Buon Dies Natalis Solis Invicti

L’unico modo per obliterare una religione in declino è di sostituirla con un’altra ancora più decadente e putrida

Qualcosa, nell’idea del Sole, mi evoca una serie di emozioni dolorose e difficili da descrivere. Il sole è un’esperienza primaria, ancestrale come il freddo e la fame. Per questo è anche un’esperienza in qualche modo indivisibile, impossibile da scomporre e ricomporre. Si manifesta tutta intera, compatta e fiammeggiante. Forse il sole è un grido perpetuo di agonia. Questo lo dico senza retorica, come un’evidenza empirica che mi travolge ogni volta che alzo lo sguardo al cielo. Dopo essere stati sufficientemente abbagliati si esperisce l’Universo nella forma di un perpetuo massacro. 

Nell’Impero Romano in declino, tra la metà del secondo secolo e il terzo secolo dopo Cristo, si impose in modo prevalente un culto del Sole nella figura di una divinità nota come Deus Sol Invictus Elagabal. Per quanto vi siano evidenze di un culto del sole italico ancestrale, presente fin dagli albori di Roma, Sol Invictus era, in realtà, una divinità orientale, che aveva trovato la sua culla nella fiorente città siriana di Emesa. Il suo culto, tra l’altro, presenta numerose sovrapposizioni con il culto di Mitra, un’altra divinità associata all’iconografia solare, che, secondo diversi studiosi, ha a sua volta le proprie origini nella Persia antica. Lo sviluppo dei due culti, nonostante le numerose affinità, era distinto da due tendenze quasi opposte: se il culto di Mitra era di stampo strettamente iniziatico ed era praticato in piccole grotte sotterranee, lontano dalla sfera pubblica, il culto di Elagabal ha invece aspirato, in almeno due particolari momenti della storia dell’Impero, a imporsi come religione istituzionale, soppiantando definitivamente la religione degli antichi di indigetes. In ogni caso, si può argomentare che questa marea di sincretismo religioso orientale abbia giocato un ruolo importante nel collasso delle strutture politiche e militari dell’impero, o, per lo meno, che costituisse una minaccia esistenziale per le tradizioni e i costumi religiosi – il ben noto mos maiorum – che costituivano il cuore pulsante della romanità. A partire dall’imperatore Septimus Severus, passando per Caracalla e giungendo infine al famigerato Marcus Aurelius Antoninus Augustus, meglio conosciuto come Eliogabalo, la politica della Roma imperiale fu intrecciata in modo indissolubile con la dinastia sacerdotale di Emesa, soprattutto attraverso le figure delle due sorelle Julia Domna e Julia Maesa, figlie di Gaius Julius Bassianus, sacerdos amplissimus della religione di Elagabal, e principali artefici dell’ascesa al trono dell’imperatore Eliogabalo. 

Questa infiltrazione sotterranea dell’Oriente nel cuore della civiltà occidentale attraverso un perverso culto del Sole fu operata principalmente attraverso l’apparato militare, disseminato e delocalizzato lungo i margini dell’impero in espansione. Le macchine da guerra nomadi nutrite dal cuore di Roma furono le arterie attraverso cui le metastasi cancerogene della decadenza migrarono dalle aride terre siriane fino al centro pulsante del potere politico e religioso dell’Urbe. Il fascino esercitato dalle splendide vesti dorate dei sacerdoti adolescenti e dall’opulenza scandalosa del tempio di Emesa sugli animi eccitabili dei giovani legionari fu senza dubbio un contributo imprescindibile alla diffusione del culto di Elagabal tra le schiere militari, in cui la disciplina bellica si fondeva con un omoerotismo suicidario. Non possiamo sapere quali sentimenti vibravano nelle viscere dei legionari schierati al confine ultimo del mondo, quando, con lo sguardo rivolto al deserto interminabile, scuotevano i loro gladii insanguinati dalla luce dell’alba inneggiando alla gloria eterna del Sole risorto. Deve essere stata in questa rivelazione essenziale, in questa aurora incomunicabile pregna di frenesia guerriera e dolce abbandono, che si è forgiato nel sangue il destino del culto romano di Sol Invictus.

Il culto di Elagabal era vincolato alla venerazione di una misteriosa pietra nera di forma conica – un enorme monolite che si ergeva al centro del tempio di Emesa e che racchiudeva l’essenza del Dio. Per un culto del Sole, si trattava di un simulacro quantomeno insolito: un macigno scuro e massiccio, disperatamente ancorato alla terra, che risulta difficile associare alla luminosità celeste del disco solare. Il riverito oggetto di culto era, con ogni probabilità, un meteorite precipitato sulla Terra milioni di anni addietro, rinvenuto da qualche parte nelle profondità perdute del deserto e poi trasportato, con enorme dispendio di forze, dentro alle mura di Roma dalla scorta del giovane Eliogabalo, appena investito del suo titolo di imperatore. In questa pietra sacra si realizzava il mistero di una comunione paradossale tra il fuoco nucleare che alimentava i raggi inestinguibili di Sol Invictus e la densità ctonia della terra, carbonizzata nella propria caduta dalla volta celeste. Nero e alieno, lo strano minerale era legato indissolubilmente al Sole mediante una rete sotterranea di connessioni occulte la cui natura è per sempre sprofondata, insieme al suo sventurato sacerdote, nell’abisso della damnatio memoriae. In ogni caso, l’idea di una sostanza minerale rinvenuta tra le dune del Medio-Oriente, divenuta oggetto di un culto maniacale nell’Occidente imperialista e, con ogni probabilità, responsabile della sua stessa rovina non dovrebbe più di tanto stupirci. Dopo l’assassinio di Eliogabalo, la pietra maledetta fu prontamente esiliata dalla città di Roma e rispedita in Siria; ma forse, a ben pensarci, non se n’è mai veramente andata.

Ad avere una presa particolare sull’immaginario romano fu probabilmente la scelta dell’attributo invictus – «mai vinto» e quindi «invincibile» – che distingueva il Sole Elagabal dalle altre innumerevoli divinità solari del mondo pagano. In questo epiteto i legionari potevano celebrare la propria forza bellica e, al contempo, trovare una consolazione nella promessa di una rinascita, fisica o spirituale, nel caso della sconfitta; ma forse il suo più grande potere risiede nella capacità di abbracciare in un’unica circolarità dinamica l’intuizione di un aspetto contraddittorio della luce solare. La parola invictus è magnetica e ambigua, come, del resto, lo sono tutte le espressioni che, negando una qualche forma di negatività, non riescono fino in fondo a convincerci di stare affermando un fatto positivo. Perché il sole invictus non è semplicemente victor? Forse la distanza che separa le due condizioni di invictus e di victor è la stessa che divide la non-morte dalla vita. L’attributo invictus rende manifesta la presenza di una forma di negazione nella luce vivificante del Sole; una divina putrefazione che non può risolversi in una risurrezione completa e, allo stesso tempo, non può mai essere del tutto pacificata nelle tenebre della morte.

 Scrive Artaud, a proposito della perversione architettonica del tempio di Emesa: «Là dove le piramidi d’Egitto, coi loro triangoli murari, sono un appello alla luce bianca, bisogna pensare al centro sotterraneo del tempio di Emesa, una specie di filtro triangolare, un filtro per il sangue umano. […] Attraverso questi scarichi in forma di vite ardente, il cui cerchio si restringe man mano ch’essi avanzano nelle profondità del suolo, questo sangue di esseri sacrificati coi riti voluti va a ritrovare angoli sacri della terra, tocca i primitivi filoni geologici, i fremiti rappresi del caos. Questo sangue puro, questo sangue alleggerito e reso sottile dai riti, e gradito al dio di sotto, asperge gli dèi grondanti dell’Erebo, il cui soffio finisce di purificarlo».

Nella circolarità infernale dei suoi sotterranei, il sacro monolite solare di Elagabal nutre le profondità telluriche dell’abisso attraverso il sangue sacrificale versato in suo onore, completando l’unione blasfema tra il fuoco celeste e i liquidi immondi sepolti nelle viscere della terra. I cerchi, comunque, sono sempre geometrie aberranti, continuamente sul punto di evadere dal centro che li trattiene sulla loro traiettoria. Considerando il contesto storico in cui è fiorita la religione di Elagabal, è facile pensare che, alla luce della rilevanza attribuita al processo di morte e resurrezione, il culto di Sol Invictus non sia stato che una qualche forma embrionale del Cristianesimo che lo avrebbe soppiantato poco più tardi. Entrambi i culti esibiscono una mania squisitamente orientale per la temporalità, che, però, manifestano nella forma di due geometrie radicalmente differenti. Non mi stupisce che i Latini abbiano scelto di rifugiarsi nella fissità puntuale della croce per proteggersi dalla circolarità vampirica e irrequieta del Ritorno, tra le cui spire si moltiplicano epidemie di eternità.

Forse la culla di orrori in cui l’imperialismo occidentale ha trasformato la Siria è il risultato di correnti sommerse che attraversano tutta la nostra storia, e delle cui origini abbiamo ormai perso la memoria.

All’epoca in cui Artaud scriveva il suo Eliogabalo, il Medio-Oriente era molto diverso da come siamo abituati a pensarlo oggi. Nel parlare dell’antica città di Emesa, oggi conosciuta come Homs, l’autore racconta un luogo remoto e senza tempo in cui nulla, dall’epoca del giovanissimo imperatore siriano, sembra essere davvero cambiato, se non l’antico tempio del Sole, sprofondato per sempre nel sottosuolo e ormai soppiantato da una colossale moschea. Oggi, la moschea si erge sulle macerie titaniche di una città completamente sventrata. Considerata la «capitale della rivoluzione», Homs è stata dal 2011 al 2014 la più importante roccaforte dei ribelli contro il regime di Assad prima di essere rasa al suolo dal fuoco delle forze governative. Davanti allo scempio dell’antica città del Sole non trovo parole più opportune di quelle della poetessa persiana Forugh Farrokhzad, riportate da Jason Mohaghegh nel suo libro Omnicide:

Il sole
il sole divenne freddo
e la benedizione lasciò la terra.
…Il sole era morto,
il sole era morto, e il domani
finì per avere un significato muto e perduto
nella mente dei bambini.
Illustravano la stranezza
di questo vecchio mondo
nei loro quaderni
con un grande punto nero.

Dell’antico splendore sacerdotale non rimane più nulla; o, forse, la culla di orrori in cui l’imperialismo occidentale ha trasformato la Siria è il risultato di correnti sommerse che attraversano tutta la nostra storia, e delle cui origini abbiamo ormai perso la memoria. Questi flussi sotterranei sono il principale argomento di Cyclonopedia, l’oscuro Necronomicon scritto da Reza Negarestani, in cui l’antico culto mesopotamico del Sole è connesso alle sottocorrenti petro-politiche che alimentano il destino dell’umanità. Il petrolio, del resto, non è che la forma minerale dell’energia del Sole, che realizza la connessione occulta tra il monoteismo solare e le forze ctonie degli inferi. La Croce di Akht immaginata da Negarestani, il sigillo del misterioso culto iranico che ossessionava il Professor Hamid Parsani, non è soltanto un artificio fanta-archeologico, ma trasmette e manifesta gli aspetti più terrificanti del monoteismo solare, rappresentando «il diagramma astratto del petrolio come una stella rotta»: il Cadavere Nero del Sole, che alimenta il Lubrificante Tellurico nel ventre della Terra. 

Citando Negarestani: «Nella realtà geologica, il monoteismo funziona come ospite involontario per le insorgenze e le sottocorrenti telluriche; è direttamente connesso alle contorte regioni infere della Terra stessa. Il monoteismo è un piano intricato di tattiche e meta-strategie per far sorgere blasfemie Telluriche, o varietà contorte della realtà geologica. Alla luce del monoteismo, le insorgenze Telluriche si nutrono delle loro rispettive controparti apparentemente religiose, che appartengono al monopolio del Divino: la terra blobgettiva è nutrita dalla petro-politica. L’Omega Tellurica cresce sul deserto di Dio, ad infinitum».

Da questa prospettiva, le contraddizioni contenute nell’immagine di Sol Invictus, la natura maniacale del suo monoteismo e le pulsioni di morte manifestate nella dissipazione disperata del sacerdote Eliogabalo si inseriscono nel quadro più ampio che connette l’antico culto del Sole agli orrori sepolti sotto le sabbie del deserto in cui ha preso forma. Il culto di Sol Invictus è l’unico erede dell’ancestrale monoteismo mesopotamico che serpeggia ancora sotto le mentite spoglie dei monoteismi contemporanei, e, dunque, non deve stupirci che la più importante celebrazione del calendario Cristiano abbia la sua origine proprio negli ultimi spasmi del paganesimo morente, quando, nell’Anno Domini 274, l’imperatore Aureliano istituì il giorno del 25 dicembre come festa del Dies Natalis Solis Invicti. Una scelta che, celebrando il Sole nel momento della sua massima oscurità, alimenta il mistero dell’affinità paradossale tra la luce e le tenebre, tra la gioia della combustione e l’orrore della morte.

Il recupero dei culti pagani non deve essere inteso come una pulsione retromaniaca di ritorno ad un’immaginaria Età dell’Oro, ma come una ricerca di forme simboliche per affrontare i tempi difficili in cui stiamo vivendo. Il Cristianesimo ha da tempo esaurito questa funzione, riducendosi a una struttura putrescente per tenere insieme ciò che resta del perbenismo borghese, incarnando un’idea di comunità poliziesca strutturata attorno al controllo biopolitico della Persona Umana piuttosto che incanalare le spinte, necessariamente impersonali, del sentimento religioso. Se i culti iniziatici sotterranei hanno per molto tempo costituito l’unica alternativa possibile al monopolio cristiano del Sacro, ne hanno anche in qualche modo legittimato l’esistenza, rafforzando l’idea di un’autentica spiritualità elitaria necessariamente contrapposta alle religioni di massa. Come Eliogabalo aveva intuito, invece, l’unico modo per obliterare una religione in declino è di sostituirla con un’altra ancora più decadente e putrida, una religione che agisca alla luce del Sole per nutrire in segreto le sue cripto-correnti telluriche. La rivendicazione del Sacro è un diritto che ci appartiene, come ci appartiene il diritto alla bellezza, alla musica, all’incenso e all’improduttività del sacrificio. 

«Se ci pensi, la creazione o il design di nuove divinità sembra così divertente. […] Anche se non credi per niente in dio, è una forma d’arte incredibile. E’ un’incredibile forma di narrazione, di character design, di arte visuale