Come imparare a essere zombi

Prontuario di survivalismo psichico (firmato da un prepper virtuale)

Taste the zombie’s drug, now you want more
Chuck Shuldiner, Zombie Ritual

Per molto tempo sono andato a letto tardi e ho sognato zombi: di fuggire dagli zombi, di vivere e morire in un mondo di zombi, di tanto in tanto di essere io stesso uno zombi. Una volta un padre tirò fuori dal baule della sua automobile la figlioletta non-morta e mi chiese di abbatterla perché lui non ne aveva il cuore. Un’altra, passavo le giornate barricato in un albergo di lusso, in perfetta tranquillità. Un’altra ancora, sono finito in braccio a un gruppo di zombi, ma i loro morsi non mi facevano male, semplicemente il mio corpo scompariva brano a brano. E così via. Negli anni ho attribuito a questa combinatoria di sogni ricorrenti molti significati contraddittori, ma il tema sotteso non varia: la presenza della morte nella vita; la porosità del confine che le separa. Niente di speciale, niente di più che interpretazioni personali di una saggezza antica e diffusa, moneta corrente, echi tramandati nei millenni dalle parole di Seneca «moriamo tutti i giorni», riverberanti nella saggezza di Proust, che però da buon moderno ebbe l’accortezza di ritoccare al rialzo il ritmo dei decessi: «ogni minuto cambiamo, moriamo». Oggi si viaggia a due o tre morti al secondo, ma la morale è la stessa: la morte / si sconta / vivendo. 

Lo zombi aggiunge a questa tradizione una postilla di logica stringente: se la vita è morte, allora anche la morte è vita. Tuttavia lo zombi, diversamente dagli altri non-morti, è un essere di mera materia, e quindi non può rimandare ad alcun aldilà. Risorge, sì, ma unicamente nella carne, senza che dell’essere dotato di anima resti altro che una parodia, uno stupido corpo deambulante e divorante. Lo zombi nega sia la vita che la morte, ed è per questo che nel mondo degli zombi essere un non-zombi, cioè un essere umano, significa non essere completamente vivi; vivere con un’anima richiede d’incorporare la morte dentro di sé, in perfetta sovrapposizione. La morte qui non è «un’imminenza che sovrasta» (Heidegger), dato che siamo tutti già morti, e ciò che ci angoscia non è più dover morire: è la consapevolezza di essere morti e, al tempo stesso, ancora vivi. 

Gli zombi, di solito, sono prodotti da un organismo patogeno. Dev’essere questo il motivo per cui l’epidemia attuale mi ha riportato a loro. Si piangono i morti. Si cementa un odio sordo contro i poteri politici ed economici che hanno fatto di tutto per tirarci addosso una catastrofe in larga parte evitabile, in attesa del tempo della resa dei conti. Alcuni amministratori provano a giustificarsi pigolando «non avremmo mai immaginato». Io, che pure sono ignorante di spillover e poco informato sui campanelli di allarme della SARS e della MERS, mi stropiccio gli occhi e mi dico, non senza diagnosticare un pizzico di demenza in questo pensiero, che avremmo dovuto dare più credito alle storie di zombi. 

L’apocalisse di The Walking Dead, per esempio, è causata da un virus che infetta indisturbato l’intera popolazione del pianeta, perché non provoca alcun sintomo, solo che quando una persona muore, il virus prende il controllo dei suoi centri nervosi e la trasforma in un carnivoro insaziabile. Non è chiaro se la carne inghiottita dallo zombi serva loro per mantenersi in forze, o non sia altro che un avanzo pervertito di natura umana. (James Hillman, Il sogno e il mondo infero: «Più che un commento sul giorno, il sogno è un processo digestivo, che scompone e assimila il mondo diurno nei labirintici budelli della psiche».) Il virus ha in ogni caso il potere di bloccare il processo di putrefazione, cosicché i walkers (uno dei molti nomi dati agli zombi in The Walking Dead, in cui peraltro la parola «zombi» non esiste) decadono solo attraverso l’erosione degli agenti atmosferici e naturali. Si tratta, dal punto di vista del virus, di una strategia evolutiva perfetta, dato che l’asintomaticità ne consente una rapidissima diffusione globale, e il parassitaggio dei cadaveri gli permette di salire con un balzo al vertice della catena alimentare. 

Chiedo scusa ai fan della serie o del fumetto se li ho annoiati con questo riassunto di fatti stranoti. Agli altri, chiedo perdono per aver rivangato storie così vecchie e fuori moda. Ho introdotto The Walking Dead per esaminare un altro corno della sovrapposizione vita-morte che uso per interpretare i miei incubi, che è quello della cultura del survivalismo. Nel mondo degli zombi, infatti, non si vive: si sopravvive (a malapena). The Walking Dead ci dà un vasto panorama delle diverse sfaccettature di una mentalità imperniata sulla sopravvivenza: la preparazione fisica e psicologica come conditio sine qua non, la terribile lezione che i nemici più pericolosi sono sempre gli altri esseri umani, la conseguente consapevolezza che la maggiore probabilità di successo, al momento del collasso, è in piccoli gruppi addestrati al combattimento e tenuti insieme da forti legami familiari e di amicizia. I cultori della sopravvivenza nel mondo pre-apocalittico si chiamano prepper, e sono stati spesso derisi o trattati come pericolosi deviati, e a buona ragione, nelle numerose occorrenze in cui si sono intrecciati con ideologie di estrema destra, suprematismo bianco ed ecofascismo. Anche quando sono innocui, i prepper sono persone che non sanno fare bene i loro calcoli, sprecano la loro vita nel prepararsi a rinascere dopo la fine del mondo, come se la vita prima dell’apocalisse non fosse che una parentesi, un’occasione appunto per allenarsi, quando è tutto ciò che abbiamo. Insomma, sono materialisti cristiani. 

Io certo non sono cristiano, e cerco di districarmi dal materialismo come dal fango di una palude. Tuttavia, in quanto cultore della sovrapposizione vita-morte, io stesso sono un survivalista. No, non so costruire una trappola per conigli con una latta di fagioli e un laccio per le scarpe. Sono un prepper virtuale, nel senso che mi preparo a sopravvivere alle apocalissi unicamente nell’immaginazione. L’ho sempre fatto, alle elementari fantasticavo che la scuola prendeva fuoco ed elaboravo piani di evacuazione ispirati alle acrobazie di Indiana Jones. Sono un maestro nell’arte della sopravvivenza, come tutti noi che siamo ancora vivi, del resto, anche se non ce ne rendiamo conto, abituati come siamo a scansare la morte con ogni respiro. Guardati intorno: in questo momento, sotto il tuo sguardo, a portata di mano, quante maniere di morire all’istante riesci a distinguere? Dieci? Cinquanta? Io le ho immaginate tutte. Ho immaginato migliaia di volte la mia morte, quella di tutte le persone che conosco, di tutti gli italiani, di tutti gli esseri umani, di tutte le forme di vita sulla terra e anche di tutte le galassie. 

Più prosaicamente, in questi giorni di arresti domiciliari universali guardo un sacco di disaster movies, mi metto in pari con la stracca stagione dieci, per l’appunto, di The Walking Dead, ascolto come al solito la mia quota di death metal, e scrivo a spizzichi e bocconi questo longdeform sugli zombi. 

Non sono particolarmente spaventato dalla morte. Mi consola pensarci e mi fomenta un briciolo di affetto verso i viventi che è un sentimento di comprensione per chi, in preda alla paura e alla confusione, fa del male a se stesso e agli altri. In momenti di ottimismo, o forse incoscienza, mi pare addirittura che si debba essere grati per l’esistenza della morte, perché ci assicura un biglietto verso un’altra dimensione, per quanto di sola andata e, probabilmente, questa non sia altro che la non-esistenza assoluta. Se fossi immortale, forse, odierei tutti. No, non è per accettare la morte che m’interesso di zombi. Forse, semplicemente, non sono normale. In questi giorni sto leggendo un bel trattato antropologico, un po’ datato ma pieno di belle illustrazioni e pletorico e barocco com’è proprio per l’argomento, 704 pagine di: La nera signora. Antropologia della morte e del lutto (1995, Newton & Compton), dello storico delle religioni Alfonso Maria di Nola, il quale, nel capitolo sulle «evitazioni linguistiche», riportando le conclusioni di Werner Fuchs, scrive chiaro e tondo: «questa inibizione comunicativa si rinforza psichicamente perché le persone normali assai di rado pensano intenzionalmente alla morte e perché il pensiero di morte è normalmente estraniato, presentandosi alla coscienza non per diretta esperienza del soggetto ma solo per riferimento ad altri» (p. 54). Non si parla della morte perché non si pensa alla morte, e non si pensa alla morte perché viviamo come se a morire fossero sempre gli altri. Non necessariamente perché la nostra morte ci fa paura – alcuni la temono, altri ne sono indifferenti, altri ancora l’invocano – ma perché è semplicemente inconcepibile. Eppure c’è chi spreca la sua vita a cercare di immaginare l’impossibile. Questi prepper virtuali, questi estimatori della condizione-zombi, come me, sono forse altrettanto deviati dei prepper letterali, e dunque no, normali non siamo, eppure non riesco a scrollarmi la convinzione che puntare l’occhio fisso in quella direzione almeno un paio di volte al giorno sia importante. 

Ciò che in noi è realmente animato è una patina sottilissima sopra strati su strati di anime, menti, cervelli, corpi già morti, humus sapiens sulla superficie del quale continuiamo a coltivare la nostra vita.

Sopravvivere richiede saper scegliere fra infiniti sentieri, la maggior parte dei quali portano a vicoli ciechi, quelli che invece conducono ad altri incroci e scelte. La partita a scacchi con la morte si gioca nel giardino dei sentieri che si biforcano. La preparazione mentale implica, perciò, attraversare con l’immaginazione – simulare mentalmente – una quantità immensa e sempre crescente di possibili Game Over. 

Una versione narrativa di questo esercizio è il tropo dell’anello temporale chiuso, in cui un certo periodo di tempo, di solito una giornata, si ripete sempre identico. Spesso solo il protagonista diventa consapevole della situazione e perciò potenzialmente capace di alterare lo scorrere degli eventi, se riesce a fare tesoro delle scelte sbagliate. Nel cinema, l’archetipo è Il giorno della marmotta, ma ve ne sono molti altri. Questa struttura narrativa è la traduzione sul piano dell’immaginario del lavorio mentale innescato dalla consapevolezza di poter morire (sottolineo potere, non dovere, essendoci preclusa una vera consapevolezza della morte soggettiva). È un tropo che ha una doppia funzione: la prima è consolatoria: il loop apre uno spazio finzionale in cui è possibile riavvolgere il filo e fare ammenda, insomma rimediare materialmente agli errori. Funzione evasiva e rassicurante che apre lo spazio per la seconda, pedagogica, che sottolinea l’importanza dell’esperienza, dell’imparare dagli errori del passato, cioè della coltivazione della memoria. 

La memoria è necessaria per chiudere l’anello che lega la morte con la vita, perché è solo attraverso di essa che possiamo sperare di costruire valide proiezioni sul futuro. Non solo memoria in senso proprio, cioè i ricordi. La nostra stessa mente, la realtà così come la percepiamo, è la sedimentazione di una storia, è cresciuta quanto e come poteva attorno alle nostre esperienze, sinapsi dopo sinapsi, dentro e attraverso un cervello che a sua volta si è sviluppato, sopravvivendo alle proprie disavventure, sul piano di costruzione dell’eredità genetica, come il nuovo cerchio nel legno avviluppa lo strato di cellule morte da cui prende forma e sostegno. Ciò che in noi è realmente animato è una patina sottilissima sopra strati su strati di anime, menti, cervelli, corpi già morti, humus sapiens sulla superficie del quale continuiamo a coltivare la nostra vita. 

Gli zombi sono questo, sono le tracce di esistenze passate, assenze che non si dissolvono, sotto la scorza di vita che chiamiamo «io».

Il percorso di questa riflessione potrebbe prendere una piega metafisica, per esempio notando che, a rigore, tutto ciò che percepiamo non è che la traccia di qualcosa che non c’è più. Siamo ormai abituati all’idea che la luce di stelle lontane giunge sulla Terra e quindi sulle nostre retine dopo un viaggio di migliaia e milioni di anni, e che dunque le stelle che l’hanno emessa potrebbero essere già spente da eoni nel momento in cui le ammiriamo nel cielo notturno. Quello che più raramente pensiamo, è che la luce stessa ci arriva solo come traccia di una collisione, come eco digradante di qualcosa che ha smesso di esistere nel momento in cui è stata assorbita dai nostri recettori. Tutto muore 1043 volte al secondo, al ritmo del tempo di Planck. 

Invece voglio mantenere una traiettoria circolare, come è appropriato per i pensieri sulla morte, e lasciare la metafisica alle sue metasfere. 

Ritorno dunque ancora a The Walking Dead. Una delle idee portanti del mondo di Robert Kirkman è che la civiltà si fonda sull’articolazione dei suoi rapporti con la sofferenza, la morte e la sopravvivenza: chi le merita e chi no soprattutto, ma anche come devono essere comminate o garantite. Il patto sociale è un patto sulla morte. La prima scelta politica è una scelta sulla pena di morte. Chi si sobbarca il dolore, a chi viene risparmiato? Chi ha il diritto di vivere, e dunque di godere della protezione degli altri? Chi invece si è reso passibile di essere ucciso o lasciato morire? Le diverse scelte di Rick Grimes e compagni sono una serie di scelte di civiltà. A un certo momento, per esempio, riescono a continuare a sentirsi «i buoni» aggrappandosi al Quinto Comandamento («Noi non uccidiamo mai chi è vivo», riassume Rick). Questa particolare legge non reggerà alla prova dei fatti, ma il gruppo deciderà di perseguire nuovi compromessi etici, non rinunciando mai, nonostante le infinite crisi, alla volontà di distinguersi dalla massa dei non-morti e dei sopravvissuti che hanno fatto, parafrasando il proverbio, di necessità infamia

I gruppi di nemici si dividono in due categorie: da un lato gli antagonisti minori, che spinti dalle necessità della sopravvivenza hanno abbandonato ogni moralità, finendo spesso per assumere tratti mostruosi. Costoro si riconoscono anche dai loro nomi da cattivi di basso livello, come Hunters, Marauders, Scavengers, Claimers o Wolves. Poi ci sono gli antagonisti primari, che formano gruppi numerosi fondati sul carisma del leader che fornisce loro un mito di fondazione che serve a mantenere la coesione del gruppo giustificando la terribile violenza interna ed esterna a cui sono o si immaginano costretti. Il loro maggiore sviluppo culturale è riflesso nel livello minimalmente più evoluto dei loro nomi: Woodsbury col suo Governatore, i Saviors di Negan, i Garbage People, i Whisperers. 

I nemici del primo tipo possono essere pericolosi, ma non mettono seriamente in difficoltà la moralità dei «buoni». Possono essere liquidati come degenerati a cui le difficoltà hanno fatto emergere gli aspetti più ferali della natura umana. Ucciderli è giusto. La vendetta può creare una crisi di coscienza nel gruppo dei «buoni», che si sentono talvolta macchiati dal sangue versato, ma non mette mai in discussione la differenza, che è segnata dal fatto che questi ultimi hanno una legge fondamentale, non uccidono semplicemente per necessità. I «buoni» non permettono che la linea tra amici e nemici sia tracciata dalla bruta natura, dal fatto che «bisogna pur sempre mangiare» (come si giustifica, con meno reticenza del Conte Ugolino, il capo dei Hunters dopo aver ammesso di aver divorato i propri figli). Il mantenimento di questa presa di posizione etica, veicolata da una narrazione che è il distillato esperienziale delle sofferenze passate, è talvolta più importante della sopravvivenza stessa. A che pro continuare a soffrire, credono i «buoni», se ogni umanità è perduta? Dal canto loro, i diversi gruppetti di cannibali, rapinatori, stupratori e invasati che vengono via via sterminati dai «buoni», agiscono unicamente in base a una necessità che però, come tutte le cose umane, a uno sguardo obiettivo si rivela intrecciata di libere scelte, interpretazioni di comodo, è insomma una necessità ideologica e non obiettiva, in fondo una narrazione a supporto di una morale dell’amoralità. Sono un paradossale incrocio di bestialità e ipocrisia, massacrarli non è solo utile e giusto ma doveroso, per il bene dei pochi brandelli rimasti di umanità, perché dell’umanità sopravviva almeno l’idea. 

Gli antagonisti principali, invece, pongono dei seri problemi morali ai «buoni». Perché diversamente dagli sbandati e dagli impazziti, questi delle leggi fondamentali ce l’hanno. I Whisperers, per esempio, che vivono in branco nella boscaglia indossando maschere di pelle umana, abbracciano misticamente lo stato di non-morte cercando un ritorno all’animalità pura. Costoro, certo, uccidono ben volentieri e razziano quanto più possibile, ma non aggrediscono ciecamente chiunque incroci il loro cammino. Hanno una strategia, una politica. La micro-società fascista dei Saviors, per sostenere l’alto tenore di vita della sua élite guerriera (energia elettrica e acqua calda – i tempi son quelli che sono), ha bisogno di tributari e vassalli. Costringono così i «buoni» a confrontarsi col fatto che non è sufficiente avere un mito di fondazione per essere realmente buoni. Bisogna anche dimostrarsi migliori degli altri, di chi ci ha fatto del male, i nemici. Bisogna dimostrare che il loro mito non funziona. Due costituzioni incompatibili non possono convivere, possono provare a ignorarsi temporaneamente, ma finiranno sempre per entrare in una guerra il cui unico esito può essere solo l’estinzione di una delle parti. 

Questa non è una parentesi nella vita, ma non è nemmeno vita, più di tutto somiglia a un sogno ad occhi aperti, fatto in solitudine.

È questo il piano inclinato attraverso il quale, nel mondo di The Walking Dead, si passa dalla lotta per la sopravvivenza alle guerre tra civiltà. I due aspetti sono indissolubili: non si può restare umani senza un mito di fondazione; ma una volta istituito, gli altri umani, quelli che hanno un mito di fondazione differente, diventano più pericolosi degli zombi stessi. Perché per un cannibale, vivo o non-morto che sia, sei semplicemente cibo. Per i tuoi nemici, invece, sei un mostro, una contraddizione vivente, una minaccia all’ordine del cosmo che deve essere eradicata. 

Nel mondo degli zombi si sopravvive fondando civiltà, rette da miti, in guerra tra di loro, in una spirale iperbolica che conduce genocidio dopo genocidio dai piccoli gruppi di nomadi al Governo Mondiale. 

Giocando a lungo con le metafore, si corre il rischio di prenderle troppo sul serio, cioè alla lettera. Devo quindi mettere in chiaro, soprattutto a me stesso, che non viviamo in un mondo di zombi. Il prisma della natura umana non permette che la si possa conchiudere in una sola delle sue facce. La vita non è sposa esclusiva della morte, non è solo lotta per la sopravvivenza, la civiltà non si esaurisce in un esorcismo. 

Neppure viviamo in tempi di apocalisse. L’umanità mai, nella sua storia, è stata prossima all’estinzione, e non lo è, io credo, nemmeno adesso. Si fa un gran parlare della resilienza degli scarafaggi, ma gli scarafaggi, per la verità, prosperano negli interstizi delle nostre abitazioni, si nutrono dei nostri resti. Stiamo sì preparando un futuro di orrore per i nostri figli e gli altri animali, ma è un futuro che contempla, almeno per quanto è in nostro potere, l’orribile, grata presenza della nostra specie. The Walking Dead è solo una storia, dalle spalle probabilmente nemmeno abbastanza robuste per supportare grossi costrutti teorici. 

Eppure, sarà che questi giorni tutti uguali somigliano ai sogni ricorrenti, il mio senso della realtà si fa semitrasparente, e l’epidemia reale confonde i suoi tratti con quelle immaginarie, una parte di me è immersa in una specie di lieta accettazione della fine del mondo, di tutti i mondi. Mi guardo intorno e vedo vite dedite a una tenue, quasi delicata, sopravvivenza, come se tra noi si aggirassero i fantasmi, le ombre degli zombi. Questa non è una parentesi nella vita, ma non è nemmeno vita, più di tutto somiglia a un sogno ad occhi aperti, fatto in solitudine. E io sono convinto che non è così solo per quelli come me che sono chiusi in casa senza niente da fare, ma vale anche per quelli che continuano ad andare in ufficio e in fabbrica ogni mattina. Gesù deve aver vissuto questa realtà in doppia esposizione, nel momento in cui usciva dalla tomba, accecato dall’alba radiosa. 

Doppia esposizione, come quando, con le macchine fotografiche a pellicola, si riutilizzava per sbaglio un rullino. Valerio Mattioli ha parlato di solarizzazione, come effetto fotografico, per descrivere la sua visione di un presente di «mito e delirio». I filtri di Photoshop, evidentemente, sono diventati la matrice delle allucinazioni.

L’attimo di chiarezza, in cui capisci come stanno le cose, che non sai se sei vivo o sei morto, e hai paura.

È stato verso la fine di gennaio, quando mi sono reso conto che la pandemia era inevitabile e che sarebbe successo quello che poi è successo: le strade vuote, i negozi chiusi, gli ospedali che traboccano, chi vuole e può sta rintanato e chi non vuole o non può subisce la vertigine di sentirsi esposti, vulnerabili agli agenti patogeni e agli agenti di polizia, al nemico invisibile e alla società che ti punisce per proteggersi – mentre la gente si affaccia al balcone per indicare, disapprovare, a volte gridare contro – il tutto al confine tra ringhio e risata, insulto e derisione, come in quella scena di Fahrenheit 451 in cui la televisione organizza un grande gioco collettivo invitando un intero quartiere a contare tutti insieme fino a dieci e poi affacciarsi agli usci per individuare Guy Montag braccato dal Segugio Meccanico. Anche lì, gli spettatori battono le mani alla finestra. «La vostra civiltà, è una maschera» – dice Negan riferendosi al sistema sociale basato sull’amore e sulla legge messo su dai «buoni» della serie, «Quando siete in pericolo, quando vi sentite con l’acqua alla gola, la maschera cade e diventate come tutti gli altri: scegliete una vittima, estraete la pistola, mirate e sparate». 

Quel runner di Guy Montag… Se nelle storie il braccato è sempre il buono, da Jean Valjean a Rambo, nella realtà è sempre un cretino o un pezzo di merda. La sera del famigerato «assalto ai treni» (7 marzo), immaginavo che a inveire su internet contro i passeggeri potesse essere qualcuno degli stessi passeggeri di uno di quei treni, in una specie di sdoppiamento schizofrenico tra la propria autopercezione e la rappresentazione mediatica di un personaggio di cui non ci si rende conto di indossare in quel momento i panni. La fantasia si è concretizzata pochi giorni dopo, quando ho visto con sconcerto apparire foto di vagoni della metro affollati con didascalie indignate da persone che non si rendevano conto di essere loro stesse parte dell’affollamento. La discrasia dei giorni dello shelter-in-place, tra percezione mediata e coscienza di sé è stata notata da molti, ad esempio da Claudio Kulesko, che in Zombie Linguistics // Zombie Politics ha scritto di uno «sdoppiamento: quello tra individui e automatismi» che «segna di fatto il passaggio dallo stato di polizia ‒ definito dalla presenza di un poliziotto in ogni angolo ‒ allo stato di milizia ‒ definito dalla presenza di un poliziotto in ogni testa». 

Ma questo è accaduto più avanti. Quella notte, si era ancora alle notizie dal lontano Oriente, ai primi casi «importati». Mi ero messo a letto e lì come si suol dire «la mia testa correva», calcolava in preda all’angoscia, in cerca di un equilibrio tra le informazioni che avevo raccolto in una serata passata su internet a selezionare fonti, tradurre approcci e linguaggi, vagliare interessi in gioco, analizzare bias negli autori delle notizie e in me stesso, insomma a costruire una parvenza di strutturazione razionale della situazione – e gli effetti emotivi dell’incertezza, della razionale incertezza che dovevo lasciar scorrere dentro di me per evitare di affidarmi ciecamente a una narrazione troppo rassicurante o troppo paranoica per essere verosimile. Immaginai i milioni, miliardi di cuori che in quel momento battevano e cercavano una risposta, mi sentii perduto nella inspiegabile e sublime connessione tra le fantasie in libera associazione di una mente semiaddormentata; la carnalità più brutale del dolore alle ossa del respiro che manca del tubo che scorre nella trachea; e i concetti più impalpabili, astratti, le curve, gli andamenti, le sequenze di materiale genetico. Tutto questo era incomprensibile, eppure era vero. Era tutto vero, tutto contemporaneamente. Non mi aiutava il fatto che in quei giorni avevo una tosse particolarmente fastidiosa, che ogni paio d’ore mi squassava improvvisamente per qualche minuto e poi scompariva senza motivo apparente, lasciandomi il petto dolorante e oppresso. Finalmente mi addormentai, il giorno dopo la paura mi aveva lasciato, tenuta a bada da una semplice ricetta: «Evitare contatti con persone anziane; dopodiché probabilmente toccherà stare chiusi in casa un mese o due». E infatti. 

L’allenamento mentale, mi dico, serve a qualcosa, la morte è una buona compagna di vita. Fino alla prossima biforcazione del sentiero, alla prossima scelta. Sopravvivenza. 

La seconda volta che ho avuto paura è stato un giorno di metà marzo, quando sono andato per la prima e ultima volta a fare la spesa in un grande supermercato della Zona Protetta. Era venerdì pomeriggio, avevo immaginato che ci sarebbe stata ressa, e sapevo che ci avrebbero messo in fila all’esterno. Quello che non avevo previsto è la violenza straniante della situazione. S. e io saliamo sulla rampa mobile del parcheggio sotterraneo e ci avviciniamo all’ingresso dell’Esselunga del Gignoro, che normalmente è accessibile da tre lati, essendo posto a uno degli angoli di un porticato bordato di negozi, in definitiva un piccolo centro commerciale che fa da anticamera al supermercato. Adesso, le transenne e una guardia giurata con mascherina ci instradano in quella direzione. Il cortile ospita quattro aiuole ostili dove i tubi di plastica dell’irrigazione sembrano trovarsi molto più a loro agio dei cespugli di rose che dovrebbero dissetare. Prima dell’epidemia, il cortile era occupato dai tavoli di un bar, adesso è diventato la fila per la spesa. Con ineccepibile spirito geometrico, sono state disposte file di pallet che formano un labirinto dove i carrelli si dispongono in una fila ripiegata per sfruttare ogni metro quadro, impacchettata come una molecola di DNA nel suo nucleo. Due addetti al controllo del traffico balzano dai pallet ai muretti delle aiuole e viceversa e ripetono incessantemente le solite indicazioni, mantenete un metro di distanza tra un carrello e l’altro, una persona per carrello, avanti, avanti per favore. C’è più che qualche somiglianza con la fila per il check-in agli aeroporti, del resto anche quello è un dispositivo di sicurezza, solo che qui, al varco, invece che un metal detector, ci sono un erogatore di gel disinfettante e uno di guanti di plastica, gli stessi che normalmente si usano nel reparto frutta e verdura. S. dice che le scappa la pipì, ma uscire dal percorso a questo punto sembrerebbe fuori luogo come a teatro, e comunque in questo momento il bagno pubblico aperto più vicino è in Francia. Per qualche secondo mi guardo intorno senza capire, mi viene da sorridere ma non so perché. Incrocio lo sguardo con una donna che ha la bocca e il naso protetti da una sciarpa, chissà cosa ha visto o capito, sgrana gli occhi e scuote la testa come se mi implorasse di non guardarla, o di non essere lì. Una ragazzina di non più di tredici anni, in pigiama, fa scorrere il suo carrello come un monopattino. Gli altri si concentrano sui loro cellulari, alcuni sono così assorbiti che si dimenticano di proseguire e interviene l’inserviente: avanti, avanti per favore. Fanno un breve scatto per raggiungere il carrello davanti. C’è pochissima conversazione, sono quasi tutti da soli, ma i brani sparsi che colgo sembrano far parte di un unico discorso, si potrebbero cucire insieme le loro parole formerebbero una frase di Frankenstein, funzionerebbe, tanto parlano tutti della stessa cosa. La regola un carrello una persona, S. e io non lo sapevamo: alla fine della coda, durata mezz’ora, l’omone all’ingresso misericordioso ci dice «entrate, ma non fatevi vedere insieme». Ci prendiamo per mano ed entriamo.

Il mondo degli zombi non insegna ad affrontare la morte né ad elaborare il lutto. Non è un percorso di cura o di autocoscienza.

Appena arrivato a casa non mi sono solo lavato le mani come sempre, ho anche messo i vestiti nei panni sporchi e mi sono fatto la doccia, una doccia molto lunga finita solo quando lo scorrere dell’acqua calda e l’abbraccio del vapore hanno completato la loro opera di rilassamento. Non era il virus che mi ero lavato di dosso, né la paura del virus, ma la paura degli altri, quella pellicola untuosa che ricopre un luogo dove si radunano esseri umani spaventati. I quali, si sa, diventano a loro volta pericolosi, moltiplicando le fonti di ansia e paura, dalle quali, in quel cortile allucinante, facendo avanti e indietro tra i pallet, ero stato contaminato.

Alcuni di loro saranno stati spaventati dalla possibilità di contrarre il morbo, ma io credo che per la maggior parte la fonte della paura fosse un’altra. Come faccio a saperlo? L’ho annusato, non saprei spiegarmi meglio. La paura derivava dal veder trasformato un luogo così familiare, l’ingresso dell’Esselunga, in un avamposto della follia, dove uomini con la pistola alla fondina e la faccia coperta da una maschera dirigevano il traffico dei carrelli allo scopo di mantenerli a una distanza minima di un metro. E negli schermi dei telefoni c’è scritto che questo delirio si chiama «comportamento responsabile». Quando il velo dell’abitudine si strappa, per esempio se dobbiamo cambiare improvvisamente le modalità di accesso a un supermercato, ecco che per un istante siamo costretti a vedere la vita sociale per quello che è: una pantomima, un grottesco balletto senza musica. Non sorprende che molti preferiscano evitare di alzare la testa dal telefono. Le prime puntate di The Walking Dead presentano numerose di queste situazioni, in cui la mensa di un ospedale, una villetta unifamiliare con giardino, un’autostrada sono trasfigurate.

Con il tempo, se la fila con i pallet dovesse diventare la normalità, lo sconcerto scomparirebbe. Ripensiamo ancora una volta ai controlli agli aeroporti, le prime volte che abbiamo dovuto separare i «liquidi in recipienti individuali di capacità massima non superiore ai 100 ml, inseriti in una busta, sacchetto o borsa di plastica trasparente con sistema di apertura/chiusura. Ogni passeggero (bambini inclusi) può trasportare solo una busta, separatamente dal resto del bagaglio». Ci sembrava allucinante, ma oggi si deve fare uno sforzo per capire cosa c’è di strano nel gesto ovvio e indolore di mettere i liquidi in una busta a parte. 

Questo non significa che tutte le abitudini si equivalgono. Alcune sono più ergonomiche di altre – più o meno adatte alle caratteristiche psicofisiche umane. In certe situazioni, ci sono incubi horror più salutari per la mente di una coda al supermercato. 

Il cerchio si è già chiuso, il discorso si avvita, è tardi, devo andare a dormire. Non cerco, né offro, alcuna via d’uscita. Da ragazzo, rubai un frammento di una lapide al cimitero di San Miniato al Monte e me la portai a casa. Ci scrissi sotto col pennarello: «Ascolta le voci dei morti». Ho finito per ascoltare quasi soltanto il loro silenzio. Il mondo degli zombi non insegna ad affrontare la morte né ad elaborare il lutto. Non è un percorso di cura o di autocoscienza, come L’anno del pensiero magico di Joan Didion, per intendersi. «Pensiero magico» che, nel libro, si coagula nella convinzione folle di Didion che determinati pensieri, parole, azioni, riti, riporteranno in vita suo marito. Il pensiero magico, dal punto di vista della sopravvivenza, è la fantasia di poter tornare sui propri passi fino all’incrocio precedente e fare una scelta migliore, come abbiamo già visto riguardo al loop temporale chiuso. Niente di tutto questo nel mondo degli zombi: il desiderio di resurrezione, qui, non può produrre altro che carcasse strascicate, come in quel capitolo di Stardust Crusaders (terza serie di Le bizzarre avventure di JoJo) in cui un falso genio della lampada finge di esaudire il desiderio di uno dei protagonisti di riportare in vita la sorella e un amico, generando al loro posto dei simulacri somiglianti, in realtà zombi-golem pronti a divorarlo. Nel mondo degli zombi il dolore non colma di significato il vaso dello dello spirito, perché tracima, dilaga, sommerge ogni cosa; non c’è tempo per il lutto, perché si muore continuamente: il trauma ripetuto mille volte diventa abitudine. 

L’ultima puntata della decima serie di The Walking Dead non è andata in onda. HBO ha comunicato che la pandemia non consente di lavorare in condizioni di sicurezza alla post-produzione della puntata, e che il finale di stagione è rimandato a tempi migliori. Un’altra storia, con i morti veri, si è presa la scena. Come andranno a finire, l’una e l’altra storia, possiamo solo immaginarlo. Nel frattempo, gli zombi continuano a battere ai cancelli della realtà. Di notte gli vado ad aprire.