Heather Cassils, Becoming An Image

Nulla è tanto sacro da non poter essere riprogettato

Il futuro è possibile, ma solo dalle fratture che si presentano nell’ordine previsto. Dal cyberpunk allo xenofemminismo, riflessioni sul rapporto tra immaginario, tecnologia e realtà

Nel suo testo Dopo il futuro, Franco Berardi detto «Bifo» riprende un episodio riguardante Steven Spielberg. Era il 1979 e il regista fece una profezia sul futuro della comunicazione. Secondo lui un giorno sarebbe avvenuta attraverso una connessione diretta dei nostri neuroni con delle onde elettromagnetiche capaci di influenzare l’umore e di produrre immaginazione.

Nel 2013 Terry Gilliam ci mostrò qualcosa di molto simile con il suo The Zero Theorem – Tutto è venità. Nel film, Qoehn Leth – un hacker interpretato da Christoph Waltz – si ritrova dopo varie vicissitudini a sperimentare, nella chiesa sconsacrata in cui abita, una tuta che gli permette di entrare e uscire da una dimensione virtuale capace di incidere su di lui, sulle sue relazioni e sul reale. Solo che ad un certo punto la tuta lo trascina in una sorta di Rete Neurale che ha il sapore della profezia di Spielberg.

Sempre sulla stessa scia, Bifo riprende la letteratura fantascientifica degli anni Ottanta, riferendosi principalmente allo scrittore Philip K. Dick e alla domanda che lo attanaglia: che cosa è il reale? Prima di andare avanti allora è il caso di fare una piccola digressione su cosa si intende con virtuale e con reale e su come si rapportano.

Prendiamo ad esempio un altro film. Ne La via lattea di Luis Buñuel, in particolare nella scena del sogno dell’uccisione del Papa, che cosa avviene? Che il rumore dello sparo virtuale si sente/percepisce nell’attuale, creando una sensazione di spaesamento e turbamento, portando delle comparse a chiedersi che cosa fosse stato quello sparo.

Per Deleuze le due dimensioni nelle quali si svolge lo scambio tra attuale e virtuale sono coesistenti, anche se si tratta di due dimensioni ontologicamente differenti: due tempi distinti che però risultano indiscernibili. In tal senso quella letteratura, quel cinema, diventano potenza di trasformazione del reale, produzione di immaginari capaci di farci camminare fuori dal nostro ambiente di riferimento. In Heroes, un altro testo relativamente recente, Bifo pone l’attenzione anche sull’immaginazione, descrivendola come quella facoltà che ci permette di andare oltre i limiti del nostro linguaggio – «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo» scriveva Wittgenstein nel Tractatus – e di utilizzare i frammenti immaginari raccolti dall’esperienza del passato per ridisegnare i confini e le forme, verso nuovi orizzonti e mondi mai visti. Quando ci si riferisce in questi termini al reale, non lo si intende come un reale già dato a priori, ma come un qui e ora tutto da costruire e da cui ripartire; un reale in cui l’utopia è un motore contingente al reale stesso, non una prospettiva futura da raggiungere. Questa è la grande differenza tra la fede della trascendenza e la fede dell’immanenza. La fede dell’immanenza non evoca nulla di trascendente e diventa fiducia in questo mondo.

Nello stesso testo, Bifo sostiene che nella realtà dell’epoca postmoderna, l’identico viene ripetuto e codificato da quella che definisce tecnologia di simulazione, ovverosia la funzione del codice di eliminare l’evento. Questo accade perché il codice funziona per via algoritmica, senza prevedere un fuori. L’evento può esserci, ma inaspettato, perché si presenta unicamente come sorpresa. Il futuro è possibile, ma solo dalle fratture che si presentano nell’ordine previsto. Se l’ordine prevede l’eterno ritorno dell’identico, le fratture producono l’inaspettata ripetizione del differente.

Bifo si chiede allora come ci possa essere un futuro, come si possano praticare quelle fratture inaspettate, se tutto è già algoritmicamente scritto. Questa domanda risuona con un’altra, ultimamente molto conosciuta. Mi riferisco a quel Is There No Alternative? che fa da sottotitolo nella copertina di Capitalist Realism di Mark Fisher, pubblicato da Zero Books nel 2009.

Il primo capitolo di Realismo Capitalista (traduzione italiana pubblicata nel 2018), titola così: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. In questo capitolo Fisher si riferisce inizialmente a I figli degli uomini, un film di Alfonso Cuarón del 2006. La cosa emblematica è che nel film in questione non ci sono ansia e/o paura per una catastrofe imminente, né ci sono i segni di una catastrofe già avvenuta. La catastrofe piuttosto viene vissuta e attraversata e il mondo, piuttosto che esplodere o finire, si limita ad esaurirsi, andando lentamente a pezzi. In questa condizione nessuno può farci nulla: tutto è già scritto. Come può esservi futuro quando tutto è già scritto?, quando il capitalismo – o la catastrofe, in questo caso – ha già scritto tutto? Che frustrazione! Possibile che davvero non ci aspettino cambiamenti di sorta, che non rimarremo più spiazzati da quello che verrà? Possibile che non si producano quelle fratture?

Quando Bifo sostiene che oggi il reale è il prodotto di uno sguardo paranoico, non è lontano dall’affermazione di Fisher per cui il realismo è qualcosa che ricorda molto la figura del depresso, portato ad avere fede soltanto nell’impossibilità di fare qualunque cosa: ogni speranza o dimensione positiva, ogni tentativo di cambiamento, vanno scongiurati, in quanto si tratta solo di illusioni pericolose. È una condizione disarmante. Tiziana Villani, nel suo Corpi Mutanti, spiega molto chiaramente come le dimensioni pervasive del sistema capitalista ci portino ad atomizzarci, ad essere incerti e precari, in un processo che lede, distrugge e frammenta i rapporti sociali e individuali. Quasi diventiamo accorti – sostiene – perché sospettosi e timorosi delle reazioni, nostre e degli altri. Siamo addomesticati e l’addomesticamento trasforma l’illusione di possibilità altre in una pericolosa paura.

«Siamo stupidi, moriremo.» È una frase detta da Zhora in Blade Runner, film di Ridley Scott, riadattamento del famoso romanzo Do the androids dream of electric sheep? di Philip Dick. Zhora è una femmina replicante. I replicanti sono delle figure particolari. Si tratta di androidi costruiti per somigliare quanto più possibile agli esseri umani, ma con dei corpi «potenziati», sia dal punto di vista delle capacità fisiche, che dell’intelligenza. Gli scienziati che li avevano prodotti avevano paura che potessero sviluppare delle emotività di qualche tipo e per questo li programmarono per vivere pochi anni. I replicanti inoltre vennero prima schiavizzati e poi utilizzati per svolgere lavori faticosi nelle colonie sparse fuori dal pianeta e poi eliminati da una squadra speciale, chiamata appunto Blade Runner.

Ubaldo Fadini fa un passaggio interessante proprio sulla figura del cyborg nel suo testo del 2009 La vita eccentrica. Soggetti e saperi nel mondo della rete. Il riferimento è al Manifesto cyborg di Donna J. Haraway, connesso anche in questo caso con la letteratura Cyberpunk e il cinema di fantascienza. Fadini usa un’espressione molto efficace per descrivere il cyborg. Il cyborg – scrive – è «un’immagine condensata di fantasia e realtà materiale». Cioè si tratta di qualcosa che non è semplicemente reale e materiale, ma è fatto anche di fantasia, nel senso che va oltre il reale, esprime nuove potenzialità e virtualità, in una processualità che modifica costantemente il reale e la fantasia stessa. Il cyborg allora – sempre seguendo Fadini – è «sia macchina che organismo, è una creatura che appartiene tanto alla realtà quanto alla finzione».

La figura del cyborg come immagine condensata di fantasia e realtà materiale, esprime la possibilità di praticare quelle fratture a cui si accennava prima. La linearità algoritmica salta, in favore di un aperto sempre più attraversabile. L’immaginario aperto dal cyborg può esserci utile per accettare e superare la nostra parzialità costitutiva. Noi siamo per costituzione parziali, siamo quella linea variabile (Foucault), quella variazione di potenza (Spinoza), che sta tra l’assoggettamento e la soggettivazione, in un processo – come sostiene Fadini – di cedimento dei confini predeterminati e inviolabili, che ha a che fare anche con un recupero della nostra stupidità. La stupidità torna nel testo di Bifo. Per lui produce resistenza, scatena rabbia e violenta voglia di trasformare l’esistente, verso quella che chiama la comunità felice. Anche Fadini nei suoi ultimi lavori sostiene qualcosa di simile: la stupidità è qualcosa che ci fa scontrare con lo stato di cose presenti e ci porta a reagire, superando la nostra parzialità nel miglior modo possibile, ma, quando questo scarto non avviene, la stupidità allora produce bassezza.

Date queste considerazioni, qual è allora la caratteristica della cultura Cyberpunk? Quella di far incontrare tutto ciò che ha a che fare con il cyber e con il punk, e che in quanto presenta l’elemento del punk, fa resistenza. È per questo che Bifo può sostenere che il Cyberpunk ha fatto sua l’apocalisse, perché non fa altro che immaginare sempre mondi in cui non è accaduto null’altro che lo sviluppo delle virtualità presenti nel mondo attuale. Che cosa succede se si esprimono le potenzialità delle nuove tecnologie, se si portano alle estreme conseguenze? Questa è l’unica cosa che importa, in tutte le sue forme e combinazioni. Anche in questo caso si torna al rapporto tra virtuale e attuale.

Chi c’è all’origine di questa estrema deriva del Cyberpunk? Per Bifo è chiaro: William Burroughs. Non si tratta di una provocazione, ma si riferisce alla geniale intuizione di Burroughs di inserire con forza l’elemento della viralità nel linguaggio. Il linguaggio diventa un virus. Si esce dal linguaggio lineare e si procede per replicazione, interferenza, invasione e mutazione. La parola, sostiene Bifo seguendo Burroughs, diventa una malattia contagiosa, le tecnologie una «protesi che diffonde illimitatamente la malattia». Saltano così il linguaggio tradizionale e le narrazioni lineari, i piani di realtà cominciano a sovrapporsi.  È per questo che per lui oggi la narrazione riesce a creare e a remixare mondi inventati, fuori dai meccanismi della forma referenziale. La peculiarità del Cyberpunk è quella di riuscire a mescolare le modalità di Burroughs con le procedure compositive della macchina informatica. Quest’ultima non fa altro che associare dei codici ai segni con cui ci interfacciamo: «Il Codice è divenuto seconda natura, e ci aggiriamo tra segni codificati come se fossero alberi, torri, volti di persone sconosciute».

In realtà, in qualche modo, anche noi abbiamo un nostro codice. Negli ultimi decenni l’uomo ha mappato l’intero genoma umano e addirittura ha cominciato ad hackerarlo, aprendo prospettive interessanti, ma anche molto pericolose. La mappatura è stata realizzata e perpetrata dal Progetto Genoma Umano (Human Genome Project). Con Claudio Kulesko ne avevamo accennato nel nostro contributo al primo numero dei Quaderni di Testalepre dedicato a Félix Guattari. Sinteticamente avevamo sostenuto che un problema con cui si sarebbero dovuti fare i conti, a partire da questa mappatura, fosse la creazione di un modello genetico di «umano medio», a cui la ricerca scientifico-medica non può fare altro che piegarsi, rendendo l’evoluzione una mappa striata da rotte predefinite.

Non è un caso che quando Rosi Braidotti ne Il postumano parla della «struttura biogenetica del capitalismo contemporaneo», metta in evidenza come questa non solo riguardi principalmente il Progetto Genoma Umano e tutta una serie di ricerche e interventi biologici che riguardano tutte le forme di vita esistenti, ma riesca anche a trarre profitto da tutto ciò, sia controllando le ricerche scientifiche e gli investimenti economici, sia sussumendo plusvalore dalla vita dei viventi.

Claudia Landolfi in Controllo e discontinuità della «materia informazionale» nella tecnologia digitale, suo contributo al numero 40 di Millepiani, sostiene che l’informazione non solo è legata al controllo, ma produce ripetizione dell’identico. Secondo Landolfi, non ci si può non riferire in tal senso a Deleuze e Guattari, per i quali l’informazione non è altro che un insieme di parole d’ordine. Nei loro testi spiegano molto chiaramente come funziona il legame tra sistema di informazione e la ripetizione. È un legame mortifero, che riproduce l’identico e non il nuovo, congiunto con il controllo, che non si limita ad atomizzare i corpi, ma riesce anche a gestirli, immagazzinandone ogni dato e aspetto (dal livello biologico alla vita quotidiana), codificandoli sempre più: «Nulla sfugge più alla codifica». Da una parte siamo sempre più vittime di un controllo biopolitico dei nostri codici genetici, dall’altra la capacità di hackerare le nostre strutture genetiche apre sconfinate possibilità di ridefinizione e superamento delle nostre parzialità costitutive.

In Carne e tecnica nei biomorfismi cyberpunk da Hopkins a Ghost in the Shell, un articolo scritto a quattro mani con Claudia, eravamo partiti proprio da questo punto. Proviamo a pensare ad una sequenza di DNA come ad una catena di informazioni. Se è tale, c’è differenza tra la sequenza di DNA e un altro emettitore di segni, vivente o non vivente che sia? Questa domanda apre a un’infinita sfilza di rimandi sulla distinzione tra vita e non vita, tra organico e inorganico, almeno a livello biologico. Se a questo aggiungiamo – sempre seguendo Deleuze e Guattari – che il corpo non è altro che un corpo indeterminato, fatto di molteplicità e intensità, cioè pre-individuale, e riprendiamo buona parte della letteratura sull’indeterminazione quantistica, scopriamo come tante delle distinzioni dualistiche, che siamo abituati a prendere per assodate, vengano meno. Non c’è più distinzione tra vita e non-vita, biologico e fisico, naturale e culturale.

Prendiamo ad esempio uno dei primi e più importanti film cyberpunk: Tetsuo, diretto da Shinya Tsukamoto nel 1989. In questo film si vedono gli attori inserire sempre parti metalliche nel proprio corpo, rigettare il metallo e comporsi con esso fino a trasformarsi in una specie di uomo-macchina. Anzi, l’impiegato e il feticista del metallo finiscono per entrare in simbiosi metallica, superando le proprie parzialità in una nova mostruosa creatura.

Pensiamo a Ghost in the Shell, un manga scritto e disegnato da Masamune Shirow e pubblicato per la prima volta nel 1989. La protagonista è il maggiore Motoko Kusanagi, un cyborg completamente robotizzato, che indaga sul Signore dei Pupazzi, un hacker capace di praticare il ghost hacking, cioè di hackerare la mente umana. Il «maggiore», nel film omonimo del 1995 diretto da Mamoru Oshii e tratto dal manga, si interroga sulla sua identità cyborg, tra corpo umano e macchina:

Vi sono innumerevoli elementi che formano il corpo e la mente degli esseri umani come innumerevoli sono i componenti che fanno di me un individuo, con la mia propria personalità. Certo, ho una faccia e una voce che mi distinguono da tutti gli altri, ma i miei pensieri e i miei ricordi appartengono unicamente a me e ho consapevolezza del mio destino. Ognuna di queste cose non è che una piccola parte del tutto. Io raccolgo dati che uso a modo mio e questo crea un miscuglio che mi dà forma come individuo e da cui emerge la mia coscienza. Mi sento prigioniera, libera di espandermi solo entro confini prestabiliti.

La cosa interessante è che in questo contesto il rapporto tra corpo e tecnologia non è mai visto in una dinamica di superiorità di una parte sull’altra, ma sempre in un’ottica di complementarietà simbiotica, in cui non c’è differenza tra parti umane e meccaniche, organiche e inorganiche, vive e morte: le parti meccaniche possono sostituire le parti umane. Questa complementarietà simbiotica può essere definita spinozianamente potenza di affettare e si tratta sempre del superamento humeano delle parzialità in una totalità, seppur declinato in questo caso attraverso un’elevazione a un livello di consapevolezza superiore.

A tal proposito riporto di seguito un breve dialogo tra il maggiore Kusanagi e il Signore dei Pupazzi.

– Per superare le debolezze insite in un sistema immutabile, ed elevarci a un livello di consapevolezza superiore, ti propongo una fusione dei nostri esseri per creare una nuova entità.

– Qui si tratta di ridefinire la mia identità, voglio la garanzia che potrò rimanere ancora me stessa.

– Non ne esiste alcuna e perché preoccuparsene. Tutte le cose cambiano in un ambiente dinamico, il tuo sforzo per rimanere ciò che sei è ciò che ti limita.

– Fino ad ora siamo stati costretti entro i nostri limiti, ma è arrivato il momento di spezzare questi lacci ed elevarci ad un livello di consapevolezza superiore. È arrivato il momento di diventare parte di tutte le cose.

Come ricorda Claudia Landolfi, il problema non è la tecnologia, ma la società che la produce. Nella tecnologia prodotta nella società del controllo, c’è però la possibilità di trovare crepe e quindi forme di liberazione inaspettate. Il campo problematico, sulla base di queste considerazioni, diventa allora il ruolo di liberazione creatrice e di produzione di differenze orizzontali che possiamo produrre con la tecnologia.

Proprio a partire da questa problematicità, intendo soffermarmi sullo xenofemminismo e sul collettivo xenofemminista Laboria Cuboniks fondato nel 2014. Laboria Cuboniks è un anagramma di Nicolas Bourbaki, pseudonimo utilizzato da un gruppo di matematici in gran parte francesi tra il 1935 e il 1983.

Helen Hester, nel suo saggio Xenofemminismo, spiega che lo Xenofemminismo è nato dalla commistione delle teorie cyberfemministe, accelerazioniste, postumaniste, neorazionaliste e dal femminismo materialista, con l’intento di far fronte alle particolari condizioni politiche dell’epoca contemporanea. La cosa interessante, anche rispetto a quanto sostenuto precedentemente, è che non si tratta di una «politica ibrida» da contrapporre a uno «stato non ibridato» preesistente, ma di una politica non contaminata dalla purezza che tratta il futuro come una dimensione aperta, un luogo di ricomposizione radicale.

Come evidenziato, certe tecnologie, soprattutto in un sistema capitalistico, possono rivelarsi pericolose, in quanto sono quasi sempre pensate e progettate come dispositivi di controllo di ogni singolo aspetto della nostra vita, anche dal punto di vista biologico e tecnologico. «Capital is life itself», dice Braidotti. Ciò significa che il capitalismo opera sulla connessione tra organico e inorganico attraverso dei meccanismi simbiotici, manipolatori e tendenti al controllo, cosa molto diversa dagli assemblaggi macchinici e desideranti proposti da Deleuze e Guattari.   

Questo però non porta Helen Hester a tradurre queste considerazioni in un rifiuto della tecnologia, della scienza o del razionalismo. Tutt’altro. La tecnologia assume due caratteristiche: da una parte viene considerata come parte integrante delle nostre vite quotidiane, dall’altra diventa uno spazio di conflitto e di intervento. Per questo motivo Laboria Cuboniks interviene sugli oggetti che utilizziamo ogni giorno – Hester fa l’esempio degli elettrodomestici – e sperimenta sulle nuove tecnologie, come i farmaci, la stampa 3D, il software open source, i sistemi di cybersecurity e l’automazione postindustriale. Se il capitalismo produce queste tecnologie per controllare i corpi e sussumerne plusvalore, lo Xenofemminismo prova ad hackerarle per aprire nuovi spazi di conflitto.

L’assunto da cui lo Xenofemminismo parte è che non esistono tecnologie neutre, anzi queste vengono regolate e costituite dai rapporti sociali e non vanno prese per come «appaiono», ma bisogna andare a cercare quei deficit che emergono nel corso della loro progettazione, nei gangli dei rapporti fra le strutture tecniche, politiche, culturali in cui vengono pensate e costruite, nel costo e nell’accessibilità alle tecnologie stesse. Uno dei problemi maggiori in tal senso è che oggi solo una minima percentuale di persone possiede le competenze per gestire e costruire le tecnologie ad alta complessità. In mancanza di questa capacità, un’arma è rapportarsi con le nuove tecnologie basandoci anche sul rapporto che hanno con la situazione sociopolitica e su come la riarticolano.

Quella che viene indicata e proposta è una processualità di costruzione del reale attraverso l’immaginario. Le tecnologie, essendo sempre fenomeni sociali, devono diventare strumenti per la lotta collettiva e la lotta collettiva deve trasformare gli strumenti stessi. In questo senso le tecnologie costituiscono sia un momento di trasformazione del reale che di emancipazione. Il tecnofemminismo deve coordinarsi in tal senso, assumendo una processualità delle lotte adatta alla complessità fluida delle strutture di oppressione che costituiscono i nostri mondi materiali.

Anche lo Xenofemminismo si interroga sul ruolo delle tecnologie all’interno della dicotomia natura-cultura. Come? Prima si è accennato al superamento di questa dicotomia. Ma le considerazioni precedenti, unite a questa concezione delle tecnoscienze, ci permettono di affermare una cosa non da poco: nulla è tanto sacro da non poter essere riprogettato e trasformato. Il collettivo Laboria Cuboniks assume pienamente questo approccio e lo pratica allo scopo di aumentare sempre più la nostra possibilità di liberarci nel futuro.

Non c’è nulla di trascendente o di sovrannaturale, tutto si svolge in un piano orizzontale. Deus sive natura scriveva Spinoza. Per lo Xenofemminismo la Natura è tutto ciò che c’è. Questo permette di andare oltre quella che deleuzianamente viene definita scienza maggiore, cioè la scienza patriarcale, coloniale, bianca, occidentale, in favore di quella che chiama scienza minore. Su questo punto voglio ripercorrere brevemente alcuni passaggi delineati nel testo dell’intervento tenuto da Gianluca De Fazio il 1° dicembre 2016 presso l’Università di Bologna, in occasione del seminario organizzato da Ubi Minor sulla Macchina da guerra. De Fazi, inserisce nella scienza maggiore scienziati e filosofi come Descartes, Locke, Hobbes e Newton, per i quali lo spazio viene visto come qualcosa di esteso, la priorità ontologica viene data al solido e il fluido viene considerato come un caso particolare del solido. Sempre per la scienza maggiore, che si divide generalmente in essenzialismo/naturalismo (viene affermato il primato dell’universale a discapito del particolare e la natura viene assunta come un modello assoluto che può al massimo essere descritto) e in materialismo/costruttivismo (le forme vengono considerate come proiezioni della nostra mente e si ritiene che sia l’uomo con il suo Sapere a dare forma e quindi Senso  ad una materia inerme – idealismo trascendentale – e considera la materia che non abbia forma Intelligibile come amorfa). Nella scienza minore, definita anche modello idraulico, invece la priorità ontologica viene data al fluido. Lo spazio non viene più così pensato come qualcosa di separato dai corpi e la materia non viene più considerata come sommatoria di punti materiali. Questo porta a considerare la Natura non come qualcosa di dato a priori, ma come qualcosa in continua trasformazione e da costruire. Per De Fazio si pongono così le condizioni per problematizzare l’Essere e per permettere alla conoscenza di non essere più rappresentazione.

Leibniz nell’introduzione al Nuovo trattato sull’intelletto umano scrisse che lo spazio va concepito come un fluido che si divide all’infinito, come una materia «divisibile e divisa inegualmente in punti diversi a causa dei movimenti che sono già in essa, più o meno cospiranti tra loro». Nel corso del suo intervento, De Fazio ricorda inoltre che fu Boltzmann a rompere definitivamente con la priorità ontologica del solido attraverso la termodinamica. La Forma così, nella lettura che De Fazio fa a partire da Deleuze, non è un’Idea che si applica a della materia informe, ma semplicemente un incontro/concatenamento tra corpi. Il fluido – sostiene – non solo non va ad occupare un punto preciso nello spazio (cosa che invece accade nel caso del solido), ma continua ad espandersi, occupando sempre più spazio finché non incontrerà un altro fluido che gli farà resistenza, un contenitore. Il contenitore, non essendo un solido, non possiede una Forma, ma è ciò che, limitando il fluido, ne definisce i margini, i limiti.

Nel caso della priorità ontologica del fluido, non c’è mai nulla di fermo o statico, perché le particelle sono sempre in movimento. In modo analogo, Deleuze e Guattari ritenevano che il pensiero fosse «l’effetto di una Macchina da Guerra – di tagli e scontri – che non cessa mai di muoversi». L’accettazione della priorità ontologica del fluido impedisce la formazione di un Io Penso, autonomo, libero, proprietario, giudice e funzionario. L’Io e l’Identità vengono così scongiurati. «Io è un altro» scriveva Arthur Rimbaud ne La lettera del veggente.

Naturalizzando tendiamo a rimanere nella nostra zona di comfort, a banalizzare il mondo, perdendo la capacità e forza di camminare nell’ignoto, nello sconosciuto, verso l’immaginario.

Quando Helen Hester e il collettivo Laboria Cuboniks si definiscono abolizionisti del genere, lo fanno proprio in questo senso. C’è un rifiuto totale di qualunque sussunzione ad un’Identità e di ogni binarismo, in favore della diversità sessuata. Lo stesso Guattari in Rivoluzione molecolare scrisse chiaramente che l’ordine sociale è fondato, prima di ogni altra cosa, sulla dicotomia uomo/donna e solo successivamente sulle opposizioni di classe, di casta, ecc.  Quando parla di divenire-donna non intende diventare la donna in sé. La donna in sé non esiste. Si tratta invece di infrangere le norme, rompere con l’ordine costituito, cioè praticare una sessualità di rottura, una semiotizzazione di rottura. Questo ha a che fare con l’omosessualità o con un divenire animale, un divenire donna. L’invito è a smetterla con le dicotomie, verso il privilegio ontologico del fluido. Le dicotomie bianco/nero, maschio/femmina, sono categorizzazioni, nozioni riduttive, che permettono di esercitare un potere sulle categorie stesse. Nelle parole di Guattari, come in quelle di Helen Hester e del collettivo Laboria Cuboniks, c’è sia il rifiuto dell’identità che l’apertura alla differenza. È a partire da questi presupposti che mi interessa lo xenofemminismo, cioè in quanto pensiero nomade che è (e che produce) differenza, che non prevede un io proprietario e giudice e che è affermativo. Il corpo diviene così un luogo da hackerare, su cui intervenire con le tecnopolitiche femministe.

Helen Hester precisa che lo xenofemminismo è antinaturalista. Per chiarire cosa si intende con naturalismo – o, ancora meglio, con naturalizzazione – intendo riprendere quanto scrive Alfonso M. Iacono nel capitolo La naturalizzazione nel suo importante testo Autonomia, potere, minorità.  Per Iacono la naturalizzazione è la convinzione che il reale sia qualcosa di già dato a priori, che il mondo deve essere accettato così com’è. In questo contesto la situazione dell’uomo nel mondo è scontata e le relazioni di potere sono naturalmente stati di dominio. Naturalizzando tendiamo a rimanere nella nostra zona di comfort, a banalizzare il mondo, perdendo la capacità e forza di camminare nell’ignoto, nello sconosciuto, verso l’immaginario. H.P. Lovecraft scrisse che «il sentimento più antico e radicato nel genere umano è la paura, e la paura più antica è quella dell’Ignoto». Con la naturalizzazione confondiamo le metafore con le cose. Helen Hester questo lo tiene ben presente. Secondo lei non può esserci progetto politico che si basi sulla sacralità intoccabile della natura. La natura non è un limite: è tutto. Il reale è da costruire. Lo Xenofemminismo allora naviga, sperimenta, trasforma le condizioni materiali e le forme sociali. Se l’ordine costituito ritiene qualcun_ «innaturale» o mette qualcun_ nella condizione di subire ingiustizie, lo Xenofemminismo fa saltare questo ordine naturale.

In un’ottica cyberpunk, la potenzialità latente sta proprio nell’imparare non solo ad avere a che fare con le tecnologie, ma anche a saperle costruire e/o utilizzare al di là della loro interfaccia. Cioè dobbiamo imparare ad hackerarle e a tenere sempre presente che al di là di quelle che sappiamo usare, anche tutte le altre influiscono sui nostri mondi tecnomateriali. L’invito dello xenofemminismo è a sfruttare le potenzialità insite nelle tecnologie, sia dal punto di vista biologico che digitale, connettendo corpi e rete, attivando pratiche molecolari senza perdere l’orizzonte di strutture complessive, verso un’ecologia degli attivismi capace di ripensare, agire e trasformare su tutti i livelli il nostro complesso mondo tecnomateriale. E in chiusura riporto un passo tratto da Futuro fantastico di Isaac Asimov, uno dei più importanti autori di fantascienza robotica del ‘900:

Questa quarta rivoluzione permetterà alla maggior parte degli esseri umani di essere più creativi di quanto lo siano mai stati. […] Quando i tecnobambini diventeranno adulti e passeranno al mondo del lavoro, avranno tutto il tempo di esercitare una maggiore creatività, di operare nel campo del teatro, della scienza, della letteratura, del governo, e degli svaghi. […] Qualcuno potrebbe dubitare che la gente creativa sia in numero così ampio. Ma questo modo di pensare nasce da un mondo nel quale soltanto pochi sfuggono alla distruzione mentale da parte di lavori che non richiedono l’uso del cervello. […] Quella che prevedo è una società di intensi fermenti creativi, gente che comunica con altra gente, pensieri nuovi che sorgono e si diffondono a una velocità mai immaginata prima, cambiamenti e novità che riempiranno il pianeta (per non parlare dei mondi artificiali più progrediti che verranno costruiti nello spazio). Sarà un mondo nuovo che guarderà ai secoli precedenti come a un tempo in cui si viveva solo a metà.