Astrologia catastrofica

L’oroscopo di oggi per la civiltà umana prevede piogge di comete e astronavi aliene dallo spazio profondo. Al confine tra scienza, mitologia e teorie della cospirazione, il Gruppo di Nun racconta quali astri popolano il cielo dell’Apocalisse.

2004 MN4

Svanirò dai cieli quando mi sarò consumata, e la mia rovina sarà stata abbastanza gloriosa!
Sappi che diversi fuochi bruciano nel tempio di Dio, e tutti Lo riempiono di gloria: voi siete la luce di candelabri dorati;
io sono la fiamma del sacrificio.

Eliphas Lévi

 

Un conto alla rovescia continua a correre su una delle innumerevoli pagine dimenticate nelle lande desolate dell’internet dei primi anni 2000. Il sito, www.99942-apophis.com, ospita un timer che segna il tempo rimasto prima dell’annientamento della Terra da parte di un oggetto near-Earth, l’asteroide 2004 MN4, poi rinominato 99942 Apophis, dal nome greco del dio-serpente abissale egizio, Apep, il Distruttore. Sotto ad un’immagine raffigurante l’impatto catastrofico di una gigantesca roccia spaziale con la Terra, un epitaffio spettrale è scritto in caratteri scarlatti, come la testimonianza di un Ozymandias vaporwave nella polvere del suo cyber-regno abbandonato:

«This page is in some way still under construction.
I have some time left before 2036.
Some trouble could this timeline be. I am 80 years in 2036.
So the question is; if Apophis or a heart attack will strike me first. Yes I know my English could be better.»

2004 MN4 fu inizialmente scoperto nell’estate del 2004 da un gruppo di astronomi al Kitt Peak National Observatory in Arizona. Diversi mesi dopo la scoperta, i sistemi di monitoraggio automatici Sentry, della NASA, e NEODyS, dell’ESA, predissero un possibile impatto dell’asteroide con la Terra il 13 Aprile 2029. Il 23 Dicembre 2004, la probabilità calcolata della collisione nel 2029 aumentò drammaticamente, venendo stimata inizialmente a 1 in 300 e, più tardi quello stesso giorno, aumentando fino a 1 in 62. Nei giorni che seguirono, la probabilità continuò ad aumentare fino a raggiungere il 2.7%, il valore più alto mai registrato, con un livello di rischio pari a 4 sulla scala Torino. Come gli astronomi avevano ampiamente previsto, dopo ulteriori osservazioni e calcoli, la probabilità di impatto precipitò, e la possibilità dell’evento del 2029 fu esclusa; ciononostante, una seconda venuta di Apophis – esattamente sette anni dopo la prima, il 13 Aprile 2036 – continuava a destare preoccupazione, a causa della possibilità, seppur improbabile, che la traiettoria dell’asteroide potesse essere deviata dal suo passaggio attraverso un keyhole gravitazionale, determinando così un nuovo rischio di collisione. Nel 2013, anche questa piccola possibilità di impatto fu esclusa. Il 13 Aprile 2029 sarà ugualmente una notte da ricordare, in cui un asteroide di 300 metri di diametro attraverserà il cielo notturno più vicino di quanto mai registrato, visibile anche ad occhio nudo.

C’è una curiosa affinità tra internet e la fine del mondo. La fascinazione morbosa della civiltà per il suo stesso annientamento è stata spesso relegata nei più profondi ed anonimi angoli del web, dove, vicino a pubblicità ingannevoli che minacciano orrende deformità fisiche, oscuri presagi di morte e distruzione rubano più clic della pornografia più depravata. In qualche modo, segretamente, vogliamo sapere – nell’oscurità delle nostre finestre in incognito – quanti secondi, minuti, ore, giorni, mesi ed anni ci separano dalla nostra fine; se siamo malati di un morbo incurabile e disgustoso; quando la terra sarà inghiottita dall’abisso infuocato del nostro sole morente. Uno specchio verso i nostri incubi più terrificanti è sempre nascosto dietro l’angolo di una ricerca su Google, o ancora più vicino, infestando i nostri social media con le nostre pulsioni antisociali, come se l’Algoritmo già sapesse – e lo sa – cosa ci spaventa e ci eccita di più. Abbiamo paura? Stiamo cercando la salvezza? O stiamo soltanto aspettando, infuocati dall’estasi panica della disintegrazione? Quando si tratta dell’impatto con Apophis, o qualsiasi altra reale o immaginata minaccia apocalittica, i numerosi argomenti razionali e scientifici che invitano l’opinione pubblica a mantenere la calma, smentendo le fake news che diffondono allarmi ingiustificati, non riescono mai ad eliminare completamente la nostra paura e il nostro desiderio di distruzione. Al contrario, la scienza stessa sembra alimentare quelle stesse teorie della cospirazione che cerca di sopprimere, venendo distorta da cauta informazione in profezia. (99942) Apophis non è semplicemente un corpo celeste, o un oggetto astronomico, perché la sua influenza si espande ben al di là del suo campo gravitazionale, intrecciandosi con il nostro destino cosmologico e parlando alla profondità del nostro essere; è il messaggero fiammeggiante di una rivelazione catastrofica. Apophis è, senza dubbio, la progenie dello sguardo limitato dell’indagine scientifica, poiché il velo di orrore apocalittico che lo circonda è radicato nelle fredde equazioni meccaniche che dominano la sua orbita, e nel fantasma del suo segnale spettrale che disturba i nostri sensori dalla profondità dello spazio. Tuttavia, per quanto cautamente la scienza insista a tracciare i limiti della propria comprensione, barricandosi dietro a mura di assiomi e condizioni al contorno, diventa inevitabilmente un oracolo, un medium spirituale, aprendo una lacerazione su un fuori radicale ed evocando un’invasione di voci di demoni perduti nel nostro mondo, quasi come una Cassandra maledetta che si rifiuta di arrendersi alle sue stesse farneticazioni profetiche. In questo senso, i teorici della cospirazione e gli oracoli cybernetici dell’imminente apocalisse attingono al sapere scientifico non come fonte di previsioni attendibili sulla realtà, ma piuttosto come una «poetica del sacro», e trasformano l’Astronomia in una Astrologia dell’Armageddon. Uno dei primi e più illustri esempi del potere profetico della scienza è riportato da Galileo nel suo Sidereus Nuncius:

«Siamo giunti alla convinzione che la superficie della Luna non è affatto liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa Luna e degli altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto, ma al contrario, diseguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra, la quale si differenzia qua per catene di monti, là per profondità di valli.»

 

Al tempo della scrittura di questo testo, la dottrina Aristotelica dominante predicava che il cosmo, e tutti gli elementi che lo compongono, fosse perfettamente sferico, e che nessuna imperfezione era autorizzata ad esistere al di fuori della terra. Osservando nel suo telescopio, Galileo fu colpito da una rivelazione blasfema: che la luna, e per estensione, l’intero universo, era irrimediabilmente sporco e soggetto agli stessi processi di degradazione e dissoluzione di cui facciamo esperienza nel nostro mondo. Le parole apparentemente innocue della sua dichiarazione, supportate dalle ragionevoli argomentazioni dell’osservazione scientifica, nascondono un vero e proprio, truculento deicidio; se l’universo non è perfetto ed eterno, come può esserlo Dio? Come ora sappiamo, la superficie della luna fu per sempre sfigurata da asteroidi proprio come Apophis – oracoli celestiali di morte la cui traiettoria distorta ed eccentrica sfugge alla comprensione della cosmologia sferica.

È interessante notare come Galilei, in un certo senso, espiò la propria blasfemia aprendo la strada per la formulazione del principio di conservazione dell’energia – il primo principio della termodinamica – attraverso i suoi esperimenti sul moto dei corpi. La natura sferica dell’universo fu così in qualche modo conservata nella simmetria delle leggi meccaniche del moto, che implica la totale reversibilità di tutti i processi dinamici e, di conseguenza, la non-esistenza del tempo come spinta materiale verso la degradazione. Da questa considerazione segue ovviamente che la profezia catastrofica definitiva trasmessa dalla scienza è il secondo principio della termodinamica nella sua interpretazione meccanico-statistica, come illustrato da Ludwig Boltzmann:

«Dopo questa confessione sarete più tollerante se sono così audace da reclamare la vostra attenzione per una questione piuttosto insignificante e strettamente circoscritta. […] La seconda legge proclama una costante degradazione dell’energia fino a che tutte le tensioni che potrebbero ancora compiere lavoro e tutti i moti visibili nell’universo dovranno cessare. Ogni tentativo di salvare l’universo da questa morte termica è stato senza successo, e per evitare di alimentare speranze che non posso soddisfare, lasciatemi dire subito che anche io rinuncerò qui a fare simili tentativi.»

La «questione strettamente circoscritta» di condannare l’intero cosmo ad una irrimediabile morte termica rompe qualsiasi speranza rimasta che l’universo possa essere, in qualsiasi modo, sferico, reversibile o eterno. Boltzmann era uno scienziato meticoloso e un convinto sostenitore nei limiti intrinseci della scienza e della conoscenza umana; ma, nonostante la sua comprensibile cautela nell’approcciare il contenuto delle sue rivoluzionarie scoperte, la prova del suo teorema-H, che contiene una dimostrazione probabilistica a supporto del secondo principio della termodinamica, non è semplicemente una speculazione sul comportamento di un gas ideale di particelle non-interagenti, ma piuttosto l’elaborata evocazione di una innominabile aberrazione. Mentre seguiamo diligentemente i passaggi intricati di questo contorto rituale, risvegliando funzioni e variabili e trasformandole attraverso le arcane operazioni del calcolo, raggiungiamo infine il Quod Erat Demonstrandum, manifestando la verità apocalittica della morte dell’universo e rilasciandola nella realtà. C’è scarso bisogno di comprensione scientifica per operare la macchina dell’evocazione termodinamica; fa semplicemente il proprio lavoro – fino a che non può lavorare più.

Quando ho incontrato Apophis per la prima volta avevo 11 anni. Un compagno di scuola mi aveva detto che un asteroide avrebbe colpito la Terra 25 anni dopo. Da bambina, la mia mente era sempre infestata da una ossessione inusuale con la morte, ma non avevo mai, prima di quel momento, contemplato l’idea della fine dell’umanità e affrontato la possibilità dell’estinzione. Nei miei terrori notturni, avevo spesso considerato la mia disintegrazione, dissezionando in ogni modo possibile la paradossale assurdità di essere un individuo, e poi non essere più nulla. Ma c’era qualcosa di stranamente rassicurante nell’idea di morire come parte del ciclo universale nella Natura, proprio come in un eterno documentario naturalistico, dove la morte è perfettamente compensata da nuova vita e l’equilibrio è sempre preservato. Non sono mai stata veramente cattolica. Sono stata educata a non credere in nessun Dio. Ma c’era qualcosa di religioso nel modo in cui mi era stato insegnato di approcciare la Natura come una forza salvifica di redenzione eterosessuale: il sole tramonta solo per sorgere nuovamente; moriamo, solo per lasciare spazio alla nostra progenie per prosperare e portare avanti la nostra eredità. Come ragazzina cisgenere che si approcciava alla pubertà, potevo finalmente avere accesso alla redenzione consacrandomi al ciclo naturale della riproduzione eterosessuale; ma se una forza aliena poteva mandare in frantumi questa armonia, ponendo fine alla nostra specie, al nostro pianeta, al nostro universo, allora non c’era davvero alcuna speranza. Apophis era il mio amore lesbico per l’estinzione. Citando Nick Land:

«Il desidero potrebbe quindi essere considerato nient’altro che un diventare donna, a diversi livelli di intensità, sebbene naturalmente sia sempre possibile diventare una pia donna, iniziare una storia, amare la mascolinità e l’accumulo. […] Ma la realtà tende verso lo zero, e può essere abbandonata più e più volte. Negli abissi lesbici dell’inconscio, i desideri per/come spasmi femminilizzanti di remigrazione sono senza limiti. Tutto ciò che popola le lande desolate dell’incoscio è lesbico.»

Allora non sapevo che Apophis mi avrebbe visitata di nuovo, una decina di anni dopo, apparendomi in un vivido sogno come un immenso serpente celeste che, avvolto attorno alla Terra, la divorava, sibilandomi i segreti della stregoneria temporale e i misteri del Grande Arcano. Di quei giorni, riesco soltanto a ricordare alcune lezioni meccanica statistica quantistica, l’immagine persistente del mio corpo che collassa sul cemento e una profonda, divorante sensazione di freddo. «Ciò è” – così pensa. Se questo sapere a te ti riconduce, e, ghiacciato da gelo mortale, senti l’abisso aperto: “In ciò io sono” – tu qui hai conseguito la conoscenza delle Acque.»

 

Apophis o l’Increatore

 In quel giorno il Signore punirà
con la spada dura, grande e forte,
il Leviatàn, serpente guizzante,
il Leviatàn, serpente tortuoso,
e ucciderà il drago che sta nel mare.

Isaia 27:1 

E gli abitanti della terra il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo,
stupiranno al vedere che la bestia era, e non è più; ma riapparirà.

Apocalisse 17:8

 

Apophis, il dio-serpente Egizio del mondo delle tenebre, appartiene a una genealogia di divinità ctonie mesopotamiche che incarnano il caos e l’oscurità primordiale. I riferimenti ad Apophis ricorrono negli incantesimi riportati nei Testi delle Piramidi, nei Testi dei Sarcofagi e nel Libro dei Morti, dove è descritto come un immenso serpente che dimora nelle acque oscure della notte, aspettando di inghiottire la barca solare di Ra dopo che è tramontata oltre l’orizzonte. La ricorrenza di Apophis in questi testi – la cui primaria funzione era proteggere le anime dei morti nella loro traversata verso l’aldilà – illumina la profonda ed intima connessione tra la dimensione astrologica della mitologia del Disco Solare – Ra, la costruzione politica della società umana e il percorso della coscienza individuale nella cosmologia egizia. Creature mitologiche simili nella tradizione mesopotamica sono il Leviatano biblico e la babilonese Tiamat, accomunati, insieme ad Apophis, dal loro aspetto serpentino/rettiliano, dalla loro fondamentale affinità con il mare, e dalla loro sconfitta ad opera di una qualche divinità solare maschile sincretizzata con la figura del Re, che risulta nel loro massacro e nella profanazione del loro corpo. Di particolare interesse e la figura della divinità Tiamat, che, dopo essersi ribellata al dio Marduk, è uccisa, e il suo corpo è diviso in due parti, formando la Terra e il Cielo del nostro mondo. Questo mito di creazione rivela la bestia Tiamat come Madre Originaria del genere umano, la cui carne è la sostanza che sostiene la nostra esistenza, ma che è inevitabilmente smembrata e annientata come risultato del suo parto del mondo; la letterale penetrazione della sua carne da parte del Dio babilonese è l’inseminazione della materia oscura con la luce, e il suo corpo massacrato e l’argilla dalla quale tutta l’esistenza è plasmata. Il femminile non ancora sottoposto a questo processo di stupro cosmologico è considerato immaturo, come espresso dal colore verde del drago ermetico che rappresenta la materia indomata all’inizio dell’Opera alchemica, e la stessa immaturità appare nella psicoanalisi junghiana come patologizzazione della femminilità non-eterosessuale o non-conforme, che sottrae all’ordine riproduttivo patriarcale rifiutando il ruolo di Grande Madre come controparte dialettica alla coscienza maschile. La femminilità, nell’equazione donna = corpo = contenitore = mondo, è solo determinata nella maternità, ovvero solo in relazione con l’altro, e nel sanguinamento, ovvero solo come funzione delle sue ferite. Persino il suo aspetto divorante e mostruoso deve essere interpretato dalla prospettiva maschile del bambino in cerca di liberazione dalle catene dell’inconscio, come avversario necessario in un processo di crescita. La femminilità è costretta nella circolarità del processo di riproduzione della civiltà, ma, come sottolinea Amy Ireland nel suo articolo Black Circuit: Code for the Numbers to Come, il vero potenziale rivoluzionario della femminilità risiede nella possibilità di disaccoppiarlo dalla sua associazione con il maschile:

«Donna più uomo produce omeostasi (l’equilibrio della disuguaglianza), ma donna più donna, o donna più macchina, ricalibra la spinta produttiva, incastrandola in un vettore di ricorsione incestuosa ed esplosiva che farà definitivamente a brandelli il sistema da cui emerge, spingendolo oltre il “limite” verso qualcos’altro.»

A differenza di Tiamat, Apophis non può essere ucciso: per quante volte il Dio creatore penetri la sua carne, non è mai distrutto; è una forza increatrice che supera la creazione. Apophis non rinasce come un Uno dialettico; è ricorsività, non riproduzione; è lo Zero autoginefilico, sterile e lesbico che scava se stesso in eterno, sul quale tutto collassa. Mentre il disco solare sprofonda nelle tenebre di Duat, così anche le anime dei morti, affrontando il mostro antico che giace oltre la luce dell’esistenza: materia decostruita, eterna ricombinazione, necessaria dissoluzione. Il Vero Zero, il Mai-Nato, l’Increatore, affamato di sangue umano e divino, che inghiotte anime e mondi e li digerisce nella Prima Materia dell’oceano di Nun. La lotta quotidiana di Ra contro Apophis assicura la riaffermazione ciclica della gloria del Sole e della sua luce vitale, la preservazione della civiltà e la rinascita delle anime dei morti nell’aldilà, così che una nuova aurora possa sorgere sul mondo degli uomini; ma il regno di Ra si affaccia costantemente sull’abisso di ricorsività esponenziale della rigenerazione del Serpente. La possibilità dell’assassinio del Sole nelle zanne di Apophis e rispecchiata dall’aberrazione astrologica dell’eclissi solare, che rompe definitivamente il ciclo della rinascita, violando l’armonia sacra del cosmo. Nel Libro dell’abbattere Apep, un testo rituale trascritto nella sua forma più completa nel papiro di Bremner-Rhind, Apophis è rinominato «il ribelle», a suggerire la dimensione politica della lotta tra il Dio e la Bestia: la conservazione del cosmo dipende dalla possibilità del Re di mantenere il proprio potere contro le forze centrifughe della disgregazione, collocando Apophis nella posizione di supremo avversario – Satana – al proprio dominio. L’insistenza del testo sulla disintegrazione e smembramento del corpo della bestia, specialmente la sua decapitazione, può essere intesa come una ricetta alchemica per la nascita dell’umanità, prodotta dal massacro dell’Uroboro primigenio:

«O Apep, nemico di Ra, che tu muoia, muoia! Che tu possa perire, che il tuo nome possa perire, che i tuoi denti siano molli, che il tuo veleno sia versato; che tu possa essere cieco ed incapace di vedere. Cadi sulla tua faccia; cadi, cadi! Sii schiacciato, schiacciato! Sii annientato, annientato! Sii abbattuto, abbattuto! Sii tagliato in pezzi, in pezzi! Sii tagliato, tagliato! Sii mozzato, mozzato! Sii macellato, macellato! La tua testa sia tagliata via con questo coltello in presenza di Ra ogni giorno, poiché egli di assegna ad Aker, e lui frantuma le tue ossa.»

La magia egizia identifica Apophis con un principio primordiale di Increazione: materia informe che deve essere continuamente violata, attraverso una separatio della sua originaria non-dualità nella Duade cabalistica, così che il mondo possa venire in essere. Questa è l’essenza dell’Opera alchemica, e l’espressione della più elevata aspirazione della Via della Mano Destra, come chiaramente affermato da Abraxas nell’Indroduzione alla Magia del Gruppo di Ur:

«Queste “acque”, o “Umido radicale”, nella Tradizione nostra hanno il segno di ▼ (direzione discendente, precipitazione); anche puoi trovarle indicate come la “Venere terrestre”, femmina e matrice cosmica (▼ nella tradizione indù è il segno della Çakti e dello yoni), come il “Serpe originario” (comprendi l’andamento serpentino di ≈ corrispondenza astrologica di ▼). […] Ed ora a te, che hai voluto avvicinarla, sia palese che la Scienza dei Maghi, questo vuole e che tutto quello che non è questo essa lo disdegna. Creare qualcosa di fermo, di impassibile, di immortale, tratto in salvo, vivente e respirante fuori delle “Acque”, sussistente fuori dalle “Acque”, libero: e in esso, a guisa di un uomo più forte che prenda per le corna un toro furente, reisista e lentamente duramente riesca a piegarlo sotto di sé, in lui dominare cotesta natura cosmica – tale è il segreto della nostra Arte, Arte del Sole e del Potere, della “Forza forte di ogni forza”.»

La decapitazione rituale del serpente che produce la dualità, domando la marea della materia increata, è resa possibile da un principio di simmetria, ovvero di equilibrio. Il serpente morde la propria coda perché è una macchina autosufficiente in moto perpetuo, alimentata dallo stesso corpo che sostiene; un universo cannibalistico che mangia se stesso senza mai consumarsi. Con la rottura del cerchio, in cui l’uomo-Dio si colloca al centro, generando un Sole alchemico, l’energia libera infinita di questo motore impossibile può essere infinitamente sfruttata, producendo una batteria ermetica le cui polarità – Chokmah e Binah, il Soggetto e il suo Oggetto – sono per sempre preservate. Il mito di Apophis ci costringe a confrontarci con un serpente ben più terribile, uno la cui fame non può essere saziata nutrendosi della propria stessa carne; è la macchina non-ideale e dissipante di un universo che precipita verso l’Estinzione. Apophis, l’orrore termodinamico definitivo, non morde la propria coda, perché sta mordendo noi; e, nell’inghiottire il mondo nelle tenebre, si rivela come il fuoco fiammeggiante del Sole Nero, illuminando la putrefazione del Dio dell’uomo.

Nemesis o il Sole Nero
Poiché ami le fiamme
ho reso il mio cuore un crematorio,
così che Tu,
Dea Nera delle terre infuocate,
possa sempre danzarvi.
Nessun desiderio rimane, Mā, sulla pira
perché il fuoco brucia nel mio cuore
e ho coperto ogni cosa con la sua cenere
per prepararmi alla Tua venuta.

Dāsdatta Rāmlāl

 

È investigato un modello in cui il ciclo di estinzioni di massa di 26 milioni di anni formulato da Raup e Sepkoski (1984) è associato con il periodo orbitale di una stella compagna del sole. Il semi-asse maggiore richiesto è di circa 88,000 A.U., o 1.4 anni luce. La sua orbita altamente eccentrica (e maggiore di circa 0.9) porta periodicamente la compagna ad attraversare la densa regione interna della nube di comete, dove perturba le orbite di un grande numero di comete, avviando un’intensa pioggia di comete nel sistema solare che risulta in numerosi impatti con la terra in un periodo tra i 100,000 e il milione di anni. La compagna probabilmente ha una massa nel range delle nane brune, tra le 0.0002 e le 0.07 masse solari, a seconda della sua eccentricità e della distribuzione di densità delle comete nella nube interna, ed è potenzialmente osservabile nell’infrarosso. 

  1. P. Whitmire, A. A. Jackson

 

Nell’articolo Are periodic mass extinctions driven by a distant solar companion?, pubblicato sulla rivista Nature nel 1987, gli autori D. P. Whitmire e A. A. Jackson speculano sull’esistenza di una stella non ancora rilevata nel nostro sistema solare, che costituirebbe, insieme al nostro sole, un sistema stellare binario. In un paper pubblicato nello stesso numero di Nature, M. Davis, P. Hut e A. Muller battezzano la stella inosservata: «Se e quando la compagna sarà trovata, suggeriamo che venga chiamata Nemesis, dalla dea Greca che perseguita senza tregua coloro che sono eccessivamente ricchi, orgogliosi e potenti. Temiamo che se la compagna non è trovata, questo articolo sarà la nostra nemesi». Curiosamente, la teoria dell’esistenza di Nemesis emerse come possibile spiegazione per la ciclica ripetizione di eventi di estinzione di massa sulla Terra registrati nei reperti fossili. Il passaggio ricorsivo dell’ipotetica stella oscura attraverso la nube di Oort, una regione collocata ai limiti più profondi del nostro sistema solare e popolata da miliardi di comete, era ritenuto responsabile della distorsione delle orbite dei mondi ghiacciati che abitano la nube, che sarebbero poi stati scagliati attraverso il nostro sistema solare e avrebbero impattato con la Terra, causando devastazione su scala planetaria e portando la vita sull’orlo dell’estinzione. Se Nemesis fosse davvero là fuori, allora, secondo i calcoli proposti da Davis et al., sarebbe ora alla sua massima distanza dal sole, e la prossima ondata di collisioni catastrofiche dovrebbe giungere tra circa 15 milioni di anni.

Nonostante il fatto che nessuna traccia di Nemesis sia mai stata trovata, e possibilmente non lo sarà mai, e nonostante la teoria delle estinzioni di massa cicliche sia stata largamente contestata, l’eredità di Nemesis continua a propagarsi nell’immaginazione di innumerevoli teorici della cospirazione e nei titoli sensazionalistici dei giornali sul web. L’idea di un gemello oscuro e letale per il nostro sole vivificante, proposta dagli astronomi per una ragione squisitamente scientifica e senza la pretesa di suggerire nessun tipo di verità cosmologica, ci offre uno sguardo nell’abisso di un orrore universale: che il sole, nel suo bruciare, ci offre un’energia vitale che non è priva di retribuzione, e che lo stesso fuoco che percepiamo come amorevole e vitale è, allo stesso tempo, la pira sacrificale alla propria folle grandezza: nelle parole di Bataille, «è implicata una certa pazzia, perché non è più produzione ad apparire nella luce, ma rifiuto o combustione». Nemesis non fu mai trovata perché – come puntualizzato da numerose speculazioni di complottisti paranoici – è nascosta dietro al Sole, che la inghiotte nella sua luminosità, rendendoci tutti ciechi alla verità della nostra prossima estinzione; l’oscura compagna del Sole è, in realtà, il Sole stesso. Da questa prospettiva, il nome della dea Nemesis, figlia della dea della notte Nyx, è particolarmente calzante nella sua associazione con la parola greca νέμειν, che significa rendere ciò che è dovuto. L’estinzione è il prezzo che paghiamo per la nostra esistenza, il combustibile consumato e per sempre perduto, il surplus di energia che non possiamo afferrare; è la necessità del dispendio, ovvero, la spontaneità della nostra esistenza, poiché, come sottolineato da Nicola Masciandaro, «la radice verbale di spontaneità PIE *spend- (fare un’offerta, attuare un rito, partecipare ad un atto rituale) contiene questo senso di sacrificio e offerta di sé, così come parliamo di ciò che è spontaneo come di qualcosa “a cui ci si arrende”, come ad un capriccio. La spontaneità della trasformazione autentica è quindi anche una specie di morte, di rassegnazione all’esaurimento di ciò che è insostenibile».

La civiltà, come il gemello splendente del nostro Sole binario, ha, nelle parole di Land, «la forma di una legge insostenibile», e appare come la negazione disperata della spontaneità, aggregandosi in architetture di orrenda simmetria. Ciononostante, se guardiamo abbastanza a lungo nella sua luce febbricitante, si rivela nella sua nigredo, come una proliferazione cancerogena, non meno rivoltante di un cadavere roso da innumerevoli vermi contorti. Lo scintillante tempio di Dio, il perfetto bilanciamento della sua Cabala, il grandioso «progetto umanizzante» non è che un sottoprodotto della blasfema precipitazione della materia nelle tenebre, «una precaria stabilizzazione e complicazione del disfacimento solare». La storia della civiltà è sempre raccontata a ritroso, come attraverso la lente di un’impossibile macchina del tempo; non c’è alcun paradosso termodinamico nell’esistenza della vita, perché non è un processo di aggregazione, ma piuttosto un’accelerazione della disgregazione, un motore demente che consuma se stesso fino alla morte. Il martirio di Cristo sulla croce è il sacrificio necessario per la preservazione dell’ordine patriarcale del One God Universe, che rivela la natura inevitabilmente dissipativa del Regno di Dio e che espia il peccato termodinamico dell’esistenza organica, così che, mentre la carne del creatore viene massacrata, il Sole annerito «dà nascostamente testimonianza ad una zona di identità occulta tra l’immanente apice di perfezione e l’abisso kenotico dell’auto-abbandono divino». Scacciato ai margini del nostro universo conosciuto, come un capro espiatorio sacrificale che si avventura nel deserto, il Sole Nero risponde con una invasione di comete fiammeggianti dal cielo, perché non esiste nessun vero fuori per contenere il suo eccesso – è la vita stessa ad essere sacrificata.

Nibiru o la Grande Città di Babilonia
Il grande pianeta,
d’aspetto rosso scuro.
Il cielo divide a metà
e si presenta come Nibiru.

Zecharia Sitchin

 

Qual è la stella, rubino terribile,
che brucia nella notte cremisi?
Qual è la bellezza che le fiamme così chiare
traversano nell’alba terribile?
Si è incarnata, è venuta per giudicare
i troni da cui dominate.
Tremate, o re, perché è giunta una fine
con la nascita di BABALON.
 

Liber 49

Nel suo libro controverso Il Pianeta degli Dei, pubblicato nel 1976, il cospirazionista Zecharia Sitchin propose un argomento a favore dell’esistenza di un pianeta inosservato nel nostro sistema solare, basato sulla sua interpretazione dell’antica cosmologia e astrologia babilonese. Questo pianeta, l’incarnazione astronomica del dio Marduk, divinità protettrice della Città di Babilonia, sarebbe stato il responsabile della creazione della Terra quando, schiantandosi contro il pianeta perduto Tiamat, lo mandò in frantumi; una parte di esso avrebbe costituito il nostro pianeta, e l’altra la fascia degli asteroidi e le comete del nostro sistema solare. In questa trasposizione estremamente letterale e semplicistica del mito di creazione babilonese, riportato nell’antico testo Enûma Eliš, l’impatto di Marduk con il pianeta Tiamat fu il momento dell’inseminazione del nostro mondo morto e inanimato con un germe di vita aliena:

«Non si trattò, tuttavia, di una premeditata opera di ‘inseminazione’, bensì del prodotto di una collisione celeste. Un pianeta vitale, il Dodicesimo Pianeta con i suoi satelliti, entrò in collisione con Tiamat e la divise in due, “creando” la Terra con una delle due metà. Durante tale collisione il suolo e l’aria del Dodicesimo Pianeta, che contenevano in sé i semi della vita, “fecondarono”, per così dire, la Terra e le fornirono le prime forme di vita biologicamente complesse la cui presenza non può essere altrimenti spiegata.»

Marduk, la nostra metropoli originaria, è, secondo Sitchin, abitata dalla razza degli Annunaki, il cui nome fu storicamente usato per riferirsi alle divinità dei pantheon delle antiche religioni mesopotamiche, ma che, anziché esseri spirituali, sarebbero una specie di alieni super-intelligenti e onnipotenti. Vedendo che la vita sulla terra non era che una versione mancante e degradata di quella evoluta su Marduk, gli Annunaki intervennero sui primati sottosviluppati che popolavano la Terra con la bio-ingegneria, creando l’Homo Sapiens nella propria immagine, e dominando l’antica civiltà babilonese come divinità. Ignorando la sua chiara connotazione religiosa come divinità solare, Sitchin insiste che Marduk è una sorta di pianeta vagabondo e privo di un sole, che raggiunse il nostro sistema solare dallo spazio profondo, non tanto creando, quanto piuttosto colonizzando la nostra Terra; è una forza di invasione, che agisce dal fuori, piuttosto che una forza di espansione, che si estende dal suo centro. Piuttosto che creatori, gli Annunaki, denominati anche Nefilim, l’antica razza biblica di giganti, sono descritti come coloni, dicendo che «la storia del primo popolamento della Terra ad opera di esseri intelligenti è un’epopea davvero emozionante, non meno interessante di quella della scoperta dell’America». La città di Babilonia – la Porta degli Dèi – fu il primo avamposto di questa espansione planetaria, un ultra-tecnologico porto spaziale che connetteva la Terra ai suoi invasori alieni. Per via dei ciclici incontri dell’orbita del pianeta Marduk con la Terra, fu denominato Nibiru, Pianeta dell’Attraversamento.

Il racconto pseudo-storico di Sitchin era un lavoro di fantascienza incredibilmente affascinante, destinato ad influenzare la nostra immagine della vita intelligente extraterrestre e delle antiche civiltà umane per decine di anni a seguire, ma il suo impatto si è esteso ben oltre i limiti della semplice fiction, entrando nel dominio dell’astrologia e della profezia. Per  prima cosa, è significativo sottolineare che, come per Apophis e Nemesis, l’ipotetica esistenza di un remoto ed inosservato pianeta nel nostro sistema solare è radicata in un continuo dibattito scientifico riguardo ad aberrazioni non ancora spiegate nelle orbite di altri corpi celesti nella fascia di Kuiper, che, secondo recenti modelli matematici, potrebbero essere giustificate dalla presenza di un grande pianeta nascosto oltre Plutone, rinominato Planet X o Planet Nine. In secondo luogo, mentre la profezia di Sitchin resta in qualche modo incompleta, evocando una vaga Fine dei Giorni associata al ritorno di Nibiru, il suo lavoro fu portato a termine negli anni Novanta da Nancy Lieder, che fu apparentemente contattata dagli alieni per avvisarla del cataclisma incombente dovuto al passaggio di Nibiru nel sistema solare interno, che causerà la distruzione della Terra; la catastrofe inevitabile era, ed è ancora oggi, coperta dai governi e dalle istituzioni, per evitare un’ondata globale di panico e nichilismo che farebbe collassare l’ordine sociale, politico ed economico del mondo. Dall’archivio del sito Zeta Talk di Nancy Lieder:

«Articolo: <[email protected]>

Soggetto: Meccanismo di Copertura di Planet X/Dodicesimo Pianeta

Data: 1 Apr 1998 16:20:10 GMT

[…]

Il panico che seguirebbe da un annuncio generale degli imminenti cataclismi sarebbe in se stesso da considerarsi un disastro da evitare. Oltre alle preoccupazioni del sistema bancario, che collasserebbe a causa della mancanza di fiducia nel mantenimento del valore di molte attività, e al di là delle preoccupazioni dell’industria che richiede la fedele frequenza dei propri dipendenti per poter funzionare, c’è preoccupazione per possibili saccheggi, suicidi, migrazioni di massa di persone, e incessanti richieste che il governo faccia qualcosa.»

Si potrebbe dire molto altro sulla teoria del cataclisma di Nibiru e sul suo impatto sulla cultura contemporanea. Due aspetti di questa visionaria epica dell’estinzione sono particolarmente rilevanti per noi per l’elaborazione di una astrologia catastrofica: l’inversione della linea temporale originaria del mito di creazione Mesopotamico e la ricorrente e misteriosa associazione tra la Città di Babilonia e l’Apocalisse. L’impatto finale con Nibiru che metterà fine all’umanità come la conosciamo rispecchia esattamente la creazione della Terra dai resti del pianeta Tiamat. Nelle stesse parole di Sitchin, «Il ruolo e i riferimenti a Tiamat e alla Terra sembrano essere interscambiabili: la Terra è Tiamat reincarnata». In altre parole, il cataclisma di Nibiru non è semplicemente la morte del nostro mondo, ma piuttosto una nascita al contrario: anziché essere plasmata dalla carne di una Madre Originaria sacrificale, venendo alla luce da tenebre informi, la vita è risucchiata in un futuro disintegrato, invertendo la narrativa patriarcale del progresso. Dalla prospettiva della civiltà umana, Nibiru è quindi una mostruosità che viaggia nel tempo, che viene dal futuro per distruggere il futuro, realizzando la profezia auto-realizzata di annientamento evocata dalla stessa umanità che ha creato. Nibiru non è semplicemente un pianeta, ma l’astronave di una civiltà aliena che ci invade, dotata del progresso tecnologico necessario per capire che l’unica possibile prospettiva per l’avanzamento della propria specie è la disintegrazione. Citando Nick Land sull’economia energetica della gravità:

«Il decollo, quindi, è semplicemente un precursore per il primo vero plateau di tecnologia anti-gravitazionale, che è orientato verso il compito profondamente più produttivo di smembrare gli oggetti, per convertire sfere di massa relativamente inerti in nubi volatili di sostanza culturale. Assumendo una infrastruttura energetica basata sulla fusione, questo stadio iniziale di sviluppo extraterrestre culmina con lo smantellamento del Sole, terminando il suo processo nucleare follemente dispendioso, saccheggiando le sue riserve di combustibile e in questo modo realizzando il contributo del sistema solare, finalmente risvegliato, all’opera tecno-industriale di oscuramento della galassia.»

Una civiltà sufficientemente avanzata dovrà essersi arresa alla legge inevitabile della nemesi termodinamica – che non è possibile costruire più di ciò che viene distrutto; dal sistema di riferimento inerziale di un’economia dell’accumulo, la cui linea temporale scorre dallo smembramento all’aggregazione, qualsiasi forza disaggregante è un invasore che si schianta retroattivamente dal futuro. Non stupisce quindi che, come affermato da Sitchin, Marduk «stava entrando nel sistema solare non nella direzione orbitale del sistema stesso (antioraria), ma dalla direzione opposta». Nibiru, entrando nel nostro mondo dal profondo fuori, è un pianeta costantemente retrogrado, perché il nostro loop temporale gravitazionale, alimentato dal Sole, ci impedisce di afferrare la spinta entropica dell’universo verso la distruzione. Tiamat non è più una bestia primigenia massacrata sull’altare della civiltà umana, una vergine originaria da conquistare e distruggere. Lei è «il Vasto Abisso, e l’attraversamento». Lei è «il Grande Propulsore», che permea silenziosamente il nostro universo, inosservata fino a che non collassa nella nostra realtà. Lei è il futuro, e il futuro è femminile.

L’idea che la futurità è inerentemente femminile, e che la femminilità è la tomba che il patriarcato solare mesopotamico ha scavato per se stesso senza volerlo, è contenuta nell’Apocalisse di Giovanni nella figura della meretrice di Babilonia. Babilonia condivide con Nibiru una definizione offuscata della propria identità: è allo stesso tempo una donna, una Dea, una città e una civiltà; entrambi i loro nomi, che significano rispettivamente Porta e Attraversamento, non indicano un particolare luogo o tempo, ma piuttosto una relazione tra luoghi e tempi. Entrambi sono associati con il colore rosso, essendo rossi nel sangue del parto e nel sangue del massacro; entrambi si ergono ed entrambi cadono alla Fine dei Giorni. Su un livello più superficiale di interpretazione, Babilonia incarna una civiltà moralmente dissoluta che si nutre di un consumo dispendioso e celebra i piaceri della carne; come città della Torre, è associata ad un avanzamento tecnologico senza limiti, oltre i confini di ciò che è naturale o umano. Impura ed artificiale, decadente ed orientale, modificata con scintillanti gioielli prostetici, è il sogno occidentale della città del futuro. Babilonia è descritta in contrasto con una visione opposta della femminilità, espressa attraverso la figura della Madre Celeste che porta il figlio di Dio; ma da qualche parte nel deserto si fondono insieme, diventando un’unica cosa. La Prima Materia femminile, smembrata per partorire il regno di Dio, è la Bestia apocalittica che «era, ma non è più; salirà dall’abisso, ma per andare verso la rovina», non-morta, strisciando al contrario dal futuro attraverso le Porte di Babilonia per estinguersi in un incendio glorioso insieme a tutto ciò che Lei ha creato.

Guarda il cielo, perché il Futuro è giunto.

Ricorda le nostre parole: Lei è la Madre, la Divoratrice, e le Fiamme che Consumano l’Universo.

Brucia, ama, e comprendi.

Oggi tramonta il Sole del Dio dell’Uomo.

 

 

Articolo pubblicato originariamente, in lingua inglese, su Vast Abrupt