Pierre Huyghe, Zoodram 4

Per un’arte dello Chthulucene

Pierre Huyghe è forse l’artista che più sta rovesciando l’eterna dicotomia tra natura e cultura. Tra alveari, insetti nell’ambra e foreste nelle sale da concerto, breve introduzione alle sue pratiche «simpoietiche»

Immaginate di entrare in una stanza in cui grandi schermi LED proiettano immagini a prima vista incomprensibili. A intervalli irregolari, l’immagine sugli schermi sembra assumere forme conosciute: un arto animale, qualche elemento antropomorfico, potenziali simboli. Ben presto iniziate a notare di non essere soli: un numero indefinito di mosche sembra irrevocabilmente attratto dalla luce intensa emanata dai LED. Come se non bastasse, il pavimento è polveroso e ogni movimento non fa che sollevare la polvere in tutta la stanza. Lo spazio che vi circonda sono le Serpentine Galleries di Londra e l’insieme di schermi, immagini, insetti e polvere descritti sono gli elementi che costituiscono UUmwelt, l’ultimo lavoro dell’artista francese Pierre Huyghe.

La velocità e le pause del video dipendono dai mutamenti di luce, temperatura e umidità nelle stanze. In questo senso, ogni nuovo visitatore – non umani compresi – porta, con il suo ingresso nella galleria, una serie di variazioni che influiscono sull’opera stessa. Non bisogna tuttavia pensare che questo coincida con l’esposizione di un’opera d’arte concepita in funzione del protagonismo degli spettatori. Al contrario, ciò che viene esposto è una serie di condizioni tali da decostruire l’immagine e la posizione soggettiva che i visitatori abitualmente occupano. 

Pierre Huyghe: UUmwelt (Deep Image Reconstruction)

Confrontiamo l’opera appena descritta con due macro elementi abitualmente ritenuti imprescindibili per il darsi stesso di una fruizione artistica. Il primo elemento è lo spazio espositivo, definito da confini spaziali e da alcune scansioni temporali. Pensiamo, per quest’ultimo aspetto, alla successione di esposizioni che contribuiscono, di volta in volta, a ridefinire uno spazio espositivo tanto in senso sincronico ogni serie di nuove opere ospitate produce una nuova immagine dello stesso luogo quanto in senso diacronico – la successione di esposizioni produce una stratificazione storica e ne modifica l’identità. Il secondo elemento è la figura dello spettatore inteso come un aggregato di conoscenze, informazioni e abitudini, funzionali a riconoscere uno spazio espositivo come luogo artistico. L’insieme di conoscenze, studi e convenzioni formano, in altri termini, dei pattern. È sulla base di questi pattern che un luogo viene riconosciuto come uno spazio all’interno del quale l’opera d’arte può essere fruita o può prendere forma, come nel caso delle performance. Questi due poli, che solo astrattamente possono essere considerati come separati, non smettono di intersecarsi e influenzarsi a vicenda. 

Inserendosi in questa terra di scambio molto trafficata, i lavori di Huyghe non si limitano a mutare i rapporti che intercorrono fra gli spettatori e gli spazi espositivi, ma attirano entrambi questi elementi all’interno di un campo magnetico in grado di ripensarli radicalmente. Un primo esempio di questo movimento può essere riscontrato in A forest of Lines, opera realizzata da Huyghe nel 2008 in occasione della sedicesima biennale di Sidney. Per ventiquattro ore, la concert hall del teatro dell’opera di Sidney fu trasformata in una foresta composta da più di cento alberi. L’uscita, non immediatamente visibile dall’ingresso, era suggerita mediante una canzone trasmessa all’interno del teatro. Pur rimanendo circoscritti alla struttura dell’edificio che li ospitava, i confini materiali che definiscono uno spazio espositivo vengono decostruiti in questo lavoro mediante un processo di allargamento. Dalla parte degli spettatori il carattere inclusivo, fagocitante, di questo lavoro induce un senso di smarrimento rispetto alla posizione soggettiva che erano soliti occupare all’interno di uno spazio espositivo. 

Per quanto importanti siano questi spostamenti, essi si limitano a descrivere una pratica artistica in grado di torcere su se stessa i poli descritti senza uscire completamente dai loro continui rimandi. Trasversalmente all’operazione critica interna ai due termini si intravede, tuttavia, lo sfondo su cui entrambi i poli sembrano poggiare, ossia la posizione soggettiva moderna e la sua incessante produzione di dualismi al singolare: identità e alterità, soggetto e oggetto, io e non-io, natura e cultura. Che cosa sostiene, infatti, la distinzione dello spazio espositivo come luogo altro rispetto a dei soggetti, gli spettatori, se non la fondazione di un’identità sulla base delle quali categorizzare e oggettificare ciò che da esse si differenzia concettualmente ed estensivamente? 

Pierre Huyghe, A Forest of Lines

Nell’opera Human Mask tale aspetto è particolarmente evidente. L’inquadratura della telecamera ci accompagna nelle strade e negli edifici abbandonati di un paese vicino a Fukushima, dopo il noto disastro nucleare avvenuto nel 2011. In questo scenario post apocalittico veniamo introdotti in una tradizionale sake house giapponese dove una figura dalle caratteristiche femminili, con un grembiule nero e una maschera bianca, sembra continuare imperterrita a svolgere le sue mansioni da cameriera. Ben presto, tuttavia, la figura femminile si rivela non essere un umano, ma un esemplare di macaco. Con le sue movenze antropomorfiche e i suoi finti capelli neri, la protagonista di questo video crea un forte senso di disagio negli spettatori. Huyghe aveva conosciuto Fukuchan attraverso un video pubblicato su YouTube nel quale quest’ultima porta gli ordini che i clienti le richiedono. In entrambi i casi Fukuchan indossa una maschera bianca, ma quella presente in Human Mask è stata realizzata in resina dallo stesso artista, su ispirazione delle maschere indossate dagli attori del teatro giapponese Noh. Se in quest’ultimo, tuttavia, la maschera è impiegata per esprimere il carattere di un personaggio mediante l’enfatizzazione di alcune espressioni facciali, nel lavoro di Huyghe essa funge da filtro tra il corpo animale di Fukuchan e l’insieme di atteggiamenti antropomorfici a cui è sottoposta. Parafrasando Lévi-Strauss si potrebbe dire che la maschera, in questo caso, funziona più per ciò che trasforma che non per quello che rappresenta. I movimenti, la postura e la maschera riflettono una concezione di umanità aleatoria, fondata non su distinzioni biologiche o evoluzionistiche, ma sulle capacità di eseguire specifiche perfomance. È dunque soprattutto in relazione a un criterio performativo che l’umanità può essere attribuita.

Al di là, o meglio, al di sotto, della distinzione fra spettatori e spazio espositivo, i concetti di identità e umanità rivelano, dunque, la loro natura fluttuante e contingente. 

Pierre Huyghe, Untitled (Human Mask)

È possibile rintracciare nella carriera artistica di Huyghe quattro differenti modalità di far reagire fra loro elementi naturali e culturali per creare composizioni che sfidano la tenuta oggettiva di tali categorie. Per brevità, chiamiamo questi composti eterogenei configurazioni

La prima configurazione può essere mostrata attraverso l’opera La Saison des Fêtes, realizzata nel 2010 per il Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía a Madrid. L’opera consiste in un giardino ovale composto da piante e fiori legati alle festività o a eventi tradizionali: abeti che simboleggiano il Natale si alternano con zucche che rimandano ad Halloween; fiori di ciliegio, come segni dell’inizio della primavera in Giappone, si mescolano a rose legate a San Valentino. Elevati a simboli, questi enti assumono una diversa funzione ed entrano in una differente rete di relazioni irriducibile al solo piano naturale: un abete rimane certamente un albero anche durante le festività natalizie, ma il suo ruolo e la sua differenza da altri alberi di specie differenti muta durante una specifica parantesi temporale. 

Da una prospettiva opposta, il lavoro Influants presenta un secondo prototipo di configurazione. Ospitato negli spazi della galleria berlinese Esther Schipper, quest’opera si presenta come un trittico di elementi autonomi. Ad accompagnare l’ingresso degli spettatori è un attore che annuncia il loro nome e cognome – Name annunces introducendoli in una stanza apparentemente vuota a occhio nudo, ma contenente virus dell’influenza – influenced –, una colonia di formiche e una cinquantina di ragni che si muovono tra gli angoli del soffitto – Umwelt. Tanto il virus dell’influenza, quanto gli insetti che abitano questo spazio, pur mantenendo una propria indipendenza nei movimenti, danno vita a variazioni legate a chi e a che cosa viene introdotto nella galleria

A partire da questi primi due modelli è possibile specificare con più concretezza il termine configurazione. Chiamiamo, infatti, configurazione un gruppo definito di elementi naturali o culturali in grado di generare degli ibridi naturali e culturali all’interno di un ambiente culturale o naturale circoscritto. I casi esaminati sono dunque speculari: se in La Saison des Fêtes è uno sfondo naturale a produrre, tramite impieghi simbolici-culturali, degli ibridi naturali e culturali, in Influants è, invece, la galleria – in quanto luogo culturale a ospitare degli elementi naturali che generano delle relazioni tanto culturali che naturali

Pierre Huyghe, De-Extinction

Oltre a queste prime modalità è possibile ritrovare nelle opere di Huyghe altre due differenti configurazioni. La prima, in particolare, può essere rintracciata nel video De-Extinction. Realizzato con una motion control camera, il video permette di vedere degli insetti rimasti intatti per più di trenta milioni di anni all’interno di una pietra d’ambra, rivelando un vero e proprio cosmo abitato da organismi viventi cristallizzati in coaguli di resina. Tale esplorazione non sarebbe possibile senza l’utilizzo di specifici strumenti in grado di introdursi visivamente al suo interno, ingrandirne il contenuto e riprodurre l’intera operazione su una scala adatta a mostrarne i dettagli con precisione. I mezzi impiegati non sono elementi neutrali rispetto all’intera operazione, ma sono essi stessi parte integrante di quel processo conoscitivo e pratico che ci permette di analizzare l’ambra e il suo contenuto. In questo caso, dunque, strumenti culturali – telecamere, supporto video, laboratori – creano un ibrido naturale e culturale all’interno di un ambiente culturale

Una quarta e ultima configurazione può essere riscontrata, infine, negli acquari che costituiscono Nymphéas Transplant. In questo lavoro Huyghe ha utilizzato elementi appartenenti alla flora e alla fauna dello stagno personale di Monet, situato a Giverny, per realizzare un acquario che riprende le condizioni climatiche presenti tra il 1914 e il 1918, anni in cui l’artista francese dipinse parte della sua celebre serie dedicate alle ninfee. Separati e racchiusi in uno spazio delimitato dai vetri dell’acquario, gli elementi della flora e della fauna formano una zona di convivenza fra esseri di natura differente. Come spiega Timothy Morton in Iperoggetti, gli oggetti – da intendersi tuttavia in senso ampio, includendo anche esseri animati e inanimati come artefatti, animali, virus e piante propagano una zona, un vero e proprio campo di forze, nella quale gli attori inclusi si trovano ad agire: 

La zona è uno spazio non concettuale, eppure non è puro nullo […]. La zona è indicibile proprio perché è «sulla mia faccia». Non devo tendere nessuna mano per toccarla: è l’oggetto stesso a mostrarmela. Le zone sono reali ma non sono oggettivamente «da qualche parte». 

Essendo sempre collocati all’interno di zone emanate da oggetti, i nostri ragionamenti e le nostre scelte sono sempre indirette rispetto ai segnali e alle direttive che gli stessi oggetti emanano. L’impiego di elementi naturali, che formano fra loro un ambiente naturale, è volto a creare un distacco artificiale, al fine di posizionare localmente una zona, culturale e naturale. Le quattro configurazioni che si ottengono in questo modo si fondano, dunque, sull’impiegare i concetti di natura e cultura in modo tale da mostrarne i limiti concettuali e applicativi intrinseci.

Tuttavia, emerge fin da subito che questa distinzione è possibile solo se le opere di Huyghe vengono presentate, come è stato fatto, da una prospettiva statica. Considerate, infatti, nel loro carattere dinamico e nel loro incessante movimento, le configurazioni derivate dai lavori tendono a sconfinare l’una nell’altra e a mostrarsi come ambienti, forme di vita dotate di propria autonomia. Come stabilire, ad esempio, i confini di un lavoro come Influants, dal momento in cui gli effetti e i suoi stessi protagonisti – formiche, virus, ragni – sono liberi di circolare al di fuori degli stessi limiti della galleria e di intervenire su chi entra in questo spazio?  Se le configurazioni mostrano il carattere contingente dell’impiego delle categorie di natura e cultura, ne consegue che queste ultime perdono la loro funzione esplicativa, richiedendo una spiegazione congiunta. 

Chi abita, dunque, questi spazi? Fuoriuscendo dalle maglie troppo larghe di una categoria come quella di umano e della sua opposizione speculare di inumano, i soggetti dei lavori di Huyghe si presentano come degli agenti postantropocentrici marcati dall’interdipendenza con il loro ambiente. Dei soggetti, in altre parole, particolarmente adatti a sopravvivere nelle terre affollate di ciò che Donna Haraway per contrapporsi al carattere troppo drammatico e disfattista del concetto di Antropocene – ha definito come Chthulucene:

Dobbiamo ricordarci che la parola chthonios in Greco significa «sotto, dentro o appartenente alla terra e ai mari»: un ricco e torbido calderone terrestre per l’FS, il fatto scientifico, la fantascienza, il femminismo speculativo e la fabula speculativa. Le creature ctonie non sono divinità celesti, non fondano olimpi, non sono amiche dell’Antropocene né del Capitolocene, e di sicuro non sono compiute. […] A differenza del drama che domina il discorso dell’Antropocene e del Capitolocene, nello Chthulucene gli esseri umani non sono gli unici attori rilevanti; gli altri esseri non sono mere comparse che si limitano a reagire. L’ordine viene rielaborato, si disfa una maglia per crearne un’altra: gli esseri umani sono della Terra e con la Terra, e i poteri biotici e abiotici di questa Terra sono la trama principale del racconto. 

Pierre Huyghe, After Alife Ahead

Una struttura abbandonata adibita a palazzetto del ghiaccio nella periferia di Monaco si presenta priva di pavimento. Nella zona centrale dell’edificio, sulla pista dove prima si potevano osservare i pattinatori sfrecciare sul ghiaccio, ora si trovano cumuli di terra di varie dimensioni. Al centro della palazzina è stata posizionata una teca di vetro. I vetri oscurati richiedono a chi entra di avvicinarsi per poterne scorgerne l’interno. Tra le rocce e gli antizoi si può osservare un esemplare di Conus texile, una lumaca di mare velenosa, che riporta sul guscio uno strano pattern. Inquadrando questo pattern con un’apposita app, l’intero acquario si illumina e apre i finestroni a forma triangolare presenti sul soffitto. Gli elementi descritti sono solo alcune delle componenti di cui era costituita After Alife Ahead, opera del 2017 creata per lo Skulptur Projekt di Monaco. 

In occasione di Documenta13, una statua femminile sdraiata con il volto coperto da un alveare è collocata all’interno di Karlsaue Park a Kassel. Le api, attirate dalle piante medicinali e allucinogene che l’artista aveva collocato nelle vicinanze, seguono una traiettoria circolare che le porta dai fiori all’alveare e viceversa. Nelle vicinanze, se si è fortunati, si può fare la conoscenza di Human o di Señor, entrambi esemplari di Podenco ibicenco, che si muovono senza vincoli di orari o distanza nei paraggi dell’installazione. 

Entrambi questi lavori creano un’osmosi fra elementi biologici, entità inorganiche, segni, icone e simboli di differente natura, così come rimandi alla stessa storia dell’arte. Idee e artefatti, per riprendere le parole dello stesso Huyghe, reagiscono con la realtà biologica e minerale creando una composizione imprevedibile di elementi eterogenei. All’interno di questi ambienti semiotico-materiali il discernimento delle varie posizioni soggettive non dipende più da criteri inamovibili, ma è il risultato dei mutamenti delle relazioni che li costituiscono. Sono queste caratteristiche a renderli esempi di ambienti Chthulucenici. Riprendendo una distinzione fondamentale impiegata da Haraway per spiegare il termine Chthulucene, si può affermare che questi lavori non funzionano mediante una logica autopoietica – nella quale sistemi autonomi dallo sviluppo prevedibile presentano confini spaziali controllati da un’unità centralizzata –, ma con un ordine simpoietico. Mentre l’autopoiesi si riferisce a una struttura nella quale lo sviluppo dei singoli enti non dipende dalle condizioni dell’ambiente in cui si trovano, il concetto di simpoiesi, centrale nel Chthulucene, descrive una struttura in cui l’esistenza di ogni singolo ente è determinata da un sistema dinamico e complesso di relazioni e interdipendenze. Come spiega Haraway, è a una logica di questo tipo che bisogna guardare per trovare alleati nella nostra contemporaneità, e questo perché gli ordini simpoietici sono caratterizzati dall’essere sistemi prodotti collettivamente, privi di confini spaziali o temporali rigidi e imprevedibili nei loro mutamenti.

Pierre Huyghe, Untitled, dOCUMENTA 13, Kassel

Pur nella sua generalità di utilizzo, il termine ente stride, tuttavia, con le modalità con cui le componenti delle opere formano un ambiente biosemiotico. Un concetto più adatto può essere quello di macchina, nella modalità con cui esso viene impiegato da Levi Bryant. Nel piano filosofico tracciato da Bryant, ogni ente funziona come una macchina, ovvero può essere analizzato in base alle operazioni a cui dà vita trasformando input in output. Il termine macchina è funzionale a costruire le fondamenta di un materialismo nel quale gli enti vengono analizzati sulla base di ciò che possono fare – la loro potenzialità e di ciò che producono, e non per ciò che sono o rappresentano rispetto a una scala ontologica ed epistemologica che vede l’uomo al suo centro. Le manifestazioni di una macchina, in questo senso, non potranno mai essere dedotte astrattamente, ma dipenderanno sempre dall’ambiente in cui essa è inserita e dagli input a cui è sottoposta. 

Il pubblico, pur producendo una varietà imprevedibile di input tra le macchine presenti, non ha nessuna priorità rispetto al funzionamento delle macchine che formano l’ambiente biosemiotico. Ne consegue che, in base alla macchina presa in considerazione, varieranno gli attori principali attorno cui gravitano le principali funzionalità della macchina stessa, così come le risorse grazie alle quali le sue manifestazioni sono possibili. L’alveare di Untilled, ad esempio, funziona per le api come una macchina che capta tutti i loro movimenti e i loro impulsi. Niente ci vieta, dunque, di considerare il sistema immunitario del pubblico di Influants come un potenziale input su cui possono reagire le macchine epidemiche dell’influenza presenti nella galleria. 

Nel nuovo ruolo che gli spettatori ricoprono all’interno degli ambienti biosemiotici si scorge la distanza che separa tale spostamento dalla contrapposizione fra spettatore e spazio espositivo da cui si è partiti per approcciarsi ai lavori di Huyghe. Gli ambienti biosemiotici ci spingono, dunque, in direzione di uno scenario simile a quello che si trova al centro dell’opera Or, una strada di campagna che si divide senza lasciare intuire dove conduce. Dobbiamo, tuttavia, immaginare che queste strade non si limitino a presentare un ulteriore dualismo, un aut-aut, ma siano l’inizio di una serie di variazioni e diramazioni dalle quali si possono sviluppare altri mondi e narrazioni possibili. Sottolineando, tuttavia, che variazione non è sinonimo di informe, ma è l’altra faccia di una modalità postantropocentrica di preservare: 

Preservation has more to do with a compost pile than a museum. For something to stay alive, it has to infect and change what’s around it. It has to reproduce. Sex is a preserving machine, addictive dime-store pulp is a preserving machine, even cockroaches are preserving machines. 

 

 

Brano tratto dal numero 10 di Scenari, curato da Gabriela Galati in collaborazione con Visual Culture Studies e edito da Mimesis, dedicato al postumano e alla pratica artistica contemporanea.