel presente ma lo vuoi conservare; per averlo devi rifarlo come ogni altra cosa: e non giungi a un fine». In un altro episodio Michelstaedter descrive la vita come «[…] un’attività che fingendo piccoli scopi conseguibili via via in un vicino futuro, dia l’illusione di camminare a chi sta fermo». E su questa scia è impossibile non pensare al suicidio dello stesso Mark Fisher: calarsi cioè nella condizione esistenziale di chi ha scritto un libro sull’incapacità umana di progettare nuovi scenari futuri e utopici.

Come già detto, non è mia intenzione argomentare qui pro quo o contro la vita, ma interrogarmi in merito alle prospettive sulla temporalità che emergono dalla riflessione sul suicidio. Anche perché cos’è la morte se non il controdesiderare, paradossalmente attraverso il congedo dal presente, un eterno e statico presente privo di vita? Immerso com’è proprio in una condizione di temporalità, l’essere umano non può concepire un’alternativa a questa condizione, nella fattispecie l’eternità, se non come appunto un eterno presente, che non si fa mai passato, cristallizzandosi dall’esperienza alla memoria, né è mai stato futuro, con tutte le problematiche inerenti agli aspetti potenziali di quest’ultimo.

Proseguendo sulla stessa scia si potrebbe allora ipotizzare che in questa nostra condizione, così prossima al crollo e soprattutto non ricettiva nei confronti dei segnali di allarme che ci arrivano dall’esterno, l’unica speranza sia un risveglio generale che consenta la riapertura alle altre due dimensioni temporali – a cominciare da quella del futuro. In questo lento suicidio verso il quale siamo diretti, ci ritroviamo a dover sperare di ritrovarci nella funzione del suicidio «mancato». Il tentato suicidio, infatti, molto spesso si carica di un ruolo catartico che riaccende attese e speranze che non sembravano contemplabili. Nelle violente interruzioni del presente ininterrotto – anche causate da gravi malattie o da traumi profondi – capita che ci si ridesti e si scelga di riprendere in mano le bozze di un programma esistenziale. 

In Futurabilità Bifo dice che «se vogliamo trovare una via d’uscita, dobbiamo guardare la bestia negli occhi» – ed è in sostanza proprio come stiamo già facendo. Il capitalismo è un cadavere e noi ci siamo dentro. Siamo in un presente degradato, lo sappiamo; costantemente davanti a noi c’è la bestia, e la nostra reazione è una sorta di epochè prolungata all’infinito: non abbiamo il coraggio di prendere una decisione collettiva e drastica.

La fantascienza si è spesso servita dello zombie per fare paragoni, più o meno velati, sulla società morta, priva di impulsi e soggiogata da uno scorrere monotono che rende il soggetto al pari di un morto vivente divenuto incapace di provare esperienze. Il soggetto anestetizzato è privato della sua estetica e del suo sentire, prova con sempre meno frequenza emozioni e sensazioni. In questa situazione la politica, o la carica politica dell’arte, diviene inconsistente: non attrae più e soprattutto non crea una sensibilità comune entro la quale proiettare scenari utopici. Come spiegato (anche se seguendo un ragionamento diverso) da Nick Srnicek e Alex Williams in Inventare il futuro è inutile aspettare l’ennesimo programma proposto dalla folk politics perché come abbiamo visto – e come continuiamo a vedere ogni giorno – la sinistra mondiale è stata sconfitta e tagliata fuori. Proprio per questo non resta che sperare in un mancato suicidio.

Se è vero che l’utopia è la narrazione immaginaria del futuro, questa, in quanto ambisce a immettere il futuro nel presente è costretta a lavorare unicamente con la materia del non-essere.

Raccontare il futuro

Potrà sembrare banale ribadirlo, ma tutti, più o meno, del passato abbiamo memoria, mentre del futuro non abbiamo percezione. Ogni politico può appellarsi al passato, evocandolo o contrapponendovisi, per modellare la sua retorica, mentre il futuro è inaccessibile alla facoltà della memoria o della percezione. Il nostro unico accesso al futuro avviene mediante previsioni e attraverso la pianificazione di obiettivi, mediante proiezioni che passano inevitabilmente attraverso il vaglio dei nostri sensi: soltanto cioè attraverso l’astrazione del desiderio e della fantasia. Il libro Il desiderio chiamato utopia di Fredric Jameson ragiona sin dalle prime battute su questa sfasatura, mettendola in relazione col concetto di utopia, spiegando come tanto più l’utopia si differenzia con radicalità dall’esistente, tanto più essa diviene non solo irrealizzabile, ma peggio ancora inimmaginabile. 

Il problema è ancora una volta ontologico: se è vero che l’utopia è la narrazione immaginaria del futuro, questa, in quanto ambisce a immettere il futuro nel presente è costretta a lavorare unicamente con la materia del non-essere. Filosoficamente parlando però, lo statuto temporale del futuro è del tutto simile a quello della traccia del passato: anche far riferimento al passato significa imbattersi in un ibrido di essere e non-essere. Quindi l’utopia, trovandosi a combinare il non-essere-ancora del «[…] futuro con un’esistenza testuale nel presente, non è meno valida delle archeologie che siamo disposti a garantire alla traccia» del passato – dice Jameson, tenendo a mente le considerazioni del Paul Ricoeur del monumentale Tempo e racconto.

Nonostante tutto questo, non mancano modi bucolici e romantici di vivere già il presente. Il filosofo primitivista statunitense John Zerzan in un articolo dal titolo Il tempo della discordia racconta tutta la sua rabbia nei confronti dell’ideazione e del calcolo del tempo, dal momento che questo «[…] ha colonizzato la soggettività come mai prima». La filosofia di Zerzan prende le mosse da certo anarchismo verde americano, ed è infatti totalmente incentrata sul ritorno a un’epoca primitiva priva di disastri ecologici, che non contempli nella maniera più assoluta qualsiasi forma di tecnologia. Sebbene possa non essere immediatamente chiaro, Zerzan non è però un nostalgico del passato. Quello che viene propugnato qui è piuttosto un ritorno a una dimensione ideale, ancora una volta assimilabile a una sorta di eterno presente. In un altro articolo, intitolato Una corsa sul vuoto: il fallimento del pensiero simbolico, Zerzan espone quella che è la diretta e naturale conseguenza del suo ragionamento: la negazione del pensiero simbolico tout court, considerato «l’essenza stessa della civiltà». Anche questo, come il tempo, sarebbe una profonda limitazione della libertà umana per via della sua costrizione a ragionare secondo simboli, concetti, schemi e linguaggio. Nonostante la scarsa attendibilità storico-antropologica di Zerzan, è interessante l’esempio che prende dagli studi dello psicologo Heinz Werner, che lavorò molto sulle relazioni tra psicologia genetica e antropologia, sostenendo come in principio operasse nell’umano un singolo senso, prima che la civiltà abbattesse la potenza ricettiva di questa unità sensoriale. L’utopia zerzaniana è chiaramente difficilmente attuabile: per scardinare il fardello concettuale che ci portiamo dietro bisognerebbe ripristinare una pre-società priva di linguaggio e, appunto, comprensione simbolica, ovviamente dopo un collasso del sistema capitalistico. Ma per pre-linguizzarci probabilmente dovremmo aspettare diverse generazioni che si dirigono verso l’involuzione concettuale. Un esperimento di immaginazione simile è stato proposto da Edmund Husserl – citato dallo stesso Zerzan – nella sua ricerca L’origine della geometria nella quale intendeva risalire al senso più originario in cui la geometria si fosse costituita (temi del genere appassionano anche gente che proviene da tutt’altro campo, come James Ferraro, uno che ha ragionato molto sull’importanza del tempo nei suoi lavori).

A lamentare esplicitamente una contemporaneità malata di «presentismo» sono invece Giuseppe De Rita e Antonio Galdo nel loro libro Prigionieri del presente, che scorgono nella modernità la «[…] sottomissione a un eterno presente, il tempo circolare, frantumato in un’incessante sequenza di attimi». Purtroppo gli autori sono quello che sono e infatti il libro è pervaso da un alone di nostalgia che preclude qualsiasi impulso utopico o entusiasmo nei confronti del futuro: anzi, affiorano spesso espliciti attacchi alla tecnologia, chiaramente condotti in chiave antimodernista. Altrettanto chiaramente, l’antidoto a questa «trappola della modernità» è un sano cattolicesimo di matrice conservatrice. Voci del genere sono parte di un intero coro di solido e tradizionale allarmismo tecnofobo che, come avviene molto spesso, manca di riconoscere la complessità del discorso.

C’è da dire però che anche la tecnologia, più nello specifico internet, ha giocato un ruolo non secondario. Come racconta James Bridle nel suo Nuova era oscura, la rete non nasce come cattiva o pericolosa: anzi, la sua qualità distintiva è proprio la mancanza di uno scopo chiaro e preciso. Per questo abbiamo sempre più bisogno di una vera e propria alfabetizzazione per fare in modo di acquisire conoscenza «[…] profonda non solo del linguaggio di un dato sistema, ma anche del suo metalinguaggio – ovvero del linguaggio di cui il sistema si serve per parlare di sé stesso e per interagire con altri sistemi». Bridle nel capitolo intitolato Computazione si concede un lungo excursus nel quale delinea una sorta di storia di Internet che parte addirittura da John Ruskin e arriva a oggi, traendone come tutta la computazione contemporanea prenda origine «da questo snodo fondamentale: i tentativi militari di predire e controllare il tempo atmosferico, e quindi il futuro». La tecnologia ha sempre avuto l’ambizione di controllare e calcolare il tempo, e come abbiamo visto ci ha dato la capacità di costruire scenari del futuro e quella di riattivare tracce del passato. Oggi abbiamo una tecnologia addirittura più potente, ma «la computazione ha fuso il passato con il futuro». Questa infatti non governa soltanto le nostre azioni del presente, ma «fabbrica un futuro che si accorda al meglio ai suoi parametri». Siamo soggiogati da questa situazione e ne conosciamo le cause solo a grandi linee. Pensiamo alla rete come a un qualcosa di astratto e addirittura di mistico – il caso vuole che sia il Paul Schrader di First Reformed che il James Bridle di Nuova era oscura citino il testo anonimo di un mistico del secolo XIV titolato La nube della non-conoscenza.

Quello che Bridle intende con computazione è ciò che autori come Morozov, nel suo To Save Everything, Click Here, hanno chiamato soluzionismo: vale a dire la fiducia nel fatto che qualunque problema possa essere risolto grazie a un calcolo. In poche parole, una spiegazione perfetta di come funziona la società contemporanea dominata dai suoi algoritmi e dal nostro sempre meno pronunciato potere di giudicare, confrontare e soprattutto decidere: una situazione che ha spinto il filosofo francese Éric Sadin, ipercritico nei confronti della tecnologia, a parlare di aletheia algoritmica. Le macchine hanno cominciato a decidere al posto nostro, lasciandoci vivere sui binari di un presente già pianificato, che scorre seguendo una traiettoria non modificabile, preimpostata e non tracciata da noi.

Ancora in Dopo il futuro Bifo aveva parlato di «corpo glabro» proprio per intendere una perdita della porosità, caratteristica del vivente, e quindi della sensibilità, in seguito al nostro modo di rapportarci alla tecnologia – nel modo in cui ci è dato viverla e non per quello che potrebbe in realtà offrire. Il suo ultimo libro Breathing. Chaos and Poetry uscito lo scorso anno per Semiotext(e) fa seguito al già ultrapessimista Futurabilità e suggerisce l’affanno (breathlessness) per descrivere la nostra condizione contemporanea caratterizzata da un futuro che si sta scrivendo senza il nostro supporto, ma «da catene algoritmiche inscritte negli automatismi tecno-linguistici». Grazie al linguaggio avevamo la capacità di sottomettere il futuro alle nostre intenzioni, ma da qualche tempo sembra che un altro codice abbia acquisito questa capacità. Denaro e linguaggio hanno in comune la caratteristica di essere nulla, eppure detengono la capacità di influenzare ogni cosa: sono ambedue in qualche modo profetici e hanno il potere di predire il futuro. Se la profezia è «una forma di predizione che attua lo sviluppo del futuro attraverso persuasione ed emozione» e che grazie agli effetti sociali delle reazioni psicologiche al linguaggio può autorealizzarsi, allora l’economia finanziaria ne è l’esempio perfetto: basta pensare alle agenzie di ratings che declassano imprese o valute nazionali influenzando il futuro di quelle imprese o di quelle nazioni.

Diviene allora impellente interrogarsi sulla possibilità (ed eventualmente sulle modalità) di fuga dagli effetti della profezia e del codice. Non è infatti un problema di volontà. I flussi di dati che regolano gli algoritmi dell’economia finanziaria viaggiano a velocità per noi inintelligibili. Questo andamento e questa complessità sono troppo densi e troppo veloci da decifrare. Bifo parla non a caso di un’intensificazione digitale del flusso semiotico capace di spezzare il ritmo che avevamo ereditato dall’epoca moderna: la cara vecchia civilizzazione che intendeva trasformare il caos in ordine e matematizzare ogni cosa. L’accelerazione del cyberspazio ha superato i limiti fisici del nostro ritmo mentale. Il caos è una realtà non oggettiva: è infatti l’incapacità di distinguere tra il rilevante e l’irrilevante, la rottura del nostro «framework of relevance». L’unica via di uscita da questa situazione apocalittica è sperare in un secondo avvento. Per Bifo, il secondo avvento del comunismo non consisterebbe in una forzata rivoluzione politica, quanto piuttosto in una riorganizzazione del marxiano general intellect: nel portare al potere la poesia. 

Facile cadere nella nostalgia e pensare al Sessantotto, se non altro perché queste idee provengono da uno dei protagonisti di quel momento storico. Ma nonostante il Sessantotto sia considerato da Bifo come un picco dell’evoluzione umana, le cose sono cambiate di molto da quel periodo: l’avvento del neoliberismo ha cancellato il futuro, e allora la poesia (non intesa in senso prettamente letterario ma nella sua accezione originaria di poiesis, attività con cui si porta all’esistenza ciò che prima non era) diviene lo strumento per andare oltre questi nostri vincoli mentali; la poesia è la possibilità di accedere a ciò che c’è oltre il limite, la capacità di liberare la possibilità. 

Bridle e Bifo ci fanno capire che il futuro è arrivato – ma non quello utopico che ci aspettavamo decenni fa. Il futuro è adesso in questo momento, e sembra non essercene un altro che arriverà a termine indefinito. Il capitalismo non attrae più consensi come negli anni Novanta e ha ormai perso la sua credibilità, ma è considerato come qualcosa di oramai inevitabile. Tecnologia e capitalismo dominano ogni istante delle nostre vite, e dopo che gli abbiamo donato il potere di scrivere il nostro domani ci hanno condotto in una nuova era oscura. A noi non resta altro che l’inerzia di un semio-capitalismo caotico, cristallizzato in un presentismo senza futuro.