RIP Club Culture (finalmente)

Spazio per l’emancipazione dei corpi o vettore di gentrificazione e hype? Dai rave alle club commission, trionfi e cadute di un’industria che, dopo la pausa forzata della pandemia, scalpita per tornare in console

Man mano che l’estate si avvicina e tutti ci domandiamo se mai davvero torneremo a ballare (militanti introversi esclusi, si intende), è notizia di qualche settimana fa che in Germania la Club Commission di Berlino ha ufficialmente proposto di equiparare club e locali da intrattenimento a istituzioni culturali quali teatri e musei. Per chi non lo sapesse, la Club Commission è l’associazione della capitale tedesca che si occupa «della preservazione, dello sviluppo e del futuro della scena dei club di Berlino»: la sua missione è «promuovere gli interessi politici, amministrativi ed economici [del mondo dei club] così da garantirne il riconoscimento», al punto da «rappresentare il nostro settore in conferenze, progetti urbanistici ed eventi economici». L’equiparazione tra club e teatri garantirebbe una serie di agevolazioni fiscali a un mondo che fino all’altroieri ha rappresentato una delle principali industrie della capitale tedesca, e che adesso si ritrova particolarmente colpito dagli effetti del Covid 19; ma più in generale, è un ulteriore tassello nel progressivo processo di legittimazione istituzionale della club scene più ammirata e famosa del mondo.

Giusto lo scorso 3 ottobre, sempre a Berlino si è celebrato il primo Tag Der Clubkultur, un apposito «giorno della club culture» istituto dal senatore alla cultura Klaus Lederer per rimarcare l’importanza del clubbing nell’immagine, nella cultura e – ancora – nell’economia della capitale povera ma sexy™. Simili investiture portano con sé un retrogusto duplice: da una parte, c’è il riconoscimento per un mondo che ha profondamente ridisegnato l’identità berlinese, e che da lungo tempo non può essere semplicemente ridotto a sbraco frivolo a uso e consumo di giovani debosciati – anche perché l’età media dei frequentatori di club si aggira ormai attorno ai trenta-quarant’anni. Dall’altra, sempre più udibili si fanno i lugubri rintocchi della campana a morto: sappiamo bene come la legittimazione da parte della politica ufficiale equivalga il più delle volte alla normalizzazione e al conseguente deperimento di fenomeni un tempo vivi e vitali. In questo senso, al di là di necessità economiche e sostegni fiscali, suggerire che andare in un club sia un po’ come andare a teatro è l’involontaria ammissione di una nemmeno troppo velata aspirazione alla rispettabilità, anticamera di lunghi sbadigli e pigri riti (appunto) istituzionali.

Ma soprattutto, a infondere di malinconia iniziative come il Tag Der Clubkultur è l’assai più banale fatto che, be’, quella cultura non esiste più – almeno al momento. «I club di Berlino sono stati particolarmente colpiti dalla pandemia», ha ammesso lo stesso Lederer nella conferenza stampa dell’autunno scorso: «sono stati i primi a chiudere, e probabilmente saranno gli ultimi a riaprire». Visti i presupposti, viene da chiedersi come interpretare il «grazie alla club culture» con cui ancora Lederer ha chiuso il suo discorso. Che tipo di «grazie» è? Di riconoscimento? Di compatimento? Di commiato? Vaccini e riaperture a singhiozzo con posti prenotati non riescono a celare il fatto che la fine della pandemia è ancora lontana: quali e quante saranno le macerie che toccherà contare in attesa del prossimo flagello ancora non lo sappiamo, e insomma, con simili premesse viene il sospetto che il giorno della club culture berlinese finirà per assomigliare a quelle tristi ricorrenze ex post che sono le tante giornate del ricordo sparse per il calendario – più che una festa, una roba da museo.

Di sicuro, un museo lo è già diventato il più celebre club non solo di Berlino, ma del mondo intero: lo scorso settembre, vista l’impossibilità di programmare alcunché, il leggendario/famigerato Berghain – la megastruttura dalle parti della Berlin Ostbahnhof al confine con Friedrichshain, il quartiere più amato da quelli che un tempo avremmo chiamato «giovani hip»  – si è temporaneamente riconvertito in immenso Palazzo delle Esposizioni in stile brutalista-DDR ospitante le opere della Boros Foundation. Di nuovo: club che diventano teatri, club che diventano musei, celebrazioni appositamente sancite sul calendario, feticcio della cultura con la C maiuscola… Per qualcuno, sono i frutti lungamente attesi di un lavoro della talpa che ha fatto della club culture uno dei fenomeni urbani più incisivi (e per paradosso meno indagati) degli ultimi vent’anni. Per altri – o quantomeno per me – sono il prodotto stanco di una crisi che non è data solo dalla chiusura coatta imposta dal Covid, ma dalla definitiva consunzione di un modello.

Installazione all’interno del Berghain, estate 2020 (foto: Maja Hitij)

Certo, visto da quaggiù il caso berlinese è un miraggio lontano che profuma di utopia. Sappiamo bene come, in Italia, se passi una nottata a ballare vieni tuttalpiù trattato come il peggiore dei discotecari, e se dici che di professione fai il dj vali meno dell’animatore di un villaggio vacanze. E però, se ammettiamo che esista qualcosa come una «club culture» (ci ritorneremo), dobbiamo provare a osservarla dal di dentro così da individuare casi di studio che ne rivelino linguaggi e prospettive. Il clubbing non è un fenomeno geograficamente connotato – al contrario, le sue categorie di riferimento vengono applicate, replicate e adattate indifferentemente dalle latitudini, quantomeno in Europa. In questo senso, che Berlino sia la capitale di un’intera industria culturale per sua natura transnazionale è difficilmente smentibile: non c’entra solo il fatto che, almeno fino a due anni fa, il sabato mattina frotte di italiani (e spagnoli, e francesi, e danesi, ecc. ecc. ecc.) si imbarcassero su un volo Air Berlin al preciso scopo di mettersi due ore dopo in fila davanti al Berghain. C’entra soprattutto il fatto che, dalla sua posizione di avanguardia nel determinare tendenze e processi (siano essi estetici, politici, antropologici o che so io), Berlino fornisce di senso una «cultura» che altrimenti rimarrebbe curiosamente a corto di parole d’ordine e codici condivisi.

Per anni il modello Berlino, da molti punti di vista irreplicabile, è stato riprodotto con più o meno successo nelle tante appendici di quella cultura che sono i singoli club sparsi per il continente. Qualche volta, i tentativi di emulazione prendono anche pieghe più ambiziose. In Italia spicca il caso di Torino, la città che più di tutte, negli ultimi quindici anni, ha provato a presentarsi come capitale della club culture italiana, alimentando a più non posso una narrazione perennemente in bilico tra disperata reinvenzione dell’identità locale, marketing territoriale e (auto)allucinazione. Anche Torino ha una sua Club Commission, il cui obiettivo è (citazione testuale) «costruire meccanismi di movida più consapevole e colta» in un rapporto con le istituzioni non esattamente lineare. Come la sua omologa berlinese, la Club Commission torinese insiste molto sul valore prodotto da quella che in gergo viene chiamata night economy, continuamente sovrapponendo «portato culturale» e monetizzazione delle risorse locali, secondo l’ormai classico slogan «la cultura paga».

Ancora a Torino, alla Club Commision si accompagna il lavoro di impronta più marcatamente culturale portato avanti da Club Futuro, il cui obiettivo è «costruire il futuro della notte e dei club partendo dalle pratiche virtuose di tutto il mondo». Nel gennaio 2020 – subito prima dello sbarco ufficiale della pandemia in Italia – Club Futuro organizzò un ciclo di incontri al Circolo del Design in cui le suddette pratiche virtuose venivano analizzate attraverso una serie di presentazioni, workshop e dibattiti. Mi è capitato di assistere a un paio di questi incontri ed era tutto molto interessante: a essere presentati erano alcuni esempi provenienti da varie realtà sparse tra l’Italia e il resto d’Europa, tutti orientati a sottolineare come il club possa finalmente diventare quel safe space in cui chiunque può essere libero di lasciarsi andare senza provocare danni a se stesso, agli altri e persino al pianeta. E quindi: riduzione dell’impronta ecologica (club a basso impatto ambientale, no bicchieri di plastica, eventi sostenibili ecc.); rapporto con le sostanze (riduzione del danno, informazioni sulle varie droghe); questioni di genere (a partire dall’annosa diatriba su come demaschilizzare un ambiente in cui molestie, comportamenti da macho e simili sono da sempre una piaga); e via di questo passo. Ad ascoltare le testimonianze sul palco, ero sinceramente colpito dalla dedizione con cui organizzatori e promoter individuavano nello spazio del club un viatico alla costruzione di un mondo più inclusivo e consapevole. Non c’era un singolo tema, tra quelli presentati, con cui non fossi d’accordo e che non ritenessi cruciale – e insomma, se la club culture era questa, evviva la club culture!

Federico Nejrotti di Che Fare? all’incontro organizzato da Club Futuro al Circolo del Design di Torino, gennaio 2020

Dichiaratamente ispirati al modello Berlino, progetti come Club Futuro rappresentano la punta più avanzata di un mondo che, da qualche tempo, ha cominciato a interrogarsi su come estirpare quei comportamenti tossici – sessismo, mani sul culo, commenti omofobi, testosterone esibito ecc. – che rovinano l’atmosfera della festa e rischiano di trasformare il club in un ambiente spiacevole specie a tarda notte, quando l’effetto di droga & alcol sale e la pista da ballo si riempie di soggetti «difficilmente controllabili». Il quesito da cui parte Club Futuro è: «Come immagini i club del futuro?» – una domanda che in questo momento, coi locali in attesa di riaprire e le danze interrotte, si tinge di sfumature cariche al contempo di ansia e speranza. Per molti, anziché preludio alla musealizzazione sottovetro, il reset forzato imposto dal Covid può essere l’occasione per accelerare le tendenze virtuose timidamente innescate prima della pandemia, così da ritrovarsi alla riapertura dei locali in un ambiente più sano. Nella stessa chiave, qualche tempo fa la storica testata DJ Mag ha provato a immaginarsi un club ideale in cui «chiunque sarà libero di ballare, sentirsi benvenuto, al sicuro e pienamente se stesso». Si chiama Club Utopia e si trova «sulla cima di una collina di una comune anarchica». Una navetta eco-friendly con capolinea in città vi porterà direttamente all’ingresso del club, dove «i muri sono coperti di piante e l’aria profuma di frangipane». Nei weekend, l’entrata costa «30 dollari se sei un maschio bianco etero cis, 15 dollari per donne e persone non binarie, gratis per persone trans e di colore». Accedere al club però non è facile: per scongiurare possibili bad vibes, l’ingresso è riservato ai possessori di una membership card, ottenibile solo a patto che a presentarvi siano altri tre membri già iscritti al club – dopodiché, viene richiesto un periodo di volontariato presso l’ente di beneficenza collegato.

I nobili intenti di Club Utopia sono palesi. E però, per quanto incontestabili, ammetto che mi hanno provocato una curiosa forma di dissociazione mista a straniamento. È la stessa sensazione che, in effetti, ho provato alla fine degli incontri organizzati lo scorso anno da Club Futuro. Già al Circolo del Design di Torino, più gli interventi si susseguivano, più il mondo dei club finiva involontariamente per assomigliare a una specie di esperimento da laboratorio in cui ogni singola ombra di imprevisto veniva neutralizzata a monte: da spazi sicuri, i club diventavano ambienti sterili in cui attuare codici di comportamento tanto irreprensibili quanto normati da una specie di perfetto galateo woke – tutto condivisibile sulla carta, eppure tutto come inquinato da una certa pedanteria dal sapore di accademia. Comportamenti «sani» e atteggiamenti «non tossici» venivano performati anziché essere introiettati in un più ampio sistema di codici in divenire. Parole come rischio, conflitto, desiderio, trasformazione, erano rigorosamente messe al bando, sacrificate in nome di un irenismo idilliaco e dolciastramente pacificato.

E poi, una simile insistenza sul set di norme e regole da seguire per la costruzione di un club perfetto mi pareva reggere su una contraddizione: se hai tanto bisogno di ribadire quali comportamenti adottare per rendere piacevole un dato ambiente, vuol dire che, di suo, quell’ambiente non è, be’… sano. All’incontro al Circolo del Design, più volte è emerso come il monitoraggio dall’alto delle abitudini del pubblico e l’attenzione per i comportamenti inscenati sulla pista da ballo erano in qualche modo un male necessario – come se, lasciati a loro stessi, i frequentatori dei club fossero naturalmente inclini ad atteggiamenti riprovevoli. Il che, come sa chiunque abbia mai messo piede in un club, è perfettamente vero. La posizione di esperimenti immaginari quali Club Utopia e progetti come Club Futuro è ineccepibile: tutt* abbiamo diritto al ballo, tutt* abbiamo diritto al divertimento, facciamo sì che chiunque possa goderne senza subire conseguenze sgradevoli e comportamenti predatori. Per l’ennesima volta: niente che non sia meno che sacrosanto. Solo che a un certo punto viene da domandarsi: siamo sicuri che sia proprio il club lo spazio dove ribadire il principio inviolabile del diritto al godimento?

Cos’è la club culture? Nessuno lo sa. Per un giornalista che il clubbing l’ha visto crescere come Christian Zingales, semplicemente non esiste. Per i timorati della domenica, è un ricettacolo di abitudini scandalose, perversioni in libera uscita, droga e musica assordante. Per chi i club li frequenta, è più o meno lo stesso – solo che è anche divertente. Per le masse di maschi arrapati che il sabato sera si mettono in tiro, andare in un club è l’occasione per rimorchiare, pippare speed & coca, dimenarsi al suono di qualsiasi ritmo provenga dalla console e – se va male – scatenare una rissa. Idem per le loro controparti femminili, quelle che in Inghilterra venivano sprezzantemente chiamate «Techno Traceys», le lumpen perennemente invisibilizzate dei weekend danzerecci. All’opposto, per ricercatori come Enrico Petrilli, autore del recente Notti tossiche, il club è «uno spazio in cui mettere in atto un complesso processo di conoscenza carnale, opposta all’imperativo normalizzante della nostra società post-disciplinare» e in cui, nei casi più fortunati, «anche le soggettività non conformi possono finalmente esprimersi in uno spazio sicuro», secondo la medesima prospettiva safe a cui mirano le pratiche virtuose di Club Futuro.

Le origini della club culture possono essere fatte risalire ai locali yé-yé degli anni Sessanta, o all’epopea newyorchese che negli anni Settanta porta dal Loft al Paradise Garage, o alle discoteche alternative nell’Europa degli anni Ottanta: in ciascuno di questi passaggi, troviamo tratti comuni e indizi di quello che verrà. Ma in generale, come anche Petrilli sottolinea, è comunemente accettato che l’attuale club culture sia una filiazione diretta della cultura rave di fine Novecento, quella dei grandi raduni illegali a suon di techno. Specie negli anni Novanta, i rave sancirono l’avvento di una terza via che svincolava la cultura del ballo sia dallo spazio della discoteca che da quello dei piccoli ritrovi per clientele selezionate. Se la discoteca era costosa e le sue selezioni musicali non si facevano remore di suonare il più commerciali possibili, i rave erano economici (o addirittura gratis) e la musica suonata dai dj aveva un più marcato piglio underground. Se ritrovi come il Loft erano esclusiva di un’intima cerchia di scenesters e appartenenti al jet set, nei rave l’accesso era garantito a chiunque, senza distinzione di genere, classe, età, provenienza (e senza dover sottostare alle rigide regole del dress code).

I rave ampliarono a dismisura la platea della danza e imposero il ballo come un’attività trasversale, di massa, colonna portante delle abitudini settimanali di tutta una generazione. Secondo la più prevedibile traiettoria di qualsiasi sottocultura, il loro successo ne decretò anche la fine, e già al tramonto degli anni Novanta la cultura rave arrivò alla sua fase terminale. Abbandonate fabbriche in disuso e pratiche illegaliste, il (ehm…) popolo della notte fu quindi costretto a trovare rifugio nel più regolare recinto di locali con licenza nel cuore della città – spazi che in effetti erano sempre esistiti, ma che l’eredità rave infuse di nuovo pubblico, nuovi contenuti, nuove musiche, nonché un nuovo rapporto con le droghe.

Rave al centro sociale Forte Prenestino, 1994

Il continuum tra cultura rave – orgogliosamente libidinale e squisitamente politica, sebbene in senso lato – e club culture anni Duemila è esplicitamente ribadito da posizioni come quelle di Petrilli, che non si accontentano di ridurre lo spazio della festa e della danza a mero intrattenimento, ma lo caricano di contenuti (sperimentazione delle sostanze, emancipazione dei corpi, edonismo conscious) storicamente di pertinenza del cosiddetto pensiero radicale, in un richiamo diretto a quando occupare un capannone e ballare tutta la notte al ritmo di techno diventava il pretesto per tirare in causa concettose disamine foucaultiane, manifesti cyborg, e inevitabili sproloqui sulle «zone temporaneamente autonome».

In Italia, a incarnare in maniera che più eclatante non si può il passaggio tra radicalità rave e corrispettivo clubbing è una figura come il teorico/organizzatore/agitatore culturale/attivista LGBTQ+ Francesco Macarone Palmieri in arte Warbear, il cui percorso ha davvero il sapore di una parabola lunga trent’anni: nei primi anni Novanta fu una delle anime della scena illegal rave romana, direttamente collegata a centri sociali occupati quali Spaziokamino e Forte Prenestino; di quel percorso è testimonianza il tuttora fondamentale Free Party. Technoanomia per delinquenza giovanile (Meltemi, 2002), uno dei pochi saggi a restituire dal di dentro il sapore di un’era, i cui capitoli portano titoli come «Abbandono», «La molteplicità dell’uno» e «Edonisti con una causa» che, immagino, a un Petrilli piacerebbero molto. Più di recente, Palmieri ha ricordato l’atmosfera dei rave illegali di inizi/metà anni Novanta in Rave in Italy, la bella raccolta curata da Pablito El Drito. Vale la pena citare un passaggio del suo intervento, perché ben racconta quale fosse la filosofia a tutti gli effetti iperinclusiva della cultura rave originaria:

«Il tipo di sottoproletariato che arriva ai rave illegali romani si rifaceva a immaginari che erano proto-skinhead. Si vestivano con bomber, si rasavano i capelli, calzavano Ranger Boots, erano affascinati dallo scenario post-muro di Berlino. Vivevano l’eco mediatico del neonazismo proveniente dall’ex Germania dell’Est. Spesso era gente che non aveva strumenti interpretativi, ma non voglio generalizzare. […] Questi ragazzi avevano lo scudetto dell’Italia cucito sul bomber [ai tempi, un diffuso distintivo in odor di fascisteria, ndr]. Alle sottoscrizioni gli organizzatori dicevano loro: “Se vuoi entrare sei il benvenuto”. Era gente che nei centri sociali era vista molto male. Nei rave invece gli veniva detto di scucirsi lo scudetto dell’Italia, perché si rifiutava il nazionalismo, oppure di girarsi il bomber al contrario. Quindi, specialmente se ti arrampicavi da qualche parte e prendevi un punto di vista esterno, vedevi questi mucchi di gente che diventavano macchie arancioni che si muovevano in giro per il rave [arancione era l’inconfondibile colore dell’interno del bomber, all’epoca considerato un caratteristico capo d’abbigliamento naziskin, ndr]. Prima erano tutti raggruppati, poi piano piano, di rave in rave, la macchia si apriva e si mescolava sempre più. Quindi capivi che c’era un certo tipo di trasformazione politica e del tessuto urbano.»

Partecipare alla festa diventava insomma un rito trasformativo il cui esito veniva tenacemente negoziato sulla pista da ballo; in un’intervista rilasciata al sottoscritto qualche anno fa, il Duka (memoria storica dell’underground romano) ribadisce ulteriormente quale fosse l’approccio della vecchia cultura rave nei confronti di «soggettività problematiche» quali coatti di periferia, borgatari fascistoidi e machi lumpen: «Ovviamente qualche tensione si creava, ma per fortuna gente come Francesco [Macarone Palmieri] fece un ottimo lavoro: andava da loro e gli spiegava “guarda, magari è meglio se quella celtica la nascondi. È meglio se mentre balli non fai il saluto romano. Sappi che ci sarà gente che fa sesso, maschi che si baciano, ma tu non ti scandalizzare”. Così quelli la volta dopo già sapevano come comportarsi». In altri termini, non si trattava solo di sospendere «l’imperativo normalizzante della nostra società post-disciplinare», ma di allargare ed estendere gli effetti di quella sospensione a più persone possibili, secondo il tipico moto del contagio.

Nel 2003, conclusasi la stagione d’oro dei rave, Palmieri si trasferisce invece al Metaverso, un piccolo club sull’allora imperante modello londinese nel cuore di Testaccio, il quartiere (all’epoca) popolare e orgogliosamente working class a due passi dal centro città. Qui – assieme a Valeria Nikki ed Enrico «Infidel» D’Elia – inventa Phag Off, una specie di format in cui l’eredità rave viene fatta incontrare/scontrare in maniera più esplicita con la cultura queer. Le serate di Phag Off erano un concentrato gioioso di «edonismo con una causa» e sessualità vissuta: i comportamenti «estremi» erano la norma, ma – fedele all’imprinting risolutamente orizzontale della cultura rave – Palmieri si rifiutò sempre di prevedere qualsivoglia selezione all’ingresso: tutti erano benvenuti, indifferentemente da preferenze sessuali, provenienza e bagaglio culturale. Chiaramente, i siparietti surreali non mancavano: nella mia memoria, resterà per sempre indelebile l’immagine di una giovane, ignara studentessa modello Roma Bene che, uscita dal bagno, si ritrovò esterrefatta a contemplare un fist fucking inscenato dinanzi al bacone del bar da due esponenti di non so quale Leather Club; ma a garantire la serenità generale – e a scongiurare degenerazioni di sorta – ci pensava un’atmosfera di festosa, spontanea condivisione, oltre che le dimensioni ridotte del locale.

Uno degli ultimi Phag Off, 2003-2008

Anche per questo, Phag Off diventò una delle feste/serate più famose della città: arrivarono quindi le file interminabili e un senso d’aspettativa che, col tempo, incrinò per sempre la gaia spontaneità degli inizi. Nel frattempo, anche grazie al Metaverso (e ad altri piccoli club di zona, molti dei quali incarnazione del passaggio tra fase rave/illegalista e fase clubbing/legale), Testaccio divenne il primo, pompatissimo quartiere dei divertimenti notturni di Roma, le sue geografie interne radicalmente sconvolte da un’esorbitante presenza di club e locali. La gentrificazione seguì a ruota e fu immediata, completamente lasciata a se stessa e priva di qualsiasi strategia che non fosse l’interesse privato. Nella traiettoria becera tipica daa capitale, la qualità della proposta calò a picco e, già entro la fine degli anni Zero, tutto quello che restava a Testaccio era una fila di locali di merda e una quantità di annunci immobiliari a prezzo triplicato. Adesso è un quartiere morto ma anche molto esclusivo e chic. Missione compiuta.

A quel punto, Palmieri abbandonò Roma e si trasferì nella città che invece una strategia sembrava averla, avendo precocemente capito che la valorizzazione del contenuto è la migliore garanzia perché i giri della macchina restino alti («la cultura paga»): Berlino. Nella capitale mondiale della club culture, Palmieri diede quindi vita a Gegen, evento a cadenza bimestrale tenuto al KitKat, assieme al Berghain il club di Berlino dalla fama più (di nuovo) estrema. Grazie a Gegen, Palmieri è diventato una delle anime della club scene più famosa del globo: eppure, all’esperienza tedesca l’ex ideologo-dj di Phag Off ha dedicato un saggio impietoso come Tanz Berlin. Oltre il muro del clubbing, in cui il modello berlinese viene veemente messo in discussione. Nelle sue parole, la club culture celebrata da locali e istituzioni – con la sua enfasi sull’inclusione, sulla multiculturalità e sui diritti di tutt* – altro non è che un abbaglio che nasconde biechi processi di sfruttamento del territorio: «l’idea della diversità come ricchezza viene creata ad hoc da enti multinazionali che muovono la politica usando multiculturalismo e diritti sociali come ottimo strumento di marketizzazione e vendita della città ad un capitale cosmopolita», racconta in un’intervista; in particolare «l’identità gay e lesbica diventa un ottimo strumento di mercato perché Queers entertain better». In altri termini, Friedrichschein non è mica Testaccio: lì le cose le fanno per bene.

La parabola la conosciamo a memoria: mentre negli spazi sicuri del club prosegue la danza, il cattivissimo Capitale (sempre lui) procede con gli eterni riti della sussunzione e della messa a profitto; nell’imperante economia della reputazione, avere una buona fama è tutto – specie se questa fama si rivolge alle fette di mercato più inclini ai consumi culturali, l’agognato perno attorno a cui ruotano le strategie di brand indifferentemente appartenenti al mondo della ristorazione, dell’hi-tech, dell’immobiliare, del fashion, insomma, di tutto quello che vi pare. Trenta-quarantenni dai gusti cosmopoliti e di buona cultura, aperti alle novità e capaci di indirizzare coi loro gusti i comportamenti di fette crescenti di consumatori: è la definizione che trovi nelle brossure di qualsiasi ufficio marketing, e più in generale è l’ideale urbano inseguito da tutte le maggiori metropoli con aspirazioni alpha – via i rozzi, via i parassiti, via chi la città «non se la può permettere»; dentro solo prosumer, influencer e connoisseur (con decente capacità di spesa, ovvio).

Che l’inclusività inseguita all’interno dello spazio sicuro del club diventi a sua volta il vettore di più grandi processi di esclusione, possiamo attribuirlo a quelle classiche dinamiche di deterritorializzazione/riterritorializzazione di cui notoriamente si discetta al bancone di un qualsiasi emulo del Panorama Bar mentre paziente aspetti che l’MD ti salga (o più probabilmente, dopo che l’MD è salito). Più problematico, però, è quando tali dinamiche riverberano nella stessa nozione di club quale safe space. In questo senso, il caso paradigmatico è proprio quello del Berghain, celeberrimo – tra le mille cose – per la selezione all’ingresso che trasforma l’entrata nel megaclub berlinese in un’imprevedibile lotteria nelle mani del temutissimo Sven Marquardt, il buttafuori più famoso del pianeta.

Stando alla leggenda, entrare al Berghain è notoriamente difficile: dopo ore di attesa in fila, arrivi davanti a Sven; questo ti guarda al volo e – non è mai chiaro in base a quale criterio – stabilisce «tu sì, tu no». Su quali siano le tattiche migliori perché l’arcigno buttafuori ti lasci passare sono imperversate per anni le teorie più fantasiose: vestirsi di nero, non presentarsi come coppia etero, non mostrarsi troppo allegri o su di giri, saper parlare tedesco… In realtà, la door policy del più importante club del mondo regge su un equilibrio sottile: l’obiettivo è scongiurare situazioni che possano mandare in frantumi l’atmosfera di festosa diversità di un locale che, come il già citato KitKat, affonda le radici nella più iconoclasta, promiscua e libertina cultura queer. Da una parte, per qualcuno le sue dark room e le favoleggiate orge all’interno dei bagni potrebbero essere troppo. Dall’altra, le soggettività non conformi hanno diritto di godersi i loro spazi senza subire le interdizioni a cui già sono sottoposte nella vita di tutti i giorni. Nelle parole di Salvatore Simioli, autore di Berghain. Per un’architettura del perforante, «non si tratta di salvaguardare la privacy delle persone come avveniva nei salotti borghesi dell’Ottocento, ma piuttosto di dare al desiderio la velocità assoluta di cui ha bisogno per sparire agli occhi dell’apparato di cattura e innescare un divenire perpetuo». In altre parole, il Berghain è il combattivo prototipo di esperimenti d’immaginazione come Club Utopia: un ambiente in cui persone costantemente marginalizzate dal resto della società possono rivendicare quel diritto al godimento da sempre riservato alla maggioranza privilegiata.

In coda davanti al tempio

Al tempo stesso, l’arbitraria e imprevedibile selezione all’ingresso ha ammantato il Berghain di una mistica grottesca di pura esclusività. Prendiamo questo racconto del 2014 di un ragazzo che «ce l’ha fatta» (insomma, ha ottenuto il lasciapassare da Sven); l’inizio è talmente carico di trepidazione da sfociare nel tragicomico (i corsivi sono miei): «La fila è ordinata, niente spinte, la gente è terribilmente seria, concentrata, in preda all’ansia. Nessuno proferisce parola, questione di vita o di morte. Probabilmente avranno letto su internet che non fare casino durante l’attesa aiuta». Viene da chiedersi perché sottoporsi a un simile supplizio per un banale – e si spera divertente – party in un club. La risposta arriva subito dopo, quando – dopo ore di penitenza all’interno della fila fuori dal locale – il nostro riesce finalmente a varcare la soglia del tempio: «è come fare parte di una setta, c’è un’eterna aura di segreto. Tutti se la godono, consapevoli del fatto che la maggior parte non può. Può soltanto immaginare, e limitarsi a fare la fila». La conclusione è perentoria: «Ho realizzato l’enorme utilità della selezione, e ho scoperto che la maggior parte delle persone che frequentano il club la condividono appieno, ne vanno fieri, perché così tutte le persone inadatte non entrano».

Questo lessico, fatto di «persone inadatte» che al limite «possono limitarsi a fare la fila» (con sottinteso «suca») non ha nulla a che vedere col «divenire perpetuo» del «desiderio» che così «sfugge agli apparati di cattura». È puro elitismo dalle sfumature inquietanti (un’espressione come «persone inadatte» è illuminante, coi suoi richiami involontari alla peggiore sloganistica razzista, eugenetica e abilista). Per Enrico Petrilli, il Berghain, è stato «un avamposto per socializzare un pubblico sempre più ampio a forme e pratiche del clubbing che in passato erano esclusiva di soggettività queer». Di conseguenza, «non è un gioco in cui tutti possono giocare; per accedervi devi dimostrare di saperti comportare». Il che però porta dritto a una curiosa aporia: se non vieni accettato nel gioco, come puoi dimostrare di saperti comportare? (La risposta di Petrilli, appositamente interrogato a riguardo per telefono, è: «Vatti a divertire in un altro club in cui entrare è più facile e dove chiunque può fare gavetta, imparando a non cagare il cazzo a chi ti sta attorno»: in sostanza, una sorta di apprendistato che un giorno, se tutto va bene, ti condurrà alla trionfale entrata «per merito» nella Serie A dei club che contano).

È interessante come proprio per Francesco Macarone Palmieri la selezione del Berghain sia «la più democratica che esista»: «è una questione di groove e i türsteher del Berghain hanno imparato a respirarlo nella mente delle persone, attraverso un contatto empatico che dura l’arco di un respiro. E questo vale per Beyoncé come per il coatto del Brandeburgo. Se Felix Da Housecat non ha il groove non entra. Se il proletario di Schöneweide ce l’ha, entra. Punto». Io mi fido ciecamente di Palmieri e sono felice per il proletario di Schöneweide, ma mi domando: come si è passati dalle pazienti spiegazioni ai coatti con bomber e scudetto dell’Italia alla divinazione su una qualità fantasmatica qual è «il groove»? Le belle immagini sulle macchie arancioni che, festa dopo festa, si aprono e si sfrangiano, recedono in lontananza per lasciare spazio a una specie di inafferrabile ordine alchemico-iniziatico. Per Enrico Petrilli, «il discrimine è l’apprendimento di un codice estetico e comportamentale. Se quel codice non lo conosci, è giusto che tu ne stia fuori»: in sostanza, l’alchimia consiste nel capitale culturale condiviso. Ma il capitale culturale non è innato e soprattutto non è equamente distribuito: come abbiamo detto, funzione della vecchia cultura rave era (anche) instillare processi trasformativi a partire dall’incontro-scontro con chi quei codici non li conosce, non li maneggia, o non ha avuto modo di precedentemente incrociarli. La componente di rischio – per quanto calcolato – non era solo prevista, ma necessaria affinché lo spirito della festa acquisisse prospettiva e senso. Possibile che adesso sia il «contatto empatico che dura l’arco di un respiro» a determinare l’accesso a una cultura che in questo modo instaura una barriera d’ingresso insormontabile per chi, rimbalzato all’ingresso dell’esclusiva cerchia dei connoisseur, resterà perennemente condannato dallo stigma di «persona inadatta»?

Questi sono i motivi per cui – ebbene sì, è arrivato il momento di confessarlo – al Berghain mi sono sempre rifiutato di andarci. Non ho nulla da ridire sulle ragioni che spingono Sven e soci alle loro politiche di inclusione/esclusione, e a dire il vero penso che qualsiasi comunità abbia il diritto di stabilirsi da sé le norme che più le aggradano – specie se di comunità marginalizzata si tratta. Non ho nemmeno dubbi sull’eccezionalità delle sue nottate e dei suoi eventi. Alcune tra le mie persone più care ne sono state fino a ieri tra le più affezionate frequentatrici, e qualche amico al Berghain ci ha pure suonato. Arrivati a questo punto, non so nemmeno più quanti racconti estasiati ho collezionato sulle folli notti di Ostbahnhof. Credo che lì dentro mi divertirei, o almeno mi piace pensarlo. È dopotutto il club più importante del mondo, forse della storia. Che non abbia nemmeno mai provato a sfidare la sorte, prenotando un volo A/R dall’Italia (quando ancora si poteva) al solo scopo di incrociare lo sguardo di Sven, è – immagino – quasi inammissibile. Però, che volete farci: Berlino è lontana, i voli costano, e vai a capire se arrivo lì e alla fine si scopre che il groove non ce l’ho – poi va a finire che mi ritrovo con Felix Da Housecat a dirottare su un locale di seconda fascia, mentre dietro le porte del Berghain ci sta Enrico Petrilli che si dà alla pazza gioia, e allora sai che invidia.  

Ma davvero, non è il Berghain in sé il punto. Sono i valori che si coagulano attorno alla sua presenza, così centrali nella definizione di quella cosa che ancora chiamiamo club culture: la dimensione ansiogena/punitiva della fila/penitenza; l’aura di mistero, segretezza e inavvicinabilità; il gigantismo degli spazi, condizione irrinunciabile affinché il desiderio prenda la giusta «velocità»; la mistica insopportabile del «la maggior parte non può/via chi non se lo può permettere». Lo stesso Francesco Macarone Palmieri ammette che «i rimbalzi del Berghain contribuiscono a una messa in produzione dell’hype che tale meccanismo crea sul piano dell’esclusività». E per Salvatore Simioli, «il fatto che non sembri esserci alcun criterio razionale di selezione alla porta non ha fatto altro che contribuire ad accrescerne il mito».

Hype, mito, aura, groove: simili qualità, per definizione insondabili, sono l’ABC della più spietata economia reputazionale. L’eccezionalità del Berghain – e del modello Berlino nel suo complesso – sta anche nella limpidezza (o forse precisione teutonica?) con cui vengono dispiegati, legittimati e infine istituzionalizzati alcuni tra i più feroci e al contempo sottili meccanismi di esclusione che, inconsapevolmente o meno che sia, contaminano alla radice la cosmopolita ed emancipatrice cultura nata dalle ceneri dell’inclusività rave. Da rito trasformativo, lo spazio della festa, dell’evento, del party, precipita in una dimensione che nel migliore dei casi rimane circoscritta nello «spazio sicuro» del club, nel peggiore diventa puro rito performativo a uso e consumo degli happy few che il codice lo conoscono; una volta «Senza codice sei fregato» era il mantra adottato dai technognostici della Silicon Valley nelle loro fantasie libertariane; adesso è il preoccupato mormorio che si diffonde nella fila fuori dalle porte di un club – e in entrambi i casi a essere ribadito, confermato e rilanciato è il mito escludente della soglia, del confine, del limite che netto separa «persone adatte» e non.

Nel frattempo, la lunga e sempre visibilissima mano del mercato trasforma la presenza o meno del club – con annessa «cultura» – in asset, brand, strumento per il posizionamento nella competizione tra metropoli. Il clubbing dopotutto è una cultura e al contempo un’industria – col suo target, le sue economie, le sue complicità, i suoi mercati. Se il modello Berlino resta irraggiungibile (trattandosi forse del primo, maturo esempio di club city, in uno strano parallelismo con quando, ai tempi dell’economia materiale, l’Occidente si dotava di motor city monocolturali quali Detroit e la stessa Torino), nessun quartiere gentrificato d’Europa può legittimamente aspirare alle luci della ribalta speculativa senza una nightlife degna di questo nome. Negli ultimi mesi, la sospensione forzata della pandemia ha portato a una prima, parziale discussione sulla sostenibilità o meno dei modelli urbani che da vent’anni a questa parte governano le nostre città. Negli ambienti della club culture, ci si è limitati a ribadire la «valenza culturale» del proprio piccolo mondo di riferimento, ma è curioso come quasi mai (a meno che io sappia) si sia ragionato su quanto tale mondo abbia contribuito allo stesso modello che a parole viene rigettato. Soprattutto, manca un ragionamento su quanto i valori di un mondo e dell’altro siano, se non coincidenti, perversamente sovrapponibili – a cominciare da un lessico in cui parole come «inclusività» e «apertura» rischiano spesso di scivolare in un’operazione di cosmesi che finisce per legittimare gli effetti nocivi prodotti dall’ansia da prestazione, dalla continua autopromozione a cui ti obbliga l’hype, dalla perenne, affannosa rincorsa a quel senso di appartenenza che ti dà l’essere ammessi o meno alla cerchia esclusiva delle «persone adatte».

In Italia, discettare di musealizzazione dei club, sterilizzazione del desiderio e criticità di un mondo regolato da soffi di un respiro e membership card, può apparire surreale. Qui da noi, non solo la club culture non ha mai conosciuto né tutele né appoggi istituzionali, ma le stesse pratiche virtuose di cui sono esempio esperimenti per qualcuno caricaturali come Club Utopia, sono un traguardo ancora lontano: voglio dire, c’è un che di ozioso nel battibeccare sulla natura puramente performativa dell’irreprensibilità woke, quando intanto la mano sul culo è sempre lì. Ma ugualmente, adesso che i club sono chiusi, è forse il momento di chiedersi quale sarà la loro eredità nel momento in cui riapriranno, se la loro natura – sempre e comunque commerciale, il che qualcosa vorrà pur dire – può aprirsi ad altre ipotesi che non siano la cristallizzazione di un modello tanto di successo quanto oramai esausto. E poi: qual è lo stato di salute di una cultura composta in larghissima parte da soggetti ultratrentenni e con pochissimo ricambio generazionale, quanto i discorsi sulla «emancipazione dei corpi» siano effettivi o tuttalpiù mesta retorica accademica-autoconsolatoria, nonché quale siano i limiti dell’equiparazione tra club e safe space nell’effettiva lotta a quei comportamenti predatori che tracimano ben oltre il recinto delle «notti tossiche».

Se qualcosa la vecchia cultura rave l’aveva ipotizzato, era che il massimo della partecipazione potesse convivere col massimo dell’emancipazione, a patto di riconoscere che simili processi poggiano comunque su un movimento instancabile di negoziazione e all’occorrenza conflitto. E in esperimenti come Phag Off, la pista da ballo diventava il terreno non neutrale in cui veniva inscenato un confronto tra campi di forza spesso divergenti, secondo una traiettoria in continuo divenire i cui effetti (questa era la speranza) avrebbero sversato anche a weekend concluso. Ma si tratta di esperienze risalenti ad almeno vent’anni fa: volgere lo sguardo all’indietro in cerca di una purezza mai esistita, significherebbe cedere a una nostalgia ben più tossica di qualsiasi commento fuori luogo della Techno Tracey di turno. Quella cultura è morta, passata, adieu, RIP. Forse, a diciassette anni dalla nascita del Berghain e a un anno e mezzo dalla chiusura dei locali, è il momento di domandarsi se non sia il caso di dichiarare morta pure la sua erede – o quantomeno se non sia tempo di ucciderla, darle il colpo di grazia, ballare sul suo cadavere e finalmente passare ad altro.

Il presente articolo è un’anticipazione da Spazio Calmo: musica architettura corpia cura di Supersento. Il volume, contenente le fotografie di Gabriele Daccardi, Antonio La Grotta e Stefano Mattea, ospita i testi di Claudia D’Alonzo, Elisabetta Donati De Conti, Valerio Mattioli ed Enrico Petrilli.