Sonnambuli

L’incubo della sovranità nell’epoca del software (e della Catalogna)

Nel suo I sonnambuli, lo storico australiano Christopher Clark tenta una minuziosa, dettagliata, densissima analisi non del perché, ma del come nel 1914 si arrivò allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Per Clark, i responsabili di quello che sarebbe diventato «il conflitto da cui tutti gli altri discendono» – re, capi di Stato, imperatori, generali, diplomatici, ambasciatori – «camminarono verso il pericolo con passi guardinghi e calcolati»: ciascuno di loro, concentrato sui propri interessi e su una lettura paranoico-introversa della realtà dell’epoca, «era come un sonnambulo, apparentemente vigile ma non in grado di vedere» il quadro generale. Il risultato, lo sappiamo, fu che una catena apparentemente casuale di singoli eventi e singole mosse strategiche condusse alla prima grande carneficina della storia moderna.

Eppure, ricorda Clark, ancora nel giugno del 1914 – e cioè a poche settimane dell’attentato in cui a Sarajevo venne ucciso l’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando – l’eventualità di un conflitto di tale portata «lungi dall’essere inevitabile, fu di fatto “improbabile” – perlomeno finché non avvenne veramente». Quello che Clark racconta, è che quasi di punto in bianco i sonnambuli si ritrovarono ad aver inavvertitamente oltrepassato il limite, ritrovandosi nella classica posizione in cui, una volta constatata l’impossibilità di tornare indietro, non restava altro che un «e adesso?» che poi si sarebbe tradotto negli orrori che sappiamo. Erano insomma andati «too far, too soon», per citare un vecchio brano dei Van Der Graaf Generator che, guarda tu, proprio «The Sleepwalkers» si intitola.

Bene: fatti i debiti scongiuri e sgombrando il campo da parallelismi fuori luogo (almeno spero…), l’immagine del sonnambulo che a tentoni avanza al buio e che di colpo, senza accorgersene, si ritrova oltre il famigerato punto di rottura, è tornata con frequenza in una mia recente trasferta nella Londra post-Brexit. Sarò sincero: mi ha colpito l’insistenza con cui Brexit continua a dominare non solo le conversazioni dei tanti italiani che lì ho incontrato (ero ospite di FILL, il Festival of Italian Literature in London curato da Marco Mancassola e Claudia Durastanti) ma anche il discorso pubblico e le attenzioni dei media. Voglio dire: dal referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea è passato quasi un anno e mezzo, no? È vero, siamo ancora nel pieno delle negoziazioni e in cosa effettivamente l’uscita dall’UE si tradurrà non è tuttora chiaro; ma il vero tratto saliente delle riflessioni che ho incrociato, è piuttosto un misto di protratto sgomento e sincera difficoltà a spiegare l’inspiegabile. «La cosa che fa rabbia», mi ha detto Federico Campagna (che a Londra vive da circa un decennio) «è che niente di tutto questo era necessario. Non c’era nessun reale motivo di arrivare a tanto, nessuna reale ragione di indire un simile referendum, nessuna giustificazione valida per quello che è avvenuto poi. È successo tutto così, come per caso». Nata come maldestra manovra elettorale e dapprincipio relegata a eventualità sostanzialmente impraticabile, la Brexit si è infine avverata seguendo logiche dal carattere si direbbe irreale, quasi onirico, ma dagli effetti concreti assai, spalancando le porte sull’ignoto di quel «e adesso?» che sempre segue a un brusco risveglio. Ancora una volta: too far, too soon.

«E adesso?» è la domanda che torna in questi giorni come reazione all’indipendenza proclamata dal parlamento catalano. Di nuovo, la sensazione è che – distrattamente, accidentalmente, senza che forse davvero ce ne fosse il bisogno – in appena poche settimane si sia precipitati da uno stato di quieta per quanto illusoria normalità a un punto di non ritorno difficilmente recuperabile, di cui oltretutto nessuno sa individuare conseguenze ed effetti. Brexit e l’indipendenza della Catalogna, si dirà, sono due casi tra loro molto diversi se non addirittura antitetici: la prima è l’esito di un manipolo di spregiudicati politicanti xenofobi che hanno giocato sulle paure degli strati più deboli e retrivi della società; la seconda è il risultato di decenni – se non di secoli – di profonde aspirazioni politiche e culturali, e di una reazione da parte dello Stato spagnolo sorda, miope e tutta improntata alla repressione.

D’altronde, la (per ora) pacifica rivolta catalana si presenta al mondo sotto le insegne di una società aperta, democratica e per giunta filoeuropea. Tra la meschina Little Britain vagheggiata da Boris Johnson e Nigel Farage e la cosmopolita Barcellona dei viaggi Erasmus e del Primavera Sound, sta un oceano in termini di parole d’ordine, immaginari politici e sensibilità anche umane. Ma entrambe condividono qualcosa: l’accelerazione data dalle conseguenze della crisi del 2008; il ritorno all’idea di Stato-nazione come sicuro recinto identitario; e infine, la pressoché totale inadeguatezza che questo ritorno comporta in tempi di governance sovranazionali e flussi sia immateriali che non. E poi c’è la questione dei sonnambuli, chiaro.

Ancora nel 1997 – e quindi vent’anni fa esatti: certo non ieri, ma a pensarci bene nemmeno troppo tempo fa – Manuel Castells individuava nella Catalogna un esempio virtuoso di «nazione senza Stato» capace di fornire un’alternativa credibile ai più reazionari rigurgiti identitari effetto collaterale della globalizzazione. Per Castells, la particolarità del nazionalismo catalano è il suo carattere assieme «europeo, mediterraneo e ispanico», che si concretizza da una parte in un’inclusività che porta a riconoscere come catalano «chiunque viva e lavori in Catalogna» (ma che soprattutto «vuole essere catalano»), e che dall’altra rigetta ogni tentazione separatista dalla Spagna perseguendo «un nuovo genere di Stato: uno Stato a geometria variabile, che concili il rispetto per l’eredità storica dello Stato spagnolo con la crescente autonomia delle istituzioni catalane». A rendere interessante l’esempio catalano, era per Castells proprio il rifiuto di ricorrere ai tradizionali concetti di «sovranità nazionale» (la vecchia idea di Stato westfaliano, potremmo dire) per preferire modelli che meglio si adeguano a quella che sempre Castells ha ribattezzato «società informazionale», vale a dire «a una società fondata sulla flessibilità e sulla adattabilità, a un’economia globale, al collegamento in rete dei media e alla compenetrazione delle culture».

Letture del genere, sembrano ovviamente venire meno nel momento in cui da «nazione senza Stato» la Catalogna recupera il vecchio sogno indipendentista per configurarsi come Stato-nazione a sé. Si può discutere di quali sono stati i passaggi che, nel corso dell’ultimo decennio, hanno portato all’inasprimento dei rapporti tra Generalitat de Catalunya e governo di Madrid; e si può (anzi: si deve) restare inorriditi dinanzi alla reazione scopertamente fascista della polizia di Rajoy e ai fantasmi falangisti che hanno preso a far capolino nelle recenti manifestazioni «unioniste». La questione catalana è d’altronde una questione complessa non solo perché chiama in causa i concetti di identità e cultura, ma perché riporta a galla l’enorme non detto che in Spagna resiste da almeno quarant’anni: quello cioè di uno Stato retto nominalmente da una monarchia che fu complice e sostenitrice del franchismo, e che nel momento del ritorno alla democrazia decise di rimuovere ogni tentazione repubblicana in nome di una riappacificazione mai del tutto avvenuta.

Ma per quanta simpatia si possa provare per un popolo che pacificamente ribadisce la propria «autodeterminazione» contro i manganelli e le botte di una delle polizie più fasciste d’Europa, resta un disagio di fondo. In un certo senso, è un disagio speculare a quello che in tanti provammo nelle settimane precedenti a Brexit: era impossibile anche solo immaginare di parteggiare per un’uscita dall’Europa incarnata dagli inquietanti profili di Farage e Johnson; allo stesso tempo, veniva onestamente difficile mostrare grande entusiasmo per un’Unione Europea responsabile dei disastri dell’austerity e che si presenta come un’opaca burocrazia retta da interessi che poco o nulla hanno a che vedere con qualsivoglia «fratellanza dei popoli». Si spiegano anche così assurdità come la cosiddetta Lexit (l’uscita della Gran Bretagna dall’UE ma «da sinistra»: si è visto il risultato…) o l’atteggiamento eufemisticamente ambiguo del Labour di Jeremy Corbyn, che ok è simpatico e tutto, ma il cui tasso di popolarità è comprensibilmente colato a picco tra quegli immigrati in UK che pure qualche tempo prima l’avevano entusiasticamente votato. Comunque.

Nel caso della Catalogna, il disagio è dato dall’opzione binaria tra l’autoritarismo del governo centrale spagnolo e un’anacronistica idea di autodeterminazione che riesuma un concetto tossico come quello di Stato. Pur tenendo a mente la tradizionale inclusività dell’indipendentismo catalano e le «umiliazioni» (per dirla di nuovo con Castells) storicamente subite da Barcellona da parte di Madrid, è difficile non avvertire in tante posizioni delle ultime settimane lo sgradevole retrogusto della piccola patria, del localismo egoista, della trincea identitaria. In un post Facebook di qualche tempo fa, Ivan Carozzi notava amaramente come non poche tra le rivendicazioni catalane del 2017 tradiscono una sospetta assonanza con quelle del peggior indipendentismo veneto in salsa leghista; e nel suo consueto tono apocalittico, Franco «Bifo» Berardi parla di «vendetta localista» definendo l’«insurrezione indipendentista catalana» nientemeno che «delirante». «Siamo molto vicini al precipizio», prosegue Bifo; l’Unione Europea è «entrata in un processo dissolutivo» e a tornare sono gli spettri dei sonnambuli, l’improvvisa presa di coscienza di aver oltrepassato il punto di non ritorno, l’angosciosa urgenza del «e adesso?» quando ti accorgi che non puoi più tornare indietro. Nel momento in cui scrivo, il Corriere della Sera ipotizza quattro scenari come via d’uscita alla crisi catalana. Il primo è, molto semplicemente, la guerra civile. Calmiamoci, direbbe un mio amico skater di Torpignattara.

È stato fatto ampiamente notare come le origini di Brexit, della crisi in Catalogna nonché di tutte le «vendette localiste» di cui parla Bifo, siano innanzitutto da ricercare nella crisi del 2008 e nelle conseguente misure di austerity abbracciate dall’Unione Europea. Ma assieme a questo, il morboso feticcio dello Stato e del «ritorno alla sovranità» segnala quantomeno un altro elemento ancora: e cioè che proprio i concetti di Stato e di sovranità stiano tornando nella loro forma più venefica e spettrale nel momento stesso in cui la loro ragion d’essere è di fatto venuta meno. Il solito Manuel Castells notava vent’anni fa come le funzioni degli Stati nazionali erano ormai state erose dai meccanismi economico-politici di quella che una volta chiamavamo globalizzazione, e che questo lasciava spazio all’emergere di nuove «trincee in difesa di Dio, nazione, etnia, famiglia o campanile, ossia le fondamentali categorie millenarie dell’esistenza ora minacciate dal combinato e contraddittorio assalto delle forze tecno-economiche».

Oggi, le previsioni di Castells suonano quasi rassicuranti: danno quantomeno una spiegazione, e forniscono una chiave di lettura sul perché il tema dell’identità sia diventato tanto centrale in una contemporaneità multipolare e multilaterale. Anche qui però, l’impressione è il punto di rottura sia stato di gran lunga superato; e se il perché può valere come giustificazione di fenomeni che oscillano istericamente dal macro al micro, resta da comprendere il come tali fenomeni penetrino ai livelli più intimi dei nostri rapporti sociali, economici, produttivi, politici, e come questi stiano plasmando un mondo che sulla scala dell’individuo rischia di diventare (se non è già diventato) letteralmente incomprensibile.

Nell’intimidente – anche nelle dimensioni – The Stack: On Software and Sovereignty, Benjamin Bratton propone un modello «a pila» («stack», appunto) che tenta di restituire l’architettura della «sovranità» ai tempi di Google, di Facebook e del capitalismo delle piattaforme. Ed è un’architettura ipercomplessa e disorientante, che ricorda tanto le supersuperfici di Superstudio quanto le vertiginose prospettive di Blame!, il capolavoro di Tsutomu Nihei tutto ambientato in una megastruttura completamente artificiale e senza confini certi.

Il mondo dipinto da Bratton è un mondo in cui i dati del singolo individuo contribuiscono a dare forma alla megastruttura generale, nello stesso momento in cui la megastruttura dà forma ai dati del singolo individuo.

Per Bratton, esistono sei livelli – Utente, Interfaccia, Indirizzo, Città, Nuvola, Terra – che assieme formano una «megastruttura accidentale» risultato dell’elaborazione di dati che quotidianamente (anzi: a ogni nanosecondo) avviene su scala planetaria, e all’interno della quale i differenti livelli comunicano, si sovrappongono, dialogano, si scambiano informazioni, o semplicemente agiscono indipendentemente gli uni dagli altri. Il mondo dipinto da Bratton è un mondo in cui i dati del singolo individuo contribuiscono a dare forma alla megastruttura generale, nello stesso momento in cui la megastruttura dà forma ai dati del singolo individuo. È un mondo in cui l’Utente si collega ai restanti livelli della «pila» attraverso Interfacce che già da sole assolvono un ruolo politico e di controllo, e in cui Google, Amazon, Apple e Facebook agiscono come veri e propri Stati senza purtuttavia applicare le caratteristiche non solo del classico Stato-nazione, ma nemmeno della vecchia «economia di mercato». In un simile scenario, dov’è la sovranità? A quale livello individuarla? A quali leggi rispondiamo una volta che, in qualità di Utenti, forniamo dati ad altri Utenti distanti da noi continenti interi, o nel momento in cui veniamo definiti in quanto Utenti dalla pila stessa anziché da qualsivoglia contratto tra individuo e governo statale? E che dire che la stragrande maggioranza degli Utenti (cioè degli attori al livello «più basso» della pila) non sono neppure umani ma semplici algoritmi o macchine?

«Di sicuro», afferma Bratton, «la bio-geopolitica che ne deriva è ambigua, incredibile, paradossale e bizzarra». Capite bene che, dinanzi a tutto questo, disquisire di Stato-nazione come se ancora stessimo a tracciare linee su una cartina del 1648, è un po’ come se un equipaggio di una nave si ritrovasse in pieno oceano nel mezzo di una tempesta mentre uno tsunami ha ridotto in macerie il porto d’arrivo e una scarica a catena di terremoti di magnitudo 9,5 ha affondato tre continenti su cinque, e si mettesse a litigare su a chi tocca il turno in cucina.

È impressionante quanto, nell’odierno e isterico dibattito su Stato e sovranità, nulla di tutto questo informi le prese di posizione degli analisti, o se non altro detti il tono di un confronto che a dire il vero nemmeno sembra davvero iniziato. Il massimo a cui siamo arrivati è stata la proposta – avanzata da Nick Srnicek sul Guardian – di «socializzare Facebook», il che, con tutti i suoi limiti, è quantomeno qualcosa. Quello che è certo è che, a confronto delle immani ingegnerie dell’epoca del software, le soluzioni localistico-identitarie di Brexit e della Catalogna suonano più che anacronistiche direttamente disperate. Possiamo dire che la prima è il frutto dell’egoismo e del campanilismo più bieco, mentre la seconda è l’esito di legittime e secolari rivendicazioni «progressiste»; ma quello che non cambia è la sostanziale piccolezza di una prospettiva schiacciata sulla più letale delle nostre costruzioni politico-culturali: e cioè sempre lui, lo Stato.

Inevitabilmente, a colpire è il fatto che soluzioni del genere arrivino dal pieno di un’Europa che pure, coi suoi progetti comunitari, conserva in potenza l’eventualità di un definitivo abbandono del concetto di Stato, e la possibile emersione di un «campo di forza» dove sperimentare altre e meno nocive forme di convivenza. Tornando ancora una volta a Castells, per il sociologo spagnolo il principale carattere virtuoso dell’indipendentismo catalano stava proprio nel fatto che, attraverso la Spagna, la Catalogna entrava «a far parte di un’entità più ampia, l’Europa, che non consiste soltanto dell’Unione Europea, ma anche di numerose reti di governi regionali e municipali e di associazioni civiche che moltiplicano le relazioni orizzontali nel continente entro il guscio sempre più friabile degli Stati-nazione».

Questa interpretazione – che oggi può far sorridere tanto appare idealista e naif – riecheggia nel ricordo di Bifo di quanto sostenuto da Umberto Eco, secondo il quale «l’Unione europea avrebbe dovuto prendere come modello le città comunali e avrebbe dovuto costituirsi come rete di nuclei cittadini, nodi fortemente cosmopoliti e interconnessi. In un simile processo di integrazione reticolare, gli Stati nazionali avrebbero felicemente perduto la loro sovranità e la loro funzione, per cedere sovranità a un’entità europea coordinatrice di unità urbane politicamente indipendenti. Nulla di simile è accaduto». Ma si potrebbe citare anche l’ipotesi ben più suggestiva del sopraccitato Federico Campagna, che giustamente nota come «l’Europa ci ricorda che le barriere e i confini sono soltanto delle convenzioni, mentre la vita, l’esistenza in quanto tale è una realtà, e deve avere la precedenza. […] Poi, certo, l’idea attuale dell’Europa si basa sul Nord Europa e sull’austerity. Ma l’essenza del progetto europeo, non tanto quanto progetto politico quanto culturale, ha un centro che è altrove, non necessariamente nell’Europa geografica». Da lì, Campagna arriva a ipotizzare un’Europa che si estenda anche «al Marocco, all’Albania, alla Turchia eccetera».

Nel momento in cui altre barriere e altri confini vengono eretti senza che nessuno vi intraveda un principio di necessità reale, diventa difficile che il sogno di Federico prenda piede. Ma soprattutto, barriere e confini rievocano il grande rimosso della storia recente europea: la guerra civile jugoslava nata anch’essa dalle sconsiderate, criminali mosse di un manipolo di sonnambuli, e risoltasi in un bagno di sangue che – silenziosamente ma ostinatamente – continua ad abitare i sogni più cupi dell’Europa «nata da Maastricht e dall’Euro».

Lo «scenario balcanico» riporta a sua volta proprio alle origini della Prima Guerra Mondiale, e viene esplicitamente chiamato in causa da Bifo come ultimo possibile stadio del dissolvimento europeo oramai in corso (secondo lui). Ma già nel 1993, prima ancora che Manuel Castells ipotizzasse piccole comunità locali accomunate dal comune sentimento europeo, un ancora semisconosciuto Slavoj Zizek avvertiva: «We, the Balkans, we are the future». L’occasione era un documentario sui Laibach, il gruppo sloveno che con le sue sonorità marziali e i suoi concettosi proclami su Stato, politica, suolo e sangue, pareva sul serio la colonna sonora perfetta – drammatica, severa, più tetra di una foresta bosniaca di notte – della carneficina che allora stava dilaniando l’ex Jugoslavia. Suonava come una profezia, e il guaio delle profezie è che, a furia di annunciarle, hanno la spiacevole tendenza ad autoavverarsi. La tragedia però è che adesso, più che ai Laibach, la partitura che da Brexit ci ha portati alla Catalogna sembra assomigliare semmai alla stessa «The Sleepwalkers» dei Van Der Graaf Generator citata in apertura: un misto di fughe ansiogene, capitomboli nel buio, sinistre parentesi circensi che non fanno ridere manco per sbaglio, e la voce istrionica di Peter Hammill che recita: «In time the whole raw world will pace these same steps / On into the same bitter end».