Silvia Dal Dosso: Sulle note di A playlist to feel like you are playing marbles with Einstein, a moment before he discovered the theory of special relativity in 1905 (“Una playlist per sentirsi come se si stesse giocando a biglie con Einstein, un momento prima che lui scopra la teoria della relatività ristretta, nel 1905”), ci ritroviamo sulla celebre coperta dello spaziotempo, quella rete quadrettata che di solito è verde su nero, ma talvolta anche gialla, o perchè no, celeste su viola. Dietro di noi la vaporwave è talmente pesante da creare una discesa ripidissima, a cui cerchiamo di resistere saltellando qua e là, sulle mille piccole palline che gli circolano attorno: l’estetica Frutiger Aero, l’Y2K, le backrooms, le dream pools, il weirdcore, il traumacore, tutto pur di non avvicinarsi al vortice apocalittico del corecore che si impone sul nostro orizzonte degli eventi, mangiando qualsiasi cosa, e che si colloca senza alcun dubbio di fronte a noi, proprio dove immaginavamo che dovesse stare il futuro.
È un po’ così che mi sentivo mentre leggevo il tuo Exit Reality, ripercorrendo i momenti della storia dell’internet che sono arrivati per non andarsene mai e che oggi intervengono sul nostro presente di utenti tutti insieme contemporaneamente. Una sensazione che potrebbe seguirci durante questa conversazione su quelli che tu hai chiamato i “paesaggi oltre la soglia”, i luoghi scaturiti dall’inconscio collettivo digitale dell’Occidente, mentre le moltitudini online cercavano di esplorare o esprimere cosa stava succedendo alla cultura, al tempo, all’arte e a loro stessi. Da un lato si ha l’impressione, come racconti, che tutto fosse già presente nella vaporwave. La nostalgia per il paradiso perduto, il clima rassicurante e di ricchezza diffusa degli anni Novanta, la fiducia in un futuro supportato da una nuova tecnologia amichevole e piena di piccole sorprese, tra i panorami “blessati” e gli assistenti buffi delle interfacce Windows che inizia ambiguamente a fallire, a suonare out of pitch, a mostrare messaggi di errore, mentre ci aggrappiamo ossessivamente alle palme, le bolle d’acqua, le cascate, le nuvole, i colori fluo del Frutiger Aero, nella rielaborazione traumatica di tutto quello che abbiamo perso entrando nei maledetti anni Duemiladieci. Dall’altro probabilmente non è una coincidenza che tu ti sia trovata a scrivere questo libro al culmine di una vibe shift preannunciata da eminenti figure dell’internet e del trend forecasting (quali sono Angelicism01 a Sean Monahan del collettivo K-HOLE) e ormai sulla bocca di tutti, mentre il sistema economico e culturale creato dalle piattaforme social e di sharing economy, per come lo avevamo conosciuto, sembra essere giunto al crepuscolo, e collassando finisca per trascinare nel buco nero anche dei pezzi fondamentali della nostra formazione, del nostro modo di rapportarci al mondo, agli altri e quindi a noi stesse.
Che accade nei “paesaggi oltre la soglia”? La dimensione temporale che decretava l’inizio e la fine dei #core esiste ancora? E cosa è successo allo spazio?
Valentina Tanni: Quando sei di fronte a una soglia, in un certo senso il tempo si ferma. Il confine infatti non solo interrompe lo spazio, generando l’esistenza un dentro e un fuori, ma segna anche, potenzialmente, un prima e un dopo. L’ossessione che gli utenti della rete sembrano avere per gli spazi liminali nasce proprio da questo rapporto inscindibile tra tempo e spazio: le stanze spoglie, i corridoi silenziosi e i centri commerciali deserti non sono altro che contenitori del tempo ormai svuotati. Quando il confine è uno schermo, questo nodo spazio-temporale diventa incredibilmente complesso. Abitiamo la rete perlopiù con la nostra mente; mentre esploriamo i “paesaggi oltre la soglia” lasciamo il corpo indietro, a combattere con i formicolii e il mal di schiena. Percepiamo internet come un luogo da sempre (chi si ricorda il cyberspazio?), ma di fatto la nostra esperienza, quando siamo connessi, è incorporea, dislocata, dispersa. Il tempo, invece, tende a distorcersi e contrarsi, come accade in tutte le esperienze “assorbenti”: leggere un libro, guardare un film…
A questo dobbiamo aggiungere un altro fattore, ormai sotto gli occhi di tutti: il fatto di poter recuperare istantaneamente, online, qualsiasi materiale proveniente dal passato, di ogni epoca e cultura, modifica ulteriormente il nostro approccio alla temporalità. Come diceva Daniel Lopatin in un’intervista del 2009, “Non sorprende che molti, tra noi che lavoriamo nel campo delle arti, in quest’epoca informatica si sentano archivisti, antropologi o viaggiatori del tempo. Siamo stati letteralmente dotati di tutto il necessario per viaggiare facilmente attraverso il tempo grazie all’arte e alla scienza”. L’utente di internet oggi è così: un po’ archivista (cerca, scarica, organizza, salva), un po’ antropologo (osserva i comportamenti infinitamente diversificati, ma anche assurdamente simili, di milioni di persone nel mondo), un po’ viaggiatore del tempo (va avanti e indietro nella storia recuperando estetiche visive, mondi sonori, narrazioni e vibe assortite).
Sono d’accordo su quello che dici a proposito della specifica collocazione temporale di questo libro. Non è affatto un caso che mi sia trovata a scriverlo proprio a cavallo tra il 2022 e il 2023. Il concetto di vibe shift è vago ed evanescente, ma se ci pensi è esso stesso una vibe. È la vibe di questi anni, ed è per questo che ne siamo così attratti: la vibe del cambiamento perenne, dell’incertezza come condizione esistenziale, dell’apocalisse come orizzonte permanente. Si avverte, a livello quasi subliminale, l’imminenza di qualcosa, ma nessuno di noi sa tracciare i contorni di questo cambiamento con precisione. Anche internet è diventato improvvisamente un luogo scomodo, strano, difficile; anche per chi, come noi, lo abita stabilmente da decenni. Le immagini simbolo di questo momento storico, che si muove tra distrazione e disperazione, sono i labirinti delle backrooms, i corridoi senza fine degli spazi liminali e le porte spalancate sullo spazio profondo del weirdcore e del dreamcore. Sogni a occhi aperti, incubi giocabili e viaggi fuori dal corpo.
Silvia Dal Dosso: Leggendo Exit Reality ti confesso che ho vissuto una serie ininterrotta di momenti “autoscopici” – tutto a posto, eppure sì: mi è successo più volte, mentre ero su un’amaca o su un telo da spiaggia, di essere vittima di esperienze extracorporee involontarie in cui mi costringevi a scrutare dall’esterno il mio comportamento e quello di tanti altri utenti millennial e Gen Z. Lungo il libro ci si accorge di come, costretti a comunicare attraverso un mezzo limitato, che non ci permette di sentire il respiro o guardarci negli occhi, abbiamo evoluto una sorta di specialismo dei “feels”, cercando di descrivere sensazioni ipercomplesse dandogli dei nomi (come nel da te citato Dictionary of Obscure Sorrows di John Koenig), usando suoni (“A playlist to feel like you etc…”), immagini (core, estetiche) e meme (reaction, character).
È facile notare che le conseguenze dell’avvento dei forum e poi dei social media nelle nostre vite sono incalcolabili, ma si vede anche che la condivisione ci ha portato a scoprire parti estremamente nascoste della nostra individualità. È esemplare il fatto che una sensazione “strana, difficile da definire” come l’ASMR, mai “identificata né studiata dalla scienza ufficiale”, come dici, sia “in pochi anni diventata argomento di conversazione – e spesso un’ossessione – per milioni di persone nel mondo”. Un simile processo di scoperta causa condivisione collettiva e compulsiva è quello che ha fomentato la tulpamanzia, l’arte di creare personaggi immaginari; e poi – come racconti – il Reality Shifting, la pratica spirituale di migrazione in altre realtà finzionali, i cui manuali possono essere trovati ovunque nell’internet. Tutte esperienze che prima non avevano un nome, che erano strettamente personali, di cui si parlava di rado o con nessuno.
Fino a qualche anno fa mi sarei ben guardata dal raccontare a qualcuno che provo un piacevolissimo formicolio alla schiena quando un impiegato delle poste mi spiega qualcosa di moderatamente utile, o che fino a 13 anni ho perso svariate ore dopo la scuola a guardare il soffitto shiftando in mondi inventati in cui ero un’eroina della giungla o la vera e unica protagonista del Truman Show. I millennial come me hanno a lungo taciuto, come moltissimi umani prima di noi, finché non si sono ritrovati online; proprio come racconti quando parli del poolcore, ci siamo resi conto che le nostre esperienze erano molto, troppo, simili tra loro: “in un certo senso tutti abbiamo frequentato la stessa piscina”. L’emozione di far parte di una hivemind che tutto può e tutto conosce è stata bellissima; ma scoprire che tanti sconosciuti avevano vissuto la nostra stessa vita intima e capire che i sacri templi in cui la nostra individualità si è formata erano in realtà il risultato della produzione seriale, della globalizzazione e della società di massa, ci ha turbati, ci ha fatto sentire un non player character in un freddo algoritmo. Per la Gen Z, che in qualche modo ha sempre saputo che l’intimo era condiviso, la situazione è del tutto diversa: forse per loro oggi è più facile creare arte, cultura e esperienze finzionali, tramite processi collettivi?
Valentina Tanni: Questa esperienza di condivisione intima estrema di cui parli, che la rete permette nonostante le sue limitazioni (l’esclusione del corpo e del contatto fisico), secondo me è l’aspetto più affascinante, e allo stesso tempo terrificante, di internet. Sono anni che ne parlo, chi mi conosce lo sa. È una cosa che mi ossessiona. All’inizio degli anni Novanta, Pierre Lévy parlava di intelligenza collettiva, immaginando un futuro in cui questa interconnessione globale continua avrebbe partorito una nuova forma di intelligenza capace di “aumentare” le competenze e le risorse intellettuali. Questa idea si è realizzata, ma in forme impreviste: non potendo selezionare cosa condividere, che genere di idee veicolare, quali competenze potenziare e per quali scopi, abbiamo visto i cervelli e le anime connettersi a ogni livello, per qualsiasi fine e obiettivo concepibile, in qualsiasi modalità attuabile.
Nonostante si continui a paragonare i processori ai cervelli umani, la nostra mente decisamente non è un calcolatore; condividere le risorse umane non equivale a condividere dataset e potenza computazionale. Interconnettendo l’intelligenza umana mettiamo in connessione non soltanto le competenze e le informazioni, ma anche le emozioni, le sensazioni, le intuizioni, le ossessioni, i sogni e le visioni. Questo genere di hivemind estesa è esattamente la “alien life form” di cui parlava David Bowie nell’intervista rilasciata alla BBC nel 1999, citata anche in quarta di copertina di Exit Reality: “Il potenziale di ciò che internet può fare alla società, sia in positivo che in negativo, è inimmaginabile. Non abbiamo visto nemmeno la punta dell’iceberg… Siamo davvero sull’orlo di qualcosa di esaltante e terrificante”, disse al giornalista Jeremy Paxman in un momento di estrema lucidità e prescienza.
Come ipotizzi, certamente il contatto con questa dinamica ha avuto conseguenze diverse nelle varie generazioni. Per la Generazione X e per i Millennials è stato un processo di mutazione, allo stesso tempo esaltante e doloroso, qualcosa che abbiamo dovuto elaborare, comprendere, imparare. Per la Gen Z credo che la consapevolezza di far parte di questo “tutto” sia stata acquisita in maniera più rapida e istintiva. Non so dire se sia un bene o un male, ed è ancora difficile immaginare le conseguenze. Mi auguro che quello che dici sia vero, ossia che la creazione collettiva diventi qualcosa di sempre più naturale e che si “shifti” verso un modello di produzione culturale meno incentrato sulla celebrazione dell’individualità e più profondamente corale.
il corecore è il Let’s Play della vita durante la nostra estinzione
Silvia Dal Dosso: Un altro tema trasversale al libro, che potrebbe colpire molte lettrici e lettori da vicino, è quello del “cervello cronicamente online” e dei contenuti creati per elaborare il trauma di essere costantemente esposti a ulteriori miriadi di contenuti. Parli degli Sludge Content video, che riportano più video all’interno della stessa schermata così da soddisfare le numerose esigenze di spettatori e utenti ormai affetti da ADHD e assetate di multitasking, e parli dei Chaos Edit, ovvero i montaggi dadaisti di altri video e immagini trovati online. Quest’estate, durante una delle mie immersioni di scienza divulgativa su YouTube, notavo come questi tentativi di giustapposizione randomica ricordano l’attività onirica che il nostro cervello compie nella fase non-REM. Quando dormiamo profondamente le memorie della giornata ci appaiono giustapposte in modo velocizzato e senza una consecuzione lineare del tempo. È il nostro cervello che, completamente disinibito e libero dai cosiddetti bias della ragione, cerca di dare un senso ai suoi ricordi, per capire come funziona il mondo.
Un’attività onirica che ritorna nel game design di Therapy (2023) di Harper Shen, “un simulatore di camminata che permette di vagare nei propri sogni e nelle proprie illusioni” che tu giustamente accosti a LSD Dream Emulator (1998) di Osamu Sato, il primo gioco di esplorazione e giustapposizione di scenari senza obiettivi. I videogiochi in ambito esplorativo e weird usciti dal 2015 in poi sono quasi tutti bellissimi (tu citi Yume Nikki del 2004 e io aggiungo Undertale del 2015 e Hypnospace Outlaw del 2019), ma se in molti ancora è possibile vivere un’avventura da player character, in Therapy l’interazione è negata. Chi gioca può solo muoversi nello spazio e guardare, come in sogno o come su Tumblr: ci si trova a esplorare i ricordi di un’altra persona, che ancora una volta coincidono in modo perturbante con i propri. Non è un caso che Therapy, espressione del Traumacore, assomigli moltissimo a un Let’s Play, i video in cui si guardano giocare gli altri. Forse allora i Chaos Edit sono i Let’s Play di internet, e il corecore è il Let’s Play della vita durante la nostra estinzione. Cosa sta succedendo alla capacità di scelta e all’agency della mente online? L’interattività si è trasformata in zapping o siamo arrivate all’immobilità del Nirvana, dove le quattro nobili verità sono ormai rivelate, e ci troviamo in un nuovo stato di “suprema consapevolezza dei contenuti” (lol)?
Valentina Tanni: Il corecore è il punto in cui lo stesso concetto di core collassa su se stesso e si rivela per ciò che è davvero. La sua comparsa era inevitabile. Quando ho visto per la prima volta l’hashtag su TikTok ho pensato: “ma certo”. Perché alla fine, se ci pensi, nelle estetiche è il suffisso che conta, non il prefisso. Il prefisso è intercambiabile, ci puoi mettere qualsiasi cosa. Mentre il suffisso determina l’approccio, l’intenzione, l’attitudine. Core come volontà di estrarre il cuore delle cose, ricercando la loro energia primigenia; ma anche core come ossessione, ripetizione, esagerazione. Mi piace questa idea dei Chaos Edits come Let’s Play di internet: magari è un modo per immaginarsi dentro la mente di qualcun altro, navigando “passivamente” attraverso i suoi occhi. Per poi rendersi conto, mentre lo si fa, che in fondo la navigazione degli altri non è poi così diversa dalla nostra.
Riguardo lo zapping e il Nirvana (lol): l’interattività è stata ingenuamente celebrata per decenni, talmente tanto da farci vivere la partecipazione come un dovere (l’ennesimo). Forse è una delle tante cose che dovremmo ripensare in questo momento storico.
Silvia Dal Dosso: Nel libro parli di strategie di adattamento a una realtà impermanente, passando dal Reality Shifting al meme Everything is a Cake e accennando alla Dead Internet Theory, secondo cui gli umani hanno smesso di esistere nell’internet nel 2016, per lasciare il passo a bot e entità artificiali. Dopo anni di targetizzazione emotiva e fake news, troll farm e circhi di Vladislav, deepfake e complotti strumentalizzati dalla propaganda, non solo ci troviamo in uno stato di sospetto permanente, ma l’adattamento ci ha portato a muoverci da un universo finzionale all’altro come se il mondo online fosse un gigantesco LARP che dilaga nelle nostre vite quotidiane. Abbiamo accolto il falso nelle nostre case, come si fa con un brutto souvenir regalato dalla nonna, o il calendario di una rosticceria cinese. Ma il falso online è appiccicoso e, se vogliamo tenerlo a bada, la modalità passiva del Let’s Play potrebbe essere una trappola; i creativi dell’internet sembrano per ora aver reagito in altri modi, spesso sfruttando l’aspetto memetico, strano e cursed delle prime rudimentali AI Generative (su questo rimando al saggio introduttivo su Iconografie di settembre e al video articolo The Future Will Be Weird As Fuck). Nei tuoi viaggi online, tu che sai ancora surfare come si faceva nell’1.0, cosa hai visto accadere a chi crea o cronicamente abita in un mondo dove tutto potrebbe essere falso? E che ruolo assumono nella mischia le AI Generative?
creare – ma anche soltanto esistere – in un mondo dove tutto potrebbe essere falso (ma anche generato da un bot) è una condizione esistenziale nuova
Valentina Tanni: È sempre più difficile “surfare come si faceva nell’1.0”, perché internet non è più quello del 1998, e nemmeno quello del 2006. L’oceano da attraversare è molto più vasto e tumultuoso; i messaggi sono difficili da decifrare; trovare porti sicuri è un’eventualità remota. Più si cerca di evitare le rotte prestabilite, più si avverte la potenza della corrente del mainstream. Piattaforme social, adv targhettizzato, selezione dei contenuti algoritmica: tutto tende a riportarci nella corrente principale, quella che ci rincoglionisce e ci omologa. Nonostante tutto, io ci provo sempre, è la mia forma di resistenza.
Per rispondere alla tua domanda: creare – ma anche soltanto esistere – in un mondo dove tutto potrebbe essere falso (ma anche generato da un bot) è una condizione esistenziale nuova. Le risposte a questa situazione non potrebbero essere più diversificate: vedo persone che non si rendono minimamente conto del cambiamento e continuano a prendere (più o meno) tutto per buono; vedo persone che si sono convertite allo scetticismo e lo praticano come una religione; vedo anche persone che si divertono un sacco a giocare con i piani del vero, del falso e del verosimile, inventando estetiche e modalità espressive. Come il souvenir brutto della nonna, alla fine un po’ ci piace, anche se ci vergogniamo a dirlo.
Le AI generative sono una specie di pozzo senza fondo: quando le usiamo di fronte a noi si spalanca uno spazio infinito: la vertigine della combinatoria, i percorsi potenzialmente inarrestabili della generazione automatica. Anche lì, siamo su una soglia; al di là c’è la sostanza sconosciuta e appiccicosa dello spazio latente.
In collaborazione con Aksioma, questa conversazione è stata tradotta in inglese e sloveno nel contesto della collana di saggi PostScriptUM. Questa collaborazione è avvenuta all’interno del progetto .expub.