Cosa stai cercando di dimenticare?

Dal traumacore ai liminal spaces: l’immaginario horror che racconta l’inquietudine temporale delle generazioni dell’era digitale

La scritta ha il font in blu delle vecchie presentazioni in Power Point. Sullo sfondo il neon di un lampione illumina la strada nuda. Un viale deserto, affiancato dalle tipiche casette basse dei suburbs americani. La qualità lo-fi dell’immagine dà al quadretto la patina onirica di un incubo. Eppure c’è qualcosa di confortevole, qualcosa che instilla persino un senso di familiarità: l’apparenza di un ricordo condiviso. Tutti hanno dimestichezza con una scena del genere. Chiunque oggi ha visto nella sua vita un luogo simile; persino chi non è mai stato in certe zone degli Stati Uniti. La si potrebbe definire l’estetica dell’american dream, che ha informato urbanisticamente anche quartieri residenziali in Italia, come Casal Palocco a Roma. Ma c’è anche qualcosa che non quadra. Il silenzio è percepibile dall’immagine. L’assenza di umanità e il timore che qualcosa possa annidarsi tra quelle case, qualcosa che possa spuntare all’improvviso dai vicoli desolati, è una sensazione vivida.

Di immagini del genere se ne possono trovare tantissime su Instagram. In basso spesso compare l’hashtag #traumacore oppure #liminalspaces. Sono due concetti strettamente intrecciati. Seguendo il primo hashtag si incontrano delle variazioni specifiche all’immagine sopra descritta. Compaiono sempre luoghi che trasmettono un senso di solitudine, di vuoto, insieme a un’atmosfera familiare, come una cameretta con un anonimo mobilio bianco, minimale e disadorna. Questa volta, però, i luoghi perturbanti sono associati a messaggi che richiamano direttamente o indirettamente eventi violenti o traumatici del passato (“you make me scared”, “get away from me”) e contengono spesso riferimenti al suicidio. 

Tuttavia c’è un elemento che caratterizza più di tutti queste immagini: i personaggi della Sanrio, l’azienda che ha reso celebre HelloKitty. Il filo rosso è il contrasto tra un’atmosfera creepy e un elemento zuccheroso che richiama una certa sensazione di safe space legato all’infanzia o all’adolescenza, una nicchia di candore, fosse anche mai esperita nella vita reale di una persona, all’interno del passato. Il traumacore, dunque, potrebbe già essere definito come tutto ciò che unisce l’emotività innocente dell’infanzia a un’atmosfera traumatica.

Hypermnesia

Credo che questi immaginari raccontino molto più di un momentaneo trend internettiano. Traspare, cioè, il rapporto che alcune persone hanno con la propria temporalità e con il passato, oltre a una elaborazione del concetto di trauma che lo connette in maniera inscindibile da quella di identità. L’estetica traumacore non a caso nasce con i Millennial cresciuti con la diffusione di massa della Rete e diventa un fenomeno esteso tra gli adolescenti nati nel nuovo millennio. 

Il passato come tempo del non più e del ricordo viene meno. L’era digitale, più che qualcosa di morto, lo ha reso un’entità vivente.

Generazioni che hanno sperimentato un cambio di paradigma temporale inedito nella storia umana: da un passato come qualcosa che cade sotto la scure di un oblio selettivo, di un’elaborazione esistenziale, si è passati ad abitare un presente che convive con il passato sulla stessa linea temporale. L’architettura dei social è stato il principale vettore di trasformazione. Funzioni come Accadde Oggi su Facebook, la possibilità di commentare, modificare e riconvidivedere post propri o altrui risalenti anche a cinque anni prima, hanno determinato una sorta di colonizzazione della memoria. Come ha scritto Davide Sisto in Ricordati di me:

“[I]l mondo odierno pare colpito da una vera e propria epidemia di ricordi che fornisce al passato l’occasione di emanciparsi dal controllo del presente. […] [I]l passato si sovrappone al presente, interponendosi tra un istante e l’altro. Si libera, di conseguenza, della spettralità che gli ha attribuito chi, fino a oggi, lo ha pensato come una storia raccontata a sé stessi o come una mera simulazione prodotta dalla mente. E si prepara, infine, a sovvertire le regole alla base del nostro modo di ricordare e dimenticare”

Il passato come tempo del non più e del ricordo viene meno. L’era digitale, più che qualcosa di morto, lo ha reso un’entità vivente. Tramite i meccanismi di copia e modificazione, invece di essere inattingibile lo ha fatto collassare nel presente. Esso è sempre lì, ma non come crediamo di ricordarcelo. È uguale a prima, eppure rimane la sensazione che vi sia qualcosa di diverso. Il passato espropriato alla persona, estraneo e vicino allo stesso tempo nel suo essere riattuabile dagli altri, è diventato un mostro che ti cerca e ti intrappola, come nel caso emblematico dei revenge porn. Ciò che è morto vive, ha una propria autonomia. Si potrebbe dire: una propria agentività (agency), cioè una capacità autonoma di interagire e influire sulla realtà attuale.

Anni fa mi aveva colpito una pagina di The Age of Earthquakes: A Guide to the Extreme Present, un libro scritto da Shumon Basar insieme all’artista e scrittore Douglas Coupland e al curatore d’arte Hans Ulrich Obrist. Si tratta di un testo composto interamente da immagini, per lo più legate all’estetica della Rete: ad esempio, i classici prompt di Windows 95 uniti a frasi fulminanti sulle distorsioni del presente. In una di queste si leggeva: “Forse qualcuno di voi avrà notato che le nostre vite non sembrano più delle storie”. Il riferimento è al fatto che negli ultimi trent’anni si è completamente alterata la forma della temporalità in cui viviamo. Se la mente del ventesimo secolo è una mente lineare, quella del ventunesimo secolo è una mente reticolare. Le vite si svolgono all’interno di un iper-presente tecnologico che automatizza la memoria. Lo sviluppo e la contaminazione della macchina espelle l’essere umano da ciò che più gli è proprio e che, secondo una tradizione di pensiero che fa capo a John Locke, definisce l’identità personale: i ricordi.

L’era digitale si tramuta nell’era del cannibalismo temporale; un tempo eterno, ma dove questa eternità rimane senza ombre, senza fessure, un tempo della stasi in cui nulla può accadere e tutto si ripete. Dove i nostri io del passato convivono con gli io del presente e interagiscono con gli utenti situati nella linea temporale in cui stiamo vivendo, come quando una vecchia foto in cui siamo taggati continua a ricevere like e viene ricommentata, influendo sulla percezione che abbiamo di quel ricordo; oppure, all’estremo limite delle nozioni di vita e morte nello spazio digitale, l’account Facebook di una persona defunta continua a pubblicare post tramite chi ne amministra la pagina. Come scrive François Bonnet in After Death, “l’accesso al passato diventa sempre più una procedura che non implica più né distanza né durata, al punto che il passato perderà persino la sua funzione di far ritirare gradualmente ciò che è stato verso l’inesistenza”.

Tra le trasformazioni dell’architettura dei social c’è anche l’aver soppiantato la dinamica del connettersi alla Rete da uno stato off-line, caratteristico del primo Internet, in favore di una situazione in cui questa dicotomia – online / offline – è diventata priva di senso. Il sé attuale si definisce dalle relazioni in tempo reale con un iper-presente sincronico dove tutto accade sullo stesso piano. Pensiamo, ad esempio, alle dinamiche di livelogging in cui siamo ormai tutti costantemente catturati. Ogni esperienza, da un concerto a una festa, alla visione di un paesaggio, esiste e ci definisce solo in quanto può essere storificata tramite le funzioni di piattaforme come Instagram. Stiamo assimilando l’idea che la realtà, per non crollare, debba essere costantemente confermata dalla comunità sincronica in cui siamo immersi. Disconnettersi, per una persona che viveva nei primi anni del nuovo millennio, significava diventare irraggiungibile; per un nativo digitale significa de-sincronizzarsi dal mondo.

Il trauma originario avvia un processo di degradazione del presente. Per quanto si pensi di aver stabilizzato la propria vita, il passato, ormai un’entità autonoma e incontrollabile, continuerà a cercarci e perseguitarci. 

Le immagini traumacore raccontano indirettamente questo circuito temporale. Gli spazi in cui sono ambientate danno l’impressione di un ricordo sbiadito; come i ricordi di abusi e traumi rimossi, che affiorano nei sogni o in alcuni dettagli della vita quotidiana dando un senso di straniamento rispetto alla realtà in cui viviamo. Il concetto di trauma agisce secondo due direttrici. Agisce da una parte come un monito: “svegliati, la realtà che stai vivendo è sempre sull’orlo di sgretolarsi, stai dimenticando le esperienze negative – il mostro nella stanza – che ti hanno segnato”. In questo senso le ambientazioni del traumacore sono spesso dei luoghi familiari, ma i cui dettagli richiamano l’atmosfera di un incubo. Il trauma originario avvia un processo di degradazione del presente. Per quanto si pensi di aver stabilizzato la propria vita, il passato, ormai un’entità autonoma e incontrollabile, continuerà a cercarci e perseguitarci. Iconograficamente, questo passato assume le sembianze della nostra cameretta d’infanzia, ma in evidente stato di degrado; oppure si manifesta come un’ombra inumana che si intravede in un vialetto del sobborgo residenziale in cui siamo cresciuti.

Nel traumacore, tuttavia, c’è anche un’altra direttrice, in cui è all’opera un’evidente romanticizzazione del trauma. Un’operazione tipica di un’epoca in cui la propria esperienza di essere un soggetto non di rado passa attraverso il paradigma della vittima. Il dolore privato è diventato l’oggetto di un’esposizione pubblica senza precedenti, come se il trauma avesse saturato l’identità sociale. Sul mercato editoriale proliferano i memoir su esperienze traumatiche. Persino la descrizione di sé stessi sui profili social, in alcuni casi, coincide interamente con un’esperienza traumatica, come nel caso del termine “survivor” utilizzato per riassumere chi siamo. La posizione della vittima, cioè, smette di essere interpretata come un accidente, come qualcosa che viene inflitto dall’esterno, ma diventa l’essenza della soggettività. Esiste tutta un’ontologia della debolezza che, da strumento emancipativo contro una cultura fallica e performativa, trasforma il trauma in una strana forma di ossessione e di potere. Attraverso questo discorso si costruisce un binomio inscindibile tra innocenza e potenza per cui l’essere riconosciuto non riguarda più l’agire, il conflitto e il divenire – come nella modernità si è classicamente intesa la costruzione dell’esperienza soggettiva – ma attraverso ciò che si è subito o, più precisamente, ciò che si racconta di aver subito.

La rassicurazione promessa di questa particolare identità statica e passiva riguarda la possibilità di pretendere il superamento del confronto pubblico come esercizio di empowerment. Come scrive Daniele Giglioli in Critica della vittima: “Il dispositivo vittimario ha dalla sua la forza della parola senza mediazioni, presente a sé stessa e non bisognosa di verifiche esterne. […]. Come potete discutere il mio dolore? Io sono insindacabile […]. Non a tutti gli enunciati possibili avete diritto: solo a quelli a me favorevoli, pena la vostra degradazione a carnefici. […]. Non sii buono, dammi ragione, ma piuttosto: dammi ragione e sarai buono”. Se pensiamo a tante pellicole horror di successo che in questi anni hanno ridefinito temi e grammatiche del genere, il trauma è evidentemente un tema onnipervasivo: The Babadook, Hereditary,  Midsommar, Saint Maud, Possum, la serie tv The Haunting of Hill House di Mike Flanagan, tanto per fare qualche esempio.

In Perdere tempo su internet, Kenneth Goldsmith descrive Facebook come una forma di “autobiografia culturale collettiva”. Ogni giorno trasformiamo in dati esperienze, storie passate e presenti, sensazioni, tanto di noi stessi, che degli altri. I ricordi e ciò che abbiamo scritto dall’adolescenza fino alla nostra morte rimarrà registrato, modificabile e appropriabile da altri utenti. Ciò che c’è di più personale diventa parte di una narrazione collettiva sempre più autonoma e automatizzata: nutriamo attraverso i dati il passato fino a dargli la vita. Questo collasso del passato nel presente rende così la realtà una casa insicura, infestata da presenze invisibili, dove il ricordo dello spazio domestico diventa maledetto. La Gen Z sarà la prima generazione i cui ricordi coincideranno con i dati di una piattaforma social.

Non puoi fuggire

L’immaginario traumacore è incomprensibile senza il concetto di liminal spaces. Gli spazi liminali riguardano quelle immagini di spazi di transito che, pur rimanendo all’interno del mondo quotidiano, sembrano collegare due dimensioni parallele. Luoghi deserti, non ancora una rovina, ma dove l’impronta umana sembra essere svanita da tempo: un centro commerciale alle tre di notte, oppure una piscina retrò di un vecchio hotel abbandonato. Altre volte hanno dei contorni più orrorifici: tubature rotte e muri macchiati da ruggine, pozze di acqua stagnante all’interno delle classiche case della nonna. Sono spazi pervasi di un’atmosfera fredda, inquietante, ma anche familiare. Da anni fanno parte dei meme e dei post  di molti utenti in Rete. Su reddit esiste un intero subthread dedicato (r/liminalspace), dove ci si può fare un’idea più immediata di ciò di cui si sta parlando.

È un’estetica che si lega a tanti altri pezzi di sottocultura internettiana, come le cursed images o i creepypasta, cioè quelle storie inquietanti diffuse su internet da utenti anonimi e che vengono rielaborate in maniera virale come un meme da altri utenti di forum e image board. Come in una versione retrogaming del celebre quadro di Andrew Wyeth Christina’s World, un altro paesaggio tipico delle immagini traumacore sono le presenze di case in lontananza in 8bit o in qualità lo-fi, poste su un orizzonte che sembra sempre a un passo dall’essere raggiungibile. In una di queste si legge, ad esempio, “I can’t remember how to go back”. Se il passato diventa un’entità autonoma, che sempre può tornare a ossessionarci – se, in altre parole, abbiamo perso la possibilità stessa della perdita – allora la realtà che viviamo, incentrata sulla sicurezza del non più, dell’ora e del non ancora,  è destinata a deteriorarsi, a perdere stabilità e consistenza.

La concezione della vita come zona in cui si fa labile il confine con il sogno, caratteristica del fantastico e della letteratura weird di fine Ottocento e inizio Novecento, si trasforma in una concezione della vita come simulazione, come architettura computazionale in cui bug ed errori di codifica possono produrre un collasso del sistema, ma anche generare spazi imprevisti. Nel videogioco Tomb Raider II del 1997, entrando nella modalità “Esplora il maniero Croft” era possibile – oltre che rinchiudere il maggiordomo nella cella frigorifera, sbarazzandosi della sua inquietante solerzia nel seguire il nostro character – sfruttare un errore del gioco per accedere alla magione da una finestra, trovandoci a vagare tra gli spazi virtuali in totale solitudine.

L’immagine disturbata dei vecchi VHS, i poligoni dei vecchi giochi, così come la fotografia granulosa tipica dei filmati Super8, oppure l’audio dei nastri di un tempo che perdono di qualità ripetizione dopo ripetizione, sono tutti elementi che costituiscono l’estetica ideale per rappresentare una realtà percepita non più come salda e dominabile da un io sovrano, ma come affetta irrimediabilmente da glitch che, come portali, aprono a qualcosa che sfugge alla razionalità; una realtà perturbante, estranea e sfuggente, da cui rischiamo di non fare più ritorno. Lo stesso principio si ritrova nel progetto musicale del 2016 di Leyland Kirby sotto il monicker The Caretaker, Everywhere At the End of Time, dove le tracce si deteriorano gradualmente fino all’ultimo brano (intitolato emblematicamente Place in the World fades away). Che il disco, da progetto sulla demenza e sulla perdita di memoria, sia diventato una challenge virale anni fa su TikTok presso utenti appartenenti per lo più alla Gen Z, mi sembra tutt’altro che casuale.

La rovina emerge dunque come una categoria concettuale chiave di questo immaginario. Basti pensare al creepypasta suicidemouse.avi, un video di una decina di anni fa che sintetizza bene i nodi tematici emersi finora e che costituisce forse un antecedente dell’estetica traumacore. In suicidemouse.avi vediamo un classico Topolino degli anni ‘40 camminare pensoso su una strada. Cammina in linea orizzontale, lo stesso ritmo, lo stesso scenario di palazzi tutti uguali, come se fosse perso in un loop da cui non può uscire. Il filmato è in bianconero, l’immagine in bassa qualità. In sottofondo sentiamo una musica dissonante. Dopo circa un minuto la musica si trasforma in rumore bianco, poi un silenzio assoluto; infine lo stesso schermo diventa tutto nero. Quando l’immagine ritorna qualcosa è cambiato. Ora Topolino ha un ghigno inquietante. La traccia audio si è mutata in un misto di rumori e urla.

Il filmato prosegue degradandosi: i palazzi a bordo strada sono sempre più distrutti, l’immagine e l’audio sempre più rovinati e disturbati, mentre Topolino cammina più veloce. Si tratta di una delle visioni più disturbanti che abbia mai visto. Secondo la leggenda del creepypasta, si tratterebbe di un cortometraggio Disney andato perduto, un filmato maledetto che porterebbe chi lo guarda al suicidio. Suicidemouse.avi presenta tutti i tratti salienti del traumacore: il personaggio iconico legato all’infanzia (come nel caso di HelloKitty per le generazioni recenti), il cortocircuito con il tempo e con il passato, la qualità dell’immagine e lo spazio che fa da sfondo in rovina. Persino la strada che man mano viene percorsa, e che rimane sempre uguale, familiare e inquietante allo stesso tempo, salvo poi distruggersi gradualmente, ricorda le backrooms, uno dei liminal spaces più noti, diventato un fenomeno talmente vasto da richiedere una trattazione a parte per esaurirlo nelle sue stratificazioni.

Nella lore originaria delle backrooms, ad esempio, si può rimanere intrappolati in uno spazio liminale per errore, salvo non specificare mai quale sia questo errore. Più in generale, nella vita di ogni giorno gli spazi liminali sono come delle aree di sosta: luoghi pensati per non permanere. In un’area di sosta ci si ferma all’interno di un viaggio, dunque è un punto che si frappone tra un’origine e una destinazione. Ma se noi rimaniamo troppo a lungo in un’area di sosta, avvertiamo qualcosa di strano. La realtà comincia a sgretolarsi, in maniera non troppo lontana al fenomeno dello shifting reality che un po’ di tempo fa era diventato virale su social come YouTube e TikTok tra i nati nel nuovo millennio. Ci accorgiamo, insomma, che qualcosa non quadra. Una sensazione simile la proviamo anche nelle pompe di benzina chiuse, oppure se ci soffermiamo in piena notte a osservare un supermercato dalle vetrine. La nostra razionalità è talmente abituata a percepire il design degli spazi in funzione di uno scopo, che un non-luogo preso nel momento in cui la sua funzione è sospesa diventa una realtà fuori contesto. Gli spazi liminali sono associati a luoghi che rappresentano le false promesse dell’era moderna, alle forme distopiche che il modello del sogno americano ha proiettato nell’immaginario globale.

Le voci che risuonano nei corridoi delle backrooms, le presenze che ci cercano, sono anche il background abissale della realtà, a cui possiamo accedere per cenni e allusioni, ma in cui rischiamo sempre di soccombere.

Ciò che rimane è che un cortocircuito tra funzione, razionalità e tempo, che apre una faglia nel tessuto del reale. Un certo design che appartiene all’era moderna, fuori dal proprio contesto quotidiano, finisce dunque per diventare un portale attraverso cui un Fuori, cioè qualcosa che oltrepassa gli schemi dell’esperienza, irrompe nella realtà. In un passaggio del suo Weird Realism, il filosofo Graham Harman scrive:

Il linguaggio (e tutto il resto) è costretto a diventare un’arte dell’allusione o del discorso indiretto, un legame metaforico con una realtà che non può essere resa presente. Il realismo non significa che siamo in grado di affermare proposizioni corrette sul mondo reale. Significa, invece, che la realtà è troppo reale per essere tradotta senza residui in qualsiasi frase, percezione, azione pratica o altro.

Harman vuole mostrare come la conoscenza non abbia bisogno di essere discorsiva e diretta. Ciò non implica, però, una visione scettica della conoscenza o un banale irrazionalismo. La realtà noumenica di Kant, cioè la supposta realtà in sé dietro i fenomeni che incontriamo nell’esperienza, invece di essere considerata come pensabile ma non conoscibile, per Harman è qualcosa di cui possiamo avere una conoscenza indiretta, in quanto, come un buco nero, “la cosa in sé assente può avere effetti gravitazionali sul contenuto interno della conoscenza”. Allo stesso modo in cui lo scrittore H.P. Lovecraft – da cui il sottotitolo del libro “Lovecraft and philosophy” – allude alla forma fisica dei suoi orrori riuscendo comunque a non usare descrizioni dirette delle entità in sé della sua cosmogonia. 

La definizione di Harman di “realismo” potrebbe funzionare per descrivere ciò che succede nell’immaginario horror degli spazi liminali. Non tanto un monito ingenuamente idealistico sul fatto che la realtà non esiste; piuttosto, la consapevolezza che la realtà nasconde un fondo inattingibile direttamente, ma che tuttavia proietta i suoi effetti destabilizzanti – o per meglio dire, i suoi glitch – sulla realtà quotidiana. Tutto ciò che c’è anela a liberarsi dalla propria organizzazione, ma questa forza entropica – che minaccia la stessa unità del reale – crea anche nuovi labirinti.

La visione degli spazi liminali ha dunque un potenziale emancipativo e pericoloso allo stesso tempo. Ci ricorda che la dimensione che abitiamo, soprattutto nell’era digitale, è fatta di zone d’ombra, di passaggi nascosti e cortocircuiti temporali; questo ci spinge a concepire la realtà in una maniera non monolitica. Allo stesso tempo, queste soglie sono anche luoghi in cui sostare con cautela, perché alto è il rischio di rimanere intrappolati, perdersi per sempre, vedere la propria casa (metafora del senso di familiarità con la nostra realtà quotidiana) su un orizzonte irraggiungibile, in un luogo in 8bit che è la nostra dimensione parallela in cui il tempo si è avvitato su sé stesso come una spirale. Le voci che risuonano nei corridoi delle backrooms, le presenze che ci cercano, sono anche il background abissale della realtà, a cui possiamo accedere per cenni e allusioni, ma in cui rischiamo sempre di soccombere. Questo substrato abissale riguarda anche la realtà di quella costellazione di concetti – come io, interiorità, memoria – che usiamo per costruire un senso di stabilità e dominio di noi stessi.

Mentre il terreno mnestico è colonizzato dal medium tecnologico, siamo sempre persi in un atto di auto-fiction: wake up, this isn’t real

L’atto del ricordare, ad esempio, tanto centrale nei meccanismi dell’estetica traumacore, non riguarda la riattivazione di pezzi isolati del nostro vissuto che se ne stanno in un ipotetico contenitore-archivio che chiamiamo mente, memoria o interiorità, a cui abbiamo accesso diretto. Ogni proposizione con pretesa di verità che facciamo sul nostro passato è destinata allo scacco. Ciò che chiamiamo memoria è una ricostruzione che produciamo di volta in volta, condizionata non solo dal contesto socio-culturale dell’individuo, ma anche dal medium tecnologico che ne permette la continua riproduzione. 

In altri termini, non avendo alcun rapporto immediato con i ricordi, né accesso diretto a una loro ipotetica “vera origine”, li ricostruiamo di volta in volta. Mentre il terreno mnestico è colonizzato dal medium tecnologico, siamo sempre persi in un atto di auto-fiction: wake up, this isn’t real. Per questo, un’altra iconografia tipica dell’estetica traumacore sono i luoghi familiari popolati da figure che non riusciamo a distinguere: a volte rappresentate come persone i cui connotati facciali sono confusi come in un sogno, altre volte come poco più che ombre. Potrebbero essere parenti, amici, persone che un tempo hanno abitato la narrazione di un ricordo, ma che ora l’iper-presente ha cancellato, lasciando solo il paesaggio di contorno, diventato improvvisamente inquietante ed estraneo.

L’estetica degli spazi liminali insieme all’immaginario traumacore e a quello dei creepypasta hanno cominciato a penetrare anche in tanti prodotti audiovisivi più o meno mainstream. Un esempio è la serie Channel Zero (2016), in particolare nella sua seconda stagione, incentrata su una casa/installazione artistica in cui, una volta entrati, si viene messi a confronto in ogni stanza con traumi e orrori personali del passato, fino a che la realtà quotidiana dei protagonisti non viene del tutto trasfigurata. Un caso particolarmente interessante, che contamina il topos delle haunted house con elementi dell’estetica traumacore e degli spazi liminali, è Skinamarink, pellicola di Kyle Edward Ball, vincitrice del Torino Horror Film Festival 2022. Nel film, due bambini si svegliano nel cuore della notte. In casa non c’è più nessuno. Le finestre e le porte dell’appartamento sono svanite, mentre una voce da nessun luogo comincia a rivolgersi a loro. Il film è girato con lo stile di un found footage: non vengono mai inquadrati direttamente i bambini, che appaiono sempre ai limiti del campo visivo; in alcuni casi, invece, lo spettatore guarda la casa dalla loro prospettiva.

Un frame del film Skinamarink

Per tutta la durata del film gli ambienti si distinguono a malapena; la fotografia estremamente granulosa contribuisce a dare alla visione l’atmosfera dell’incubo. Il film risveglia ricordi d’infanzia in cui, alzandoci nel cuore della notte, la casa sembrava trasformarsi, e ogni rumore, dallo scricchiolio del pavimento dei vicini al piano di sopra a un’eco fuori dalla finestra, trasformava l’ambiente domestico in una dimensione di pericolo; momenti nei quali le maglie del possibile, nella mente di noi bambini, sembravano allargare la realtà a dismisura, e nella difficoltà del vedere distinto le cose  assumevano forme nuove. Nella casa i suoni distorti si alternano alla musica ipnagogica di una tv sempre accesa, settata costantemente su cartoni animati di metà Novecento. Si ritrova lo sfasamento temporale, l’infanzia come safe space ma anche come culla del trauma, l’impossibilità di fuggire da una realtà che si sbriciola man mano che ripete gli stessi pattern di vita, come i livelli di un videogioco su una vecchia console o le scene di un VHS che vengono costantemente riavvolte e riprodotte finché il nastro non si smagnetizza.

Un orrore nuovo: perdersi non nell’ignoto, ma nei corridoi di uno spazio che noi stessi contribuiamo a creare giorno dopo giorno, come a passo di sonnambulo. E, smarriti in questo loop temporale, nel momento in cui proviamo a svegliarci, una domanda scuote la mente: quale realtà troverò tornando indietro?