La mistica di JoJo

Col nuovo capitolo della saga di JoJo torna uno dei manga più strambi di sempre, tra Kenshiro e Michelangelo, tra Gucci e Lacan (e un sacco di LSD)

L’educazione sentimentale dei neotrentenni è passata per un singolare tritacarne emotivo che era l’animazione e il fumetto giapponese. Sulla fine degli anni Ottanta e per tutti i Novanta c’è stato un crescendo di visioni fugaci, prive di contesto, conturbanti, dove il concetto di amichevole oppure adatto ai minori veniva preso (giustamente) a calci. Nell’intrattenimento per ragazzi iniziava a farsi spazio il concetto di ambivalenza emotiva, decretando il successo di prodotti che riuscivano a spaziare dall’umorismo all’orrore, dove avventura e scenari perturbanti aprivano porte verso mondi incomprensibili con i mezzi che poteva possedere un ragazzino di 10 anni.

Mentre noi cercavamo di capire in quale galassia vivessero Pegasus, City Hunter, e Goku, in Giappone avevano tutti la propria collocazione nella rivista Weekly Shonen Jump; un frullatore sincretico di storie, personaggi e stili che venivano letti da decine di migliaia di ragazzi. E pensavi di essere pronto a tutto, dopo che leggi di esper incastrati in un vortice di romanticismo tragico, calciatori che distruggono ogni principio cinetico e ragazzi-scimmia che menano vecchi. Nel 1987, a sottolineare questo periodo di produzione nipponica squinternata, esordisce una serie con un titolo che è una dichiarazione d’intenti chiarissima: JoJo’s Bizarre Adventures, scritta e disegnata da Hirohiko Araki, una figura che a 58 anni si è costruita una mitologia vampiresca.

Hirohiko Araki non era un esordiente, anzi, aveva alle spalle quasi cinque anni di pubblicazioni (alcune anche notevoli, come l’orrore biomeccanico di Baho) ma faticava a trovare spazio in una rivista dove erano presenti dei colossi come Akira Toriyama e Masami Kuramada. L’arrivo di JoJo rompe gli equilibri della rivista, presentando dei personaggi che rientrano solo in apparenza nel canone del manga per ragazzi conosciuto come shōnen – che per comodità possiamo definire «manga di botte» – ma, dopo trenta e passa anni, rappresentano uno degli spostamenti più radicali e densi di un genere flagellato da una terribile tendenza alla ripetizione, definendone il posizionamento come uno dei manga/anime più amati e riconosciuti di sempre.

La saga della casata dei Joestar è una freccia che attraversa tre decadi di cultura attraverso l’evoluzione dei suoi protagonisti, la distruzione/riconferma delle sue dinamiche narrative, con l’autore che utilizza la forma antologica per creare una mitologia da pazzo completo, fondendo dramma familiare al western, umorismo al body horror; Araki stesso mette in discussione lo stile e i contenuti, aprendosi a continue evoluzioni che hanno portato molti lettori a chiedersi «ma che cazzo è?» senza mai mollare, neanche di fronte allo scoglio colossale di 121 volumi e circa 1200 capitoli. I toni si spostano con una velocità tale da spostare il macrogenere da shonen a seinen, con conseguente spostamento di testata nel 2005 (da Shonen Jump a Ultra Jump).

L’anime di JoJo insegue da anni il manga, e dopo una serie nel 1993 e un OVA nel 2007, dal 2012 abbiamo un adattamento anime fedele che adesso arriva al quinto story arc del manga, ambientato in Italia e intitolato Vento Aureo, dove troviamo nomi incredibili come Giorno Giovanna, Prosciutto e Leone Abbacchio .

Descrivere tutte le saghe di JoJo, qui e ora, è un’impresa: succede di tutto. Partiamo con il dire che ci sono diversi JoJo, uno per ogni capitolo. Ora ci troviamo nell’ottava era, quella di JoJolion. Qui trovate in una pratica e densissima wiki con tutte le informazioni necessarie.


Una delle caratteristiche peculiari di JoJo, a parte la passione del suo autore per la musica che l’ha portato a chiamare i personaggi e i poteri di ognuno con i nomi dei suoi gruppi o album preferiti (troviamo esempi fantastici come Dio Brando, Oingo e Boingo, White Album, Devo The Cursed, Black Sabbath o l’incredibile LIMP BIZKIT) e il character design in continua evoluzione, è senza dubbio il sistema di combattimento.

Dimenticate i power level, ogni battaglia in JoJo è strutturata in un sistema basato su strategia, misticismo, manipolazione degli elementi e simulacri. Ogni scontro è imprevedibile e mai scontato. Con l’arrivo degli Stand (una manifestazione fisica di forze energetiche e spirituali) nella terza saga che ne ha decretato il successo planetario, Stardust Crusaders, il livello degli scontri raggiunge vette di follia niente male. L’intento di Araki era quello di rendere accessibile l’invisibile, utilizzando i poteri dei comprimari per creare delle estensioni fantasmatiche, inserite tra il mondo degli oggetti e l’intelligibile. L’immaginario della scolastica Medievale non è un azzardo, se si guarda la formazione stilistica di Akira, ovvero una rivisitazione lisergica del barocco.

Se nell’anime è possibile inquadrare uno stile compiuto, un’unione a tratti spaventosa tra Ken Il Guerriero e Michelangelo Buonarroti sotto LSD, nel manga si è sviluppato gradualmente, arrivando a una compiutezza tra realismo e assurdo; Araki, trovandosi alla Galleria Borghese, resta fulminato da Apollo e Dafne di Bernini ed esclama: «Ecco come vorrei disegnare un manga!». Come accadde a Go Nagai con la Divina Commedia illustrata da Gustav Dorè, troviamo un altro caso di fruttuosa appropriazione culturale.

JoJo diventa così un benchmark per lo strambo e il perturbante, con corpi flessuosi dai colori assurdi (manifesto anche il suo amore per Gauguin e i postimpressionisti) in pose divenute iconiche, come la JoJo-dachi che vedete qua sopra. Non solo: l’insana passione di Araki per la moda di ogni epoca gli permette di creare un vestiario allucinante, al punto che Gucci chiamerà l’autore per una collezione ispirata ai suoi personaggi.

Il mistero che rende uno shōnen come JoJo qualcosa di altro rispetto alla mitologia canonica può essere riconducibile nel sentimento di appagamento riscontrabile nella prospettiva di eternità del seriale come meccanismo autoalimentante: trovi una buona idea, la spremi fino alla morte (tua, non dell’idea), ma raramente tale struttura non mostra il fianco portando alla noia e l’abbandono. One Piece è uno dei pochi casi in cui potresti ridurre la struttura della vicenda a dei precisi plot points ricorrenti, a uno sviluppo graduale del power level dei personaggi, darli a una macchina e sfornare capitoli all’infinito e non raggiungere i gradi d’intensità emotiva che Eiichiro Oda riesce a raggiungere in una storia che va avanti quasi da vent’anni. Lo stesso vale per JoJo, e il motivo è proprio il non tener conto dei precetti cardine della serialità, anzi distruggerli progressivamente per far brillare cosa Araki vuole far emergere dall’apparente infinità di personaggi e stramberie delle sue storie: una gigantesca peana nei confronti dell’umano. Tutto attraverso l’alterità dell’immagine.


Nel suo saggio di recente pubblicazione per Zero Books, The Animatic Apparatus, Deborah Levitt propone questa interpretazione del termine animazione: «L’animazione è un “super-medium” che (insieme a tutti media estetici) ha il proprio sistema di pensiero. Lo definisco “supermedium” perché le sue diverse varianti – stop motion o animazione classica hand drawn – creano dei precisi media al suo interno. Come vedremo, il suo territorio non è mappato in termini di una luminosa, spettrale vita infestata da temporalità, decadenza e morte, bensì negli scambi tra l’infinito potenziale di metamorfosi animate e le caratteristiche limitanti che formano e definiscono ogni sub-media, ovvero, tra i meravigliosi meccanismi trasformativi dell’animazione e le rispettive tendenze alla ripetizione e il coefficiente di resistenza al mutamento».

Nella sua analisi, Levitt prende come riferimento Ghost In The Shell 2: Innocence, un sequel incompreso per la sua narrazione densa e frammentaria, che alza il livello della speculazione su temi quali il superamento della condizione edenica e il posizionamento nella società dell’automata/bambola. In JoJo il suo autore non aveva pretese autoriali «alte», il suo posizionamento tematico partiva dalla morte del nonno e delle conseguenti riflessioni sul passaggio generazionale. Quello che rende Araki straordinario è la sua perenne apertura al cambiamento, che abbraccia il fondamento del concetto di animazione minando i fondamenti pallosi di una coazione a ripetere innata nel genere.

La capacità di JoJo di «resistere» al realismo dei meccanismi di produzione va di pari passo con la curiosità innata del suo autore; come afferma lui stesso in Manga in Theory And PracticeThe Craft of Creating Manga, Araki utilizza la sua esperienza diretta con i luoghi per creare i mondi di JoJo. Sì, ha EFFETTIVAMENTE visitato l’Egitto e poi ha inserito la sua esperienza nella seconda parte di Stardust Crusaders. Il successo della serie non ha minato la sua tendenza al cambiamento costante, e quando afferma disegnare manga equivale a un tentativo di raggiungere l’eternità della figurazione come la Mona Lisa abbiano anche la risposta a una domanda annosa: sì, i manga sono arte.


Se JoJo rappresenta un movimento animato anti-seriale, lo si deve soprattutto alla rottura di ogni barriera di genere, in ogni sua sfumatura. Tutta la dinastia dei JoJo, i suoi alleati e la pletora quasi infinita di comprimari e avversari, rispecchiano l’intento umanista di Araki, dove ogni battaglia è una riconferma di una visione priva di limiti; l’espediente ereditario della serie ha permesso al suo autore di evolversi insieme al passaggio generazionale dei personaggi. Se il capostipite Jonathan Joestar aveva come riferimento eroico Clint Eastwood, il resto della famiglia è caratterizzata da spacconi, teppisti (Jotaro di Stardust Crusaders), una ragazza incarcerata ingiustamente (Joyline in Stone Ocean), e un paraplegico in una saga che in realtà è una gigantesca corsa a cavallo (Johnny in Steel Ball Run): è «l’infinito potenziale di metamorfosi» descritto da Levitt, una serie di corpi in perenne evoluzione e movimento, che incarnano un’idea di tempo e distruggono ogni tentativo di ripetizione.

Una delle cose più curiose collegate a JoJo è questa illustrazione di Araki per un saggio su Jacques Lacan di Tamaki Sato, intitolato Ikinoburu tame no Lacan («Lacan per la sopravvivenza»). Ed eccolo, Lacan con la cravatta di Yoshikage Kira, l’antagonista della saga Diamond is Unbreakable:

La collaborazione dell’autore con uno psicologo specializzato in psichiatria adolescenziale non è un casuale; Sato è considerato uno dei massimi esperti del fenomeno degli hikikomori, e da anni studia il progressivo isolamento volontario dei ragazzi in Giappone. Il movimento otaku, ovvero l’insieme di cultura e controcultura pop nipponica, è un bacino culturale che intrappola e cristallizza l’individuo in un’adolescenza perenne, contribuendo alla ricerca di un rifugio dalla realtà.

Nel suo saggio Beautiful Fighting Girl, in cui costruisce una genealogia dell’archetipo femminile nell’animazione giapponese, Sato fa riferimento a una sua intervista con Araki del 1997 a proposito di JoJo e della cultura otaku in generale, che viene liquidata subito da Hirohiko come «monotona».

La furiosa libido sotterranea del genere, esplosa e destrutturata in Evangelion, non è parte della poetica di Araki che Sato intercetta in una «costante volontà a rendere visibile ogni sua idea» e il desiderio di mettere in primo piano le emozioni nella narrazione – mutuata da uno dei suoi idoli, Ikki Kajiwara – evitando ogni autoreferenzialità compiaciuta. Stessa cosa accade in One Piece, capace di creare legami e rispecchiamento nei lettori per decenni attraverso una narrazione generosa e diretta.


JoJo’s Bizarre Adventures si inserisce in uno straordinario esempio di animazione generosa, che parte dalla carta e finisce sullo schermo, e non si esaurisce lì. È un meccanismo non viziato di narrazione totale, che si immette in tutte le forme dei media (mercato videoludico, cinematografico, meme, addirittura una escape room) mantenendo una compartecipazione emotiva che guida il lettore verso la distruzione dei suoi stessi schemi. Come testimonia questo articolo su Medium, JoJo riesce a risuonare anche quando si parla di mascolinità queer.

Dall’universale elogio dell’umano in tutte le sue caratteristiche più strambe, JoJo è un superamento del simulacro monodimensionale, che parla direttamente all’individuo; se lo sviluppo delle dinamiche che contribuiscono all’isolamento dell’hikikomori passa per una fobia patologica del cambiamento, JoJo offre nel suo intrattenimento una pulsione vitalistica, animata e perennemente trasformativa. Un inno alla vita, alla libertà e alla compassione completamente folle.