L’utopia del non lavoro

Piena occupazione, tempo libero, reddito: ipotesi da incubo e scenari da sogno nell’era della minaccia-automazione e della depressione diffusa

Sappiamo, certo, che la liberazione non ci aspetta nelle pagine dei libri, ma se rifiutiamo alla scrittura un ruolo consolatorio (quel ruolo, dice ancora Foucault, che è dell’utopia), siamo in diritto di chiedere anche alla fantascienza un contributo alla comprensione di quello che siamo, all’elaborazione di altre forme di socialità, di altri codici di comunicazione, di qualche nuova, modesta teoria locale. Consapevoli che i suoi sentieri sono accidentati e, inevitabilmente, ambigui.
Antonio Caronia, Un’Ambigua Utopia

Nel 1958, pochi anni dopo aver partecipato alla scrittura del manifesto del partito laburista, il sociologo Michael Young pubblicò The Rise of the Meritocracy («L’avvento della meritocrazia»), romanzo di fantascienza nel quale compare per la prima volta il neologismo meritocracy, proprio da lui coniato. Nel libro si racconta di una società nella quale i diritti e i privilegi vengono distribuiti in base a meriti di quoziente intellettivo o attitudine sul lavoro. Quello che ne deriva è una casta ipercompetitiva, escludente, discriminatoria e a tratti eugenetica, con la situazione che porterà infine a una protesta di massa contro questo tipo di governance. Contrariamente a quanto siamo abituati a sentire, meritocrazia è quindi un termine coniato in senso distopico, seppur ora lo si senta usare per dare virtuosismo a logiche di fondo liberiste e individualizzanti. Non so dire quanto spesso capiti a un termine o a un’idea di subire un così radicale ribaltamento dalla distopia all’utopia o viceversa, certo è che i fattori sociali che fanno da contorno ai singoli processi possono portarli a grandi risignificazioni. Un tema che in tempi recenti sembra continuamente oscillare in modo imprevedibile e schizofrenico dall’utopia alla distopia e viceversa è probabilmente quello della fine del lavoro. Già fermandoci ai significati più semplici di questa espressione, i sentimenti che suscita possono essere molto differenti. Possono essere sentimenti di sollievo, se pensiamo alla fine della giornata di lavoro, quando torniamo a casa dopo le ore alienanti dell’ufficio; possono essere ansia e frustrazione, quando un contratto finisce per vari motivi, e con quel contratto ci pagavamo l’affitto e i beni necessari alla sopravvivenza; oppure il concetto può tornare a essere una delle massime utopie sociali, se lo pensiamo come riprogrammazione sociale e politica capace di eliminare, o almeno ridurre fortemente i sudori della fronte in un piano economico che garantisca a tutte e a tutti una vita dignitosa.

Quello che cambia, nel dare significati diversi alla fine del lavoro, è quindi un sistema ambiente di elementi di contorno sociali, politici, culturali. E le forme mutevoli che il capitalismo dell’informazione (e non) sta assumendo in questi ultimi vent’anni contribuiscono certamente a riplasmare continuamente in modi inaspettati questi elementi, rendendo necessario ridefinire non solo il concetto di lavoro, ma anche di tempo libero, portando nuovi elementi nelle teorie sul reddito.

Utopie e distopie della piena occupazione

En l’an 2000 è una serie di 25 illustrazioni realizzate tra il 1899 e il 1910 dall’illustratore francese Villemard, raffiguranti le previsioni dell’autore sulle tecnologie previste per il 2000. Le varie cromatografie rappresentano situazioni di vita casalinga o di lavoro, sempre accompagnate dalla presenza di strumenti più o meno plausibili. Ci sono macchine che muovono scopa e paletta per pulire in autonomia il pavimento, barbieri meccanici, pompieri che domano fiamme volando grazie a ali simili a quelle immaginate da Leonardo da Vinci, e addirittura arnesi capaci di «digerire» libri e trasferirli direttamente nella mente di giovani studenti a lezione. Quello che colpisce nel vedere queste raffigurazioni è che due dei desideri maggiormente espressi riguardo l’utilizzo delle tecnologie nell’impatto della vita umana sono la capacità di volare e quella di delegare alle macchine le attività lavorative. 

Secondo il rapporto McKinsey 2017 i settori più soggetti a automazione sono industria manifatturiera e agricoltura, seguiti da trasporti, magazzini, commercio all’ingrosso e poi settori «informazionali» come finanza e insegnamento. Secondo recenti analisi, il 25% dei lavori negli Stati Uniti è a forte rischio di automazione, mentre la domanda annuale di robot nell’industria ha un incremento annuale del 14%.

Ci sono due modi di intendere allora la piena occupazione: uno è una distopia impossibile spacciata per utopia, l’altra è una distopia già in corso.

Come molti fanno notare, ovviamente questo porterebbe anche all’introduzione di nuovi posti di lavoro legati allo sviluppo di nuove tecnologie, ma che richiedono comunque personale altamente formato. Il saldo, se così si può dire, risulterebbe in ogni caso negativo, ma le analisi certo non si possono fermare a questa banale differenza aritmetica. 

Le tecnologie digitali, lo si è già detto tanto, frammentano il lavoro, dentro e fuori l’ufficio. Il Turco Meccanico, il manichino automatico del 1700 e usato dalla stessa Amazon per definire la sua piattaforma di micro-lavoro, è diventato il simbolo dell’incessante produzione di valore utile anche per la produzione di intelligenze artificiali. Ci sono due modi di intendere allora la piena occupazione: uno è una distopia impossibile spacciata per utopia, l’altra è una distopia già in corso. Come scriveva Franco Bifo Berardi sulle pagine del Manifesto ormai quattro anni fa, «da cinquant’anni la sinistra ha scelto di difendere l’occupazione, il posto di lavoro e la composizione esistente del lavoro. Era la strada sbagliata già negli anni ’70, diventò una strada catastrofica negli anni ’80. Era una strada che ha portato i lavoratori alla sconfitta, alla solitudine, alla guerra di tutti contro tutti».

La disoccupazione sarà in aumento, le lotte per difendere la possibilità di pagarsi un affitto con un lavoro d’ufficio sono più che comprensibili, ma fingere di essere nel XXI secolo promesso anziché in quello reale non aiuterà a sentirci meno alienati. Parlare di crescita non è solo ingenuo, è anche autolesionista, considerando la salute del pianeta. Aumentare la produttività significa accelerare verso l’apocalisse. E prima si abbandona un certo lavorismo a cui si è affezionata una certa sinistra e meglio è. «La nostra tesi è che la sinistra si debba mobilitare per la costruzione di un consenso post-lavoro»: sono Williams e Srnicek a dirlo, in quel testo ormai diventato iconico nel panorama del dibattito accelerazionista che è Inventare il Futuro. Immaginare. Forse il testo dei due sociologi non spicca per la capacità di delineare prassi e linee di azione, ma forse lo scopo è proprio un altro, cioè riportare l’attenzione sull’importanza dell’immaginazione. Immaginare mondi, inventare ecosistemi. La Boston Dynamics promette nei prossimi anni di introdurre nel mercato un esercito di cani e uomini robot, Elon Musk sta progettando voli turistici nello spazio. Forse la battaglia contro il Capitale andrà portata avanti anche riscoprendo che si può pensare la politica un po’ come si pensa la fantascienza?

 Utopie e distopie del tempo libero

«The opposite of play is not work — it is depression». L’opposto del gioco non è il lavoro, è la depressione. È una citazione dello studioso sociale dei giochi Brian Sutton Smith, particolarmente usata e ripresa dal mondo imprenditoriale/startupparo per convincerti del fatto che stare 8 ore in ufficio con i tuoi amici sorridenti in giacca e cravatta puoi anche considerarlo un giochetto più divertente che stare a deprimerti da solo nel tuo monolocale puzzolente di periferia. Misurabilità e gamification vanno di pari passo, entrambi contribuiscono alla datificazione del lavoro svolto, della produzione di analisi statistiche, e quindi anche alla creazione di nuovi beni informazionali. Ma c’è dell’altro, e sta sempre in quella citazione. 

Opposti. Gioco e depressione. Lavoro o depressione. Alta o bassa marea. Picco o abisso. Euforia o depressione. Come riporta Francesca Coin nel suo saggio contenuto in The Game Unplugged, di recente il disagio mentale è diventato un problema esplicito tra i lavoratori della Silicon Valley. Come se si fosse interiorizzato l’andamento dei mercati come stile di vita, imprenditori e sviluppatori si abbandonano a un’alternanza di opposti tra fasi di mania ludico-lavorativa e di fasi depressive, ovviamente con grande uso e abuso di sostanze psicoattive: Modafinil per restare svegli, Aniracetam per l’apprendimento, Ciltep per la concentrazione, Xanax, anfetamine, coca, meth, eroina. A fare da connessione strategica tra autosfruttamento e gamification sono stimolazioni ormonali, neurotrasmettitori, recettori dopaminici. Chi programma un social network, come chi progetta slot machine, sa che la dopamina è un suo grande alleato. Secondo studi del 2016, controlliamo lo smartphone tra le 100 e le 150 volte al giorno, ma ognuno di noi può sempre andare nelle impostazioni per controllare il numero di ore passate nella settimana sulle varie app. 

Io questa settimana ho passato in media 1 ora e mezza al giorno su Facebook. Tempo libero? Lavoro? Su internet circolano spesso analisi su quanto produciamo in valore per questa o quella piattaforma, ma le ho sempre ritenute riflessioni di poco conto, perché non guardano alla radicale natura particolare dell’informazione. Alcuni chiamano i dati il nuovo petrolio. Vero, se intendiamo che ci puoi fare i soldi, ma molto mistificatorio sia che si intenda che vengono trovati sotto terra sia che si intenda che sono esauribili. La non esauribilità dell’informazione rende in potenza l’informazione capace di produrre infinito valore nel futuro. Per dirla in altri termini, nel capitalismo digitale è impossibile quantificare il valore prodotto in un tempo definito di produzione immateriale. Una redistribuzione del valore, allora, è anche uno strumento di remunerazione e di riconoscimento del lavoro informazionale, relazionale e cognitivo contemporaneo. E ovviamente, automi o non automi, affrontare la crisi del lavoro significa necessariamente fare i conti con la stratosferica diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza.

Utopie e distopie del reddito

Nei giorni in cui sto scrivendo questo articolo, in TV e sui giornali va in scena un «dibattito» alquanto surreale (fosse per me lo definirei una gara di rutti) su quanto sia legittimo che una persona con precedenti penali – per i quali sta ancora scontando la pena – possa godere del reddito di cittadinanza, pur godendo di tutti i requisiti necessari. Già nei mesi di governo gialloverde era chiaro che, per come era strutturato, il reddito di cittadinanza grillino fosse un dispositivo moralistico, poliziesco e razzista, con il quale assoggettare costantemente disoccupati, precari, poveri, regolamentando una sfera della vita che va anche oltre a quella lavorativa sulla base di un ricatto. Ore di lavoro gratis prima affidate a lavoratori retribuiti, con un contentino assegnato solo a chi gode di cittadinanza italiana e che con la retorica dei «furbetti» attiva un monitoraggio su abitudini e stili di vita. Chi sostiene che un reddito slegato dal lavoro costringe a una forma di subordinazione può avere anche ragione in riferimento ad alcuni modelli di reddito. Per questo anche le forme e i discorsi che questo dispositivo si dà sono urgentemente da trattare.

È molto probabile, e anche coerente con le logiche imprenditoriali, che qualcuno dalle parti di Menlo Park stia valutando la possibilità di retribuire la partecipazione alle piattaforme, magari gamificando il tutto per premiare gli utenti piú attivi. A questo non possiamo non aggiungere di considerare le possibili implicazioni dei progetti di moneta alternativa. Possiamo solo fare supposizioni e immaginare scenari plausibili, ma proviamo a pensare a cosa potrebbe succedere se un progetto come Libra, contando su un largo cartello di aziende, istituti e piattaforme, diventasse di fatto un sistema di pagamento e remunerazione interno a un circuito digitale, nel quale il lavoro produttivo viene riconosciuto e sul quale gli obblighi legali e fiscali sono indeboliti. 

Non è impensabile, insomma, essere retribuiti in ZuckCoin con i quali poter avere agevolazioni e sconti su Amazon usando questi al posto degli euro, o usare questi per comprare SteveCash per comprare il nuovo iPhone. Sarebbe il sogno anarcoliberista, con le grosse aziende della Silicon Valley trasformate in banche deposito di moneta proprietaria, anche se la stabilità di questa sarebbe ovviamente garantita dal valore quotato di azienda. È solo un’ipotesi, un racconto di fantascienza, ma porta a capire che le possibilità di assoggettamento economico tramite una distribuzione di ricchezza non riguardano solo lo Stato, ma anche soggetti privati. Un reddito che sia di autodeterminazione e non di sudditanza è quanto mai necessario, e non è finita qui. 

Quella del reddito non è una battaglia che porta a un obiettivo finale, semmai a uno iniziale. La precarietà economica e esistenziale costituisce un ostacolo all’organizzazione delle vite, quindi della politica, della militanza, dell’azione. Il capitalismo è prima di tutto furto di tempo, quindi di vita. Una teoria politica capace di considerare la complessità del mondo del lavoro, quella della psiche e delle relazioni, deve saper rilanciare con forme di riappropriazione della ricchezza per liberare tempi di vita, rendere possibili spazi di lotta e di aggregazione collettiva svincolata dalla performatività, dalla gamification, dalla trappola distopica.

Articolo originariamente pubblicato sul numero 01 di Menelique | Magazine Radicale Internazionale