Pedagogia Hip Hop

Piccola introduzione alla «hip hop based education» e a come sta aggiornando il concetto di «pedagogia degli oppressi»

Nel carcere minorile Cesare Beccaria di Milano i giovanissimi detenuti sono invitati a scrivere dei testi rap, a registrarli e infine e a realizzare un vero e proprio disco. Questo processo creativo è forse l’unico momento in cui i ragazzi sono spinti a pensare, creare, divertirsi e crescere senza essere, né soprattutto sentirsi, costantemente osservati o giudicati dallo sguardo adulto, sia esso quello delle guardie o dei «tradizionali» educatori esterni. Nel volume Pedagogia hip-hop. Gioco, esperienza, resistenza, Davide Fant – educatore, formatore e ricercatore – racconta di come le ore del laboratorio condotto da Fabrizio Bruno portino i ragazzi ad affrontare, tramite la fruizione condivisa di tale esperienza con altri coetanei, la costruzione di una nuova consapevolezza di se stessi. Scrivere individualmente i testi di una canzone e in seguito interpretarli di fronte agli altri compagni diventa, in questo contesto, un intimo momento di crescita dove al ragazzo non rimane che riflettere, seriamente e con leggerezza, sulla propria condizione attuale. Immaginando, tra le rime, una realtà futura più prospera. Un po’ come lo è stato per Malcolm X e Tupac Shakur o per i detenuti nelle scene di Slam di Marc Levin, osserva Fant stesso.

Pedagogia hip-hop è uno dei rarissimi testi in Italia, assieme a pochi altri nella letteratura anglofona (quantomeno formalmente) a considerare l’hip hop non esclusivamente nel contesto a lui più familiare, e cioè la storia della popular music. Dagli anni Settanta ad oggi – e attraverso libri come Rap Attack di David Toop (1984) a Can’t Stop, Won’t Stop di Jeff Chang (2005) – si è parlato e scritto di hip hop in termini sia accademici che giornalistici, soffermandosi perlopiù sull’impatto artistico di canzoni, artisti, eventi, dischi e quant’altro. Ciò che Fant ipotizza invece è una dimensione pedagogica che sappia fare leva sulla diffusione della cultura e dell’estetica hip hop tra i giovani. Riservando al genere la dovuta importanza, al di là della sua legittimità artistica, Fant associa brillantemente l’hip hop alle dinamiche di un approccio educativo e formativo, andando a sottolineare le sue molteplici potenzialità non solo nei contesti sociali più complicati e caratterizzati da carenze culturali o disagio economico, ma anche in quello scolastico convenzionalmente inteso, come le mura di una classe. Va notato come i testi che, come quello di Fant, adottano una simile prospettiva critica sono perlopiù scritti da studiosi e ricercatori provenienti da una formazione pedagogica ed educativa o che, educatori loro stessi, adottano prima il metodo per poi arrivare alla teoria, e non da persone appartenenti agli ambiti accademici strettamente musicali. Applausi ai primi, e che si sveglino i secondi.

Il testo è diviso in tre sezioni principali: «La cultura hip hop», «Pedagogia Hip Hop», e infine «Esperienza». La prima sezione serve a introdurre il contesto culturale e musicale in cui tale genere si è sviluppato: una manciata di pagine viene quindi dedicata all’importanza di Afrika Bambaataa e della sua Universal Zulu Nation, alla decadenza urbana in cui versavano le strade del ghetto di New York durante gli anni Settanta e al senso di comunità concretizzato nell’appartenenza ad una crew locale. Vengono inoltre discussi i «quattro elementi» che in principio caratterizzavano il genere, dalla danza ai vinili, dalle rime alle scritte sui muri: il breaking, il DJing, l’MCing e il writing. Una volta rinfrescata la memoria, le successive sezioni considerano le formalità musicali parallelamente a quelle culturali, sociologiche e pedagogiche: lì dove la seconda sezione serve a presentare e districare l’analisi teorica di questo approccio educativo introducendo il lettore anche a una prospettiva internazionale più ampia, l’ultima riporta i frutti, le impressioni e i traguardi della sua attuazione in vari contesti.

Relativo al capitolo conclusivo «Esperienza» è l’esempio riportato nell’introduzione al quale, tra gli altri, si aggiungono il racconto del laboratorio in classe tra storytelling, poesia e scrittura, e l’esperienza in un campo rom a Milano, dove i ragazzi sono stati incoraggiati a lavorare con spray e colori scrivendo il proprio nome, o tag, sul muro. Ciò che è bene tenere a mente e che spesso è lo stesso Fant a rendere palese ogni qualvolta viene riportata un’esperienza di attuazione pratica del metodo, è che i ragazzi coinvolti devono essere messi in una situazione che sia per loro familiare, dove possano vedere l’educatore non più come una noiosissima persona che non ascolta e che proprio per questo giudica, ma piuttosto come un possibile collega (se non altro a livello umano) capace di rispettare l’emotività e la personalità di ognuno, di suggerire, di stimolare.

La copertina di Pedagogia Hip Hop (Carocci 2015)

Remixing Paulo Freire

Tra le pagine di Fant e in egual maniera nei testi internazionali dedicati all’argomento risulta quasi onnipresente, e marcatamente esplicita, l’influenza del lavoro teorico e pratico di Paulo Freire. Qualche cenno biografico: brasiliano di nascita, Freire è stato un pedagogo, pensatore e teorico dell’educazione costantemente attivo politicamente; è conosciuto maggiormente per essere stato l’ideatore e promotore di diversi programmi di alfabetizzazione della classe operaia e degli adulti, dapprima in Brasile e poi in diversi paesi dell’America Latina e nel mondo; è autore di Pedagogia degli oppressi, pubblicato nel 1968, lavoro tanto spesso lodato quanto spesso censurato.

La dimensione liberatoria, la necessità di avere una critica percezione di se stessi e del mondo, e l’obiettivo del riscatto sociale e culturale (dove applicabile) ai quali la pedagogia hip hop fortemente ambisce sono, difatti, nient’altro che riarticolazioni in chiave musicale del concetto di «coscientizzazione» sul quale il pensiero di Freire in larga parte si basa. Coscientizzazione, termine che lo stesso Freire afferma di aver preso in prestito da altri ricercatori e studiosi negli Stati Uniti, sta a indicare un metodo che considera l’educazione come uno strumento capace di formulare e accrescere una conoscenza che sia in primo luogo critica e riflessiva. Freire lo fa subito suo, aggiungendo a questo significato di partenza una prospettiva spiccatamente politica e pedagogica. Minuziosamente elaborato nella prosa di Pedagogia degli oppressi, il concetto è per Freire un’opportunità in più per pensare al metodo educativo come a un metodo capace di accompagnare l’individuo attraverso una sua personale formulazione e approfondimento di una realtà critica lontana dalla situazione «opaca» e «nebulosa» che prima lo avvolgeva, affinché possa lui stesso (ri)scoprirsi ed essere libero, quindi essere. Questo metodo, che Freire definisce «educazione problematizzante», è un processo educativo in cui l’educatore non è più colui che «deposita» informazioni nelle teste dei suoi studenti, i quali in silenzio confusamente assorbono, ma è invece colui che imposta e «genera» il contenuto della lezione attraverso un dibattito paritario con gli studenti stessi. È dunque un metodo che non mira, neanche in minima parte, al tradizionale insegnamento di date, eventi e nomi fine a se stesso, ma che punta invece ad attuare uno scambio di nozioni, concetti e idee che possano poi generare a loro volta ulteriori pensieri e azioni.

L’antologia Schooling Hip Hop curata da Marc Lamont Hill e Emery Petchauer nel 2013

Hip Hop Based Education

Al centro del saggio Critical Hip Hop Pedagogy as a Form of Liberatory Praxis di A. A. Akom c’è la volontà di adottare il pensiero di Freire sull’educazione problematizzante e in particolar modo, come suggerisce il titolo stesso, la prospettiva critica, militante e liberatoria che tale metodo porta con sé. Criticando coloro che credono che l’hip hop sia un’espressione artistica che prende forma esclusivamente fuori dagli spazi scolastici sviluppandosi quindi nelle strade, nei quartieri e nei locali di musica, Akom ribadisce l’importanza e la necessità oggi di una scuola capace di generare un programma di studi in grado di entrare in contatto con le vite degli studenti e che riesca in seguito a farli riflettere e a interrogarsi su tematiche più ampie, come il razzismo e le questioni di razza, il corpus teorico che spesso viene utilizzato per spiegare le dinamiche quotidiane di uno studente di colore, o l’impegno politico. Questo è dovuto non solo data la rilevanza di tale tematiche nelle vite di tutti noi, ma specialmente perché il dibattito sul riscatto sociale e sulle eque opportunità tra bianchi e neri è profondamente radicato nell’andamento storico dell’hip hop stesso. In breve, il metodo proposto da Akom (CHHP) si basa sulla partecipazione attiva degli studenti che analizzano e discutono in classe testi come l’uso specifico di alcune parole in una canzone, materiali audiovisivi, materiali d’archivio, interviste con artisti e persone coinvolte nella scena musicale, e ancora materiale storiografico. E dunque, attraverso questa analisi sociologica della musica hip hop, divengono in grado di riflettere sulle dinamiche di tutti i giorni con maggior consapevolezza.

Se negli Stati Uniti sono già numerosi i ricercatori che promuovono tale metodo, mentre diverse università hanno percepito le potenzialità delle pratiche dell’hip hop inteso come linguaggio culturale oltre che musicale e che offrono agli studenti un percorso di studi in tutto e per tutto concentrato sul genere («Hip Hop based education»), in Italia si deve scavare molto in profondità prima di trovare qualcosa di molto simile in una qualsivoglia istituzione culturale. Nel 2013 è stata pubblicata negli Stati Uniti una raccolta di saggi dal titolo Schooling Hip-Hop: Expanding Hip-Hop Based Education Across the Curriculum in cui i vari contributi presentavano diversi aspetti come l’estetica e la sensibilità dell’hip hop in differenti contesti geografici, le metodologie e le pratiche in diversi contesti scolastici, e le difficoltà relative alla sua attuazione nella relazione tra educatore e allievi. Nel contesto italiano, invece, è ancora una volta lo stesso Fant ad avvolgere con la teoria l’educazione hip hop e a stilare un vero e proprio manifesto che include, tra gli altri, punti come «Appendere come piacere in sé», «L’arte di narrare il mondo», «L’attitudine hacker», infine «Un’attivazione politica ludica e immaginativa». Nove punti che invitano ad accogliere a braccia aperte la ricchezza culturale e storica dell’hip hop come una bussola nell’esplorazione e nella contestualizzazione più ampia di tematiche attuali.

La «Hip Hop Based Education» spiegata dal professor Chris Emdin

Al di là dell’hip hop

L’uso delle pratiche dell’hip hop e del rap nelle scuole e in diversi contesti sociali è chiaramente frutto del fatto che esso è il genere attualmente più diffuso tra i giovani, i quali si rispecchiano nelle rime degli artisti, scelgono un certo tipo di abbigliamento e lo utilizzano come espressione artistica. Nonostante questo sia evidente, bisognerebbe imparare però a non limitarsi all’uso esclusivo di tale genere e proporre invece un utilizzo della metodologia che includa non solo generi musicali familiari per gli studenti ma anche ulteriori pratiche musicali assieme alle culture e contesti sociali dei generi musicali a loro associati: dal folk al pop, dal jazz al metal fino alla musica ambient.

L’utilizzo più ampio di questo approccio educativo è necessario affinché lo studente, spinto nel migliore dei casi da una naturale curiosità, scopra contesti e tematiche a lui sconosciuti e molto spesso inaspettati. Ma grazie alla musica e avendo fatto suo il metodo, che diventa per lo studente una sorta di mappa mentale favorevole allo studio e all’apprendimento, diviene capace di prender parte al dibattito e di contribuire anche quando nuove tematiche vengono proposte per la prima volta in classe, e mantiene attiva tale capacità di far chiarezza e di interagire con la complessità che lo circonda anche una volta suonata la campanella.

A tal proposito, mi piacerebbe chiudere riportando delle ulteriori riflessioni di Fant, che ho avuto modo di contattare direttamente via mail (altre ancora, insieme a materiale di vario genere curato da Fant, sono disponibili qui): «Ogni periodo storico ha strumenti artistici che servono per dare senso al mondo e sollievo, “cura” a chi li pratica o ne è fruitore. Per essere efficaci, questi strumenti devono avere alcune caratteristiche particolarmente sintonizzate con la contemporaneità in cui si sviluppano. Un “linguaggio” appunto in grado di dialogare con il proprio tempo. Credo che l’hip-hop sia un condensato di questi elementi. (…) Credo che nel momento in cui altri generi musicali o forme artistiche possiedano alcune di queste caratteristiche siano altrettanto efficaci: nelle canzoni della tradizione cantautorale si trova come nell’hip-hop la dimensione narrativa e di storytelling biografico, talvolta la protesta sociale; nel punk si trova la protesta sociale; nel punk, come nell’elettronica si trova la stessa dimensione DIY dell’hip-hop; nella techno come nella musica folk la celebrazione della festa e del ballo come momento di socialità “altra” e creazione di territori alternativi; nella musica elettronica l’approccio del dj e la sua libertà di utilizzare campionamenti sonori di ogni tipo, raccolti nella sovrapproduzione di stimoli del mondo attuale, per creare composizioni».

E ancora: «tra 10 o 15 anni, se la società, nei suoi elementi di base rimarrà con caratteristiche sociologiche simili a quella attuale (incontro-scontro di culture, pervasività delle tecnologie, sovrabbondanza informazionale) l’hip-hop (o l’attitudine hiphop) credo rimarrà un approccio fecondo. Potrà forse cambiare lo stile con cui si fa rap, ma la sostanza di fondo rimane la stessa. In questo periodo le cose più interessanti per il discorso che stiamo facendo vengono da una parte dagli Stati Uniti, dove l’hip-hop (anche quello più popolare, anche una certa trap) sta riscoprendo la sua vena sociale e politica all’interno del movimento Black Lives Matter, e in Inghilterra dove personaggi come Kate Tempest o Gaika contaminano l’hip-hop con la sperimentazione elettronica, lo stile caraibico, la poesia slam e l’attitudine punk con testi fortemente riflessivi sulla condizione attuale. Credo che la pedagogia hip-hop possa avere un futuro se, come questi artisti, non è purista, ma accoglierà tutti gli stimoli che le sono simili, che le permetteranno di sviluppare ulteriormente la propria riflessione e le proprie pratiche».