GUERRIGLIA SUBITO PER IL COMUNISMO SOTTRATTIVO

Intervista a Andrew Culp su come costruirsi una vita mentre si è sotto assedio, sulle orme di tecno-anarchici, queer criminali e blackness fuggiasca

Quando ad aprile dell’anno scorso con Nicola Zolin pubblicavo su questo sito un articolo sul world-building mi fu detto: «Tutto molto interessante, ma all’atto pratico che ruolo hanno queste speculazioni per fare la rivoluzione/distruggere il capitalismo/superare il maschiocene?». Domande simili compaiono regolarmente alla fine di ogni discussione o a ogni articolo che, in qualche modo, preveda delle riflessioni un minimo articolate sulla situazione contemporanea. C’è chi va alla radice della questione e si chiede non solo a cosa serva la theory, ma anche che cosa si intenda esattamente con questo termine infausto. A settembre Andrew Culp annunciò sulla sua pagina Facebook che a marzo di quest’anno sarebbe uscito un suo libro, A Guerrilla Guide to Refusal, presentato come «una guida da campo a una vita non fascista alla fine del mondo per come lo conosciamo». Il libro veniva descritto come un impiego della teoria critica per ripensare le tattiche di contropotere nelle proteste queer, nell’infowar anarchica e nell’insurrezione nera, una modalità, per farla breve, di impiegare la filosofia da un punto di vista della guerriglia. Ma soprattutto, si poneva come obiettivo quello di esplorare i movimenti di protesta contemporanei che «non pongono nessuna richiesta, rifiutano qualsiasi etichetta e non offrono soluzioni».

Ho conosciuto il pensiero di Andrew Culp – professore di Teoria e storia dei media al California Institute of the Arts e studioso della net.art, dell’hacktivismo e dell’IMC– attraverso Dark Deleuze, un breve quanto incisivo saggio filosofico che ha come suo scopo quello di rompere con l’impiego annacquato e innocuo del pensiero di Deleuze per recuperare il suo potenziale sovversivo. Il bersaglio di Culp era il processo che ha portato una certa interpretazione della filosofia di Deleuze a trasformare i suoi concetti in materiale per video di self-improvement e giovani imprenditori creativi. Una tendenza simile a quella che, per intenderci, sta accadendo nei confronti di Haraway o Fisher sotto il mantra «nel caso di necessità cita realismo capitalista».

In A Guerrilla Guide to Refusal a emergere è l’esperienza di Culp come attivista in diversi movimenti e gruppi di protesta americani. Questo libro mi è sembrato il pretesto perfetto per aprire una discussione su un uso militante della filosofia, sempre se una cosa di questo tipo esista davvero. Quella che segue è una lunga conversazione che ho avuto con Culp, nella quale le tematiche del suo prossimo libro sono state motivo per parlare di alcune modalità di protesta contemporanee, ma anche della possibilità di dare vita a spazi autonomi e della malleabilità del concetto di «illegale».

Ringrazio di cuore Francesco Di Maio – traduttore di Dark Deleuze – per la traduzione e la revisione di questa intervista.

Le fauci affamate del postmodernismo hanno già pre-masticato la teoria della guerriglia per un’alimentazione facile delle masse – in questo modo non provocherà nessuna intuizione originale neanche per sbaglio.

Davide Tolfo: ​​Vorrei iniziare questa conversazione concentrandomi sulle differenti modalità di collegare la guerriglia alla teoria presenti nel tuo testo. Incrociando le strategie di lotta impiegate dai gruppi anarchici, militanti e dissidenti, così come le differenti modalità di comunicazione e le reti sotterranee che questi gruppi hanno creato, il tuo testo si pone indirettamente come una breve storia e un archivio dei vari modi di pensare il contropotere e la guerriglia. Allo stesso tempo, A Guerrilla Guide to Refusal non si limita a fornire una ricostruzione storica, né mira a tracciare una narrazione unica che possa assimilare i diversi movimenti di rivolta all’interno di un unico quadro teorico. Al contrario, mi sembra che la tua intenzione sia quella di delineare una prospettiva non accademica a partire da alcuni concetti e forme di lotta – l’anonimato, la fuga, l’opacità – che possano mantenere l’eterogeneità delle soggettività e dei gruppi coinvolti. In un certo senso, sembra che siano i processi stessi, le tattiche impiegate, a definire le posizioni soggettive e non il contrario.

Andrew Culp: Come molte cose, le fauci affamate del postmodernismo hanno già pre-masticato la teoria della guerriglia per un’alimentazione facile delle masse – in questo modo non provocherà nessuna intuizione originale neanche per sbaglio. Per questo forse ha senso chiarire cos’è la teoria della guerriglia, altrimenti qualcuno potrebbe pensare che stiamo parlando del Che Guevara di qualche maglietta o della copertina di un album dei Rage Against the Machine.

La guerriglia è tanto una figura di grande trionfo quanto di incredibile tragedia. Non sono un grande storico della guerra, ma le tattiche dello scontro asimmetrico devono preesistere alla storia stessa. Quello che mi sembra innovativo è il mondo concettuale della guerriglia. Nel libro, mi piacerebbe che coloro che tra noi operano in una politica radicale prendano sul serio la proposta di Gilles Deleuze e Félix Guattari di adottare un «punto di vista di una logica della guerriglia». Qual è la prima cosa che entra nella mente della guerriglia? Che la politica è diventata una questione di guerra: che gli affari di palazzo dei politici che stringono mani e allungano mazzette sono irredimibili; e tutto, dalle leggi che promulgano agli agenti come i burocrati o la polizia che le fanno rispettare, è violenza. Le guerriglie sono nate in una «piccola guerra» già esistente, da cui prendono il nome. O, come recita lo slogan, «la chiamano guerra di classe solo quando ci ribelliamo».

La guerriglia pone quindi a tutti noi un problema filosofico: come costruirsi una vita mentre si è sotto assedio? Non pretendo di avere una risposta. Inoltre, nessuno dovrebbe prendere il libro come una sorta di celebrazione retrò del comunismo di guerra o dello spavaldo leninismo di tanti gruppi militanti armati. La cosa più stimolante dei guerriglieri non è quando scrivono del popolo o del partito, che sono entrambi volgarità in questo tardo XXI secolo, ma ciò che hanno compreso della fisica del potere. Un’adozione acritica di questi metodi è una ricetta per il fallimento, soprattutto perché così tanti guerriglieri hanno incontrato un destino tragico senza nemmeno avvicinarsi alla realizzazione dei loro obiettivi.

Vedo una coincidenza tra piccole guerre del presente e le soggettività che popolano ogni parte del libro: tecno-anarchici che sfruttano i canali di comunicazione digitale, queer criminali che interrompono le coordinate emotive che ci tengono bloccati in un presente perpetuo e blackness fuggiasca che rifiuta di partecipare alla dialettica disumanizzante del riconoscimento. Nessuno di loro offre una prescrizione, tantomeno un programma, ma sostengo che nell’insieme costituiscano un «comunismo sottrattivo», per il quale il punto non è rivendicare un’autorità per se stessi, ma prosciugarla da questo mondo.

Mi rifiuto di trattare il pensiero come qualcosa di costruttivo, preferisco trattarlo solo come uno shock per i sensi che sconvolge ciò che è stato preso per reale.

DT: Mi sembra che si possa leggere l’invito di Deleuze e Guattari di porsi dal punto di vista della guerriglia da una duplice prospettiva. Da una parte, come hai sottolineato tu, è funzionale a rintracciare dei fronti di lotta comuni, e ad avere uno sguardo critico sullo sviluppo e la diffusione di poteri e forme di organizzazione autoritarie. Questa visione, questo sguardo lucido sulla guerra quotidiana alle dissidenze, è a tal punto cruciale da divenire indispensabile per la stessa sopravvivenza. Come affermava bell hooks, «quando la nostra esperienza vissuta della teoria critica è fondamentalmente legata a processi di autoguarigione e di liberazione collettiva, non esiste alcun divario tra teoria e pratica. In effetti, ciò che tale esperienza rende ancor più evidente è il legame tra questi due aspetti – quel processo reciproco in cui una rende possibile l’altra. La teoria non è intrinsecamente curativa, liberatoria o rivoluzionaria, assolve a questa funzione solo quando lo vogliamo, e orientiamo di conseguenza la nostra teoria verso questo scopo». Dall’altra parte, leggo l’invito di Deleuze e Guattari come un’indicazione a prestare attenzione ai meccanismi di chiusura e irrigidimento politico a cui i gruppi di opposizione sono esposti. Penso, nello specifico, alle analisi di Guattari sui micro-fascismi di gruppo e sulla formazione di leader all’interno di realtà politiche decentralizzate. Quali strumenti può fornire la teoria della guerriglia nei confronti di questi pericoli?

AC: Grazie per aver citato bell hooks. La sua scomparsa è una perdita enorme per noi. E ho letto proprio quel brano qualche settimana fa l’ultimo giorno del mio corso sul pensiero politico contemporaneo. Sembra chiaro che non sappiamo ancora cosa la teoria possa fare. Concordo con te che Deleuze e Guattari siano cruciali per comprendere il fascismo moderno, specialmente all’interno della sinistra. L’avvio critico per un’indagine simile inizia, almeno secondo me, con Mille piani. La storia non gli è stata molto favorevole, con i commentatori che hanno cercato di etichettarlo come il seguito «meno politico» de L’anti-Edipo. Considera, tuttavia, come Il capitale di Marx iniziava con un primo volume sulla produzione, seguìto da un secondo sulla circolazione. I due volumi di Capitalismo e schizofrenia sono essenzialmente dei «manuali» rivoluzionari per condurre una guerriglia contro il capitalismo. Il primo, L’anti-Edipo, si occupa principalmente del fascismo del molare così come riscontrato nella psicoanalisi normalizzante, nel marxismo di partito, nelle identità fisse suprematiste (razza, genere, classe) e nelle rigidità dello Stato. Mentre il secondo si concentra sui micro-fascismi del molecolare, quei gruppi supposti liberatori in cui il fascismo si infiltra – qualcosa che conosciamo fin troppo bene attraverso gli anarcoidi manarchist, il femminismo trans-escludente, le sette comuniste di culto, la politica identitaria dell’«I got mine», dell’«io ho preso il mio», e gli influencer di ogni tipo. In breve, come ci ricorda Tiqqun, il più grande problema politico di oggi è che, mentre la rivoluzione era molecolare, lo era anche la controrivoluzione.

Anche se la diagnosi sembra giusta, potresti ancora chiederti: «Cosa c’entra la filosofia con tutto questo?», «perché fare filosofia sul guerrigliero mentre è sul campo di battaglia?» La mia risposta non è un abbraccio romantico dell’umanesimo, come coloro che si assicurano che le reliquie del Louvre o del British Museum non cadano nel fuoco incrociato, né il freddo funzionalismo che abbandona tutto ciò che non fa avanzare la lotta. Questo è un po’ astratto. Mi rifiuto di trattare il pensiero come qualcosa di costruttivo – come di porre principi su cui possa essere fatto qualcosa come la legge, un popolo o una pittura – e preferisco trattarlo solo come uno shock per i sensi che sconvolge ciò che è stato preso per reale.

Questo rende la filosofia piuttosto impoverita rispetto alla religione, al capitalismo o alla scienza. Certo, ci sono alcuni che sognano il filosofo ancora come consigliere di fiducia, come se dietro ogni grande leader ci fosse lo studio approfondito di Platone o di Machiavelli. Questo non significa negare che Frantz Fanon abbia aiutato a contrabbandare armi per gli algerini o che Régis Debray abbia stilato un influente manuale sulla guerriglia mentre insegnava filosofia a Cuba. Ma, per me, la filosofia è più potente quando lancia campagne contro le potenze in atto. Deleuze ne parla nella breve spiegazione del titolo della raccolta dei suoi saggi Pourparler – la sua singolare capacità è di condurre «una guerra senza battaglie».

Il guerrigliero ci ricorda che il compito del pensiero non è quello di seguire ciecamente gli altri verso morte certa. Tantomeno è un pensiero muscolare che facilita altri compiti. È l’incapacità ultima, alla quale ci rivolgiamo solo quando sembra preclusa ogni altra azione. È così che il pensiero trova un’affinità immediata con la guerriglia; dopo essere stati messi all’angolo, si è costretti a diventare creativi per trovare una nuova via d’uscita dove non sembra esserci. Non riesco a pensare a una risorsa migliore per la nostra epoca di neoliberalismo, il cui incessante, folle ritornello è che dovremmo partecipare a tutto ciò che è intollerabile («se non lo faccio io, lo farà qualcun altro») perché there is no alternative, non c’è alternativa.

Indipendentemente dalle proprie intenzioni, chiunque intraprenda un’azione contro il potere partecipa inconsapevolmente alla parte della società che minaccia la sua rovina.

DT: In un certo senso, l’attacco all’identità politica o, per essere più precisi, al fondare le proprie forme di lotta su un’identità escludente e statica, mi ricorda il tuo concetto di guerriglia-senza-guerriglieri. Trovo interessante questo concetto, perché mi sembra che permetta di tenere assieme le esperienze concrete di resistenza, sia passate che presenti, con la loro teorizzazione filosofica, di cui hai parlato nelle risposte precedenti. Puoi spiegare meglio cosa intendi con questo concetto e quali sono le sue implicazioni?

AC: Una delle posizioni più controverse che avanzo nel libro è il sostegno al «Partito Immaginario». L’argomentazione è la seguente: indipendentemente dalle proprie intenzioni, chiunque intraprenda un’azione contro il potere partecipa inconsapevolmente alla parte della società che minaccia la sua rovina. Il termine partito è usato in modo alquanto ironico, poiché nessuno mai si identifica come membro e manca la struttura reificata necessaria per esercitare il controllo su qualcuno o qualcosa. Al massimo, si recuperano le radici del partito, come filosofato da Alain Badiou, Jacques Rancière e altri.

Significa qualcosa di piuttosto concreto. Al riguardo, discuto un esempio che è esistito per alcuni anni alla fine degli anni Zero. All’epoca, un certo numero di blog raccoglieva ritagli di notizie di giovani che lanciavano sassi contro le finestre della polizia, veicoli da costruzione rubati che distruggevano appartamenti mezzi costruiti, folle di lavoratori che bruciavano le fabbriche dopo disastri di sicurezza, e molto altro. Tutte queste azioni hanno costituito il fenomeno del Partito Immaginario. L’origine della polizia è quella di produrre conoscenze su di essa, portandole alla statistica, alla sociologia, alla criminologia e ad altre scienze del controllo. Tutte queste discipline considerano l’attività del partito come processi ambientali da tracciare attraverso grafici e numeri, che li portano a dire stronzate tipo «la microcriminalità aumenterà nelle aree di estrema disparità di ricchezza». Un esempio simile è il registro delle notizie tenuto da Fire to the Prisons, che ha registrato quasi 200 aggressioni di prigionieri al personale correzionale, incendi, assalti, rivolte, veicoli rubati, interruzioni del lavoro ed evasioni nel corso dell’anno. Definendo tutto questo come le varie espressioni del Partito Immaginario si capisce immediatamente il significato dell’attività auto-organizzata – come una forma unificata di rivolta piuttosto che una serie di sfoghi isolati.

Sebbene non giochi un ruolo importante nel libro, è così che ho sempre inteso l’infrapolitica di James C. Scott. Forse uno degli usi più convincenti è «Anarchy of Colored Girls Assembled in a Riotous Fashion» di Saidiya Hartman, che considera il comportamento ribelle come uno stile di vita piuttosto che come un’identità da incanalare in un’organizzazione politica. Un altro modo di pensarla è attraverso quel meraviglioso saggio stirneriano sulla guerra di classe di Johann Kaspar intitolato «We Demand Nothing», che fa un ragionamento storico sulla rivolta negli Stati Uniti. Kaspar periodizza la lotta come la richiesta di qualcosa di specifico nelle rivolte industriali (1880-1940), poi la richiesta di tutto nelle rivolte razziali di metà secolo (1960-1970) e, ora, la richiesta di niente attraverso la lotta non mediata (1992-oggi). Da questa prospettiva, gli eventi chiave della politica radicale per la sinistra statunitense non sono tanto Occupy Wall Street quanto la rivolta di Los Angeles del 1992.

Solo dopo aver compreso il Partito Immaginario si mette a fuoco la «guerriglia senza guerriglieri». In primo luogo, è un metodo per comprendere il modo in cui si combatte l’attività auto-organizzata che minaccia il presente. Qui a Los Angeles, il LAPD (Los Angeles Police Department) ha usato a lungo le «bande» come scusa per militarizzare la polizia. Infatti, non solo molti poliziotti si arruolano contemporaneamente nell’esercito – così che la polizia antisommossa che si presenta per controllare una situazione possa aver recentemente svolto un lavoro simile in Iraq o in Afghanistan, magari avendo anche sparato sulla folla lì –, ma a vari elementi del LAPD viene insegnato a trattare i residenti come potenziali guerriglieri da neutralizzare attraverso la dottrina della controinsurrezione, che affinano mediante l’addestramento congiunto con una varietà di unità militari e di intelligence.

In secondo luogo, ci permette di capire come gli elementi neutralizzanti dell’attuale costituzione del politico siano un sintomo di un senso più profondo di guerra civile. Il conflitto non è tra due fazioni che rivendicano un’autorità sovrana. Piuttosto, le linee di antagonismo vanno tracciate tra coloro che pretendono che gli altri partecipino ai canali ufficiali e coloro che rifiutano di vivere una vita secondo le regole. I primi non si fermeranno finché non vedranno anche il più fervente guerriero di classe ridotto a un buon cittadino dalle richieste del processo politico – la risposta prescritta dalla dottrina della controinsurrezione a qualsiasi disordine politico. Mentre la seconda pone il terreno comune per ogni attività che colpisce contro tutto ciò che è intollerabile. Insomma, la guerriglia non è un’identità da rivendicare e nemmeno un soggetto-posizione da abitare, ma un insieme di strategie per delineare il campo di battaglia in cui ci troviamo.

DT: Per concludere vorrei concentrarmi sul concetto di «autonomia» e sul suo rapporto con l’illegalità. Nella terza parte, dedicata al concetto di fugitivity, alla fuga e all’esser fuggiasco, sottolinei alcune modalità legate al rivelare e allo stesso tempo resistere all’«infrastruttura sociale bianca […] attaccare il metodo della fotografia supposto neutrale e probatorio e scioperare contro l’economia spettacolare di esposizione bianca». Queste strategie possono essere viste in atto nei lavori di artiste e attiviste come Zanele Muholi, Sara Leghissa e Martine Syms. Penso in particolare alla mostra Isibonelo/Evidence al Brooklyn Museum, nella quale Muholi presentava dei ritratti di alcun_ component_ della comunità nera LGBTQIA+ dal Sud Africa accompagnati da documenti nei quali era possibile riscostruire una cronologia di violenze e minacce che tali corpi avevano subito, pur essendo il Sud Africa il primo paese africano a legalizzare i matrimoni dello stesso sesso. In modo simile, il lavoro Fact & Trouble di Martine Syms evidenzia, con immagini prese da differenti media ma anche filmati di videosorveglianza, la distanza che separa la vita concreta delle soggettività black negli Stati Uniti dalle modalità con cui esse vengono veicolate attraverso i media. Nel lavoro di Sara Leghissa, compiere un’azione potenzialmente illegale – nel suo caso l’attacchinaggio – diviene indirettamente una modalità per mostrare i privilegi che definiscono lo spazio pubblico. La stessa azione illegale assume un’importanza differente se a compierla sono dei soggetti emarginati o de_ bianch_ europe_. Questi esempi esplicitano una problematica più ampia e cruciale. Da una parte è spesso fondamentale andare a patti con la legge, richiedere che i propri diritti, le proprie azioni e le proprie scelte vengano viste e approvate dall’occhio della legalità. Dall’altra parte, ogni mediazione rischia di divenire un compromesso, una modalità per trasformare lotte con obiettivi più ampi e radicali in una riduttiva richiesta di riconoscimento. In che modo, a tuo avviso, è possibile sopravvivere a questa morsa? Ma, soprattutto, è davvero possibile dare vita a spazi autonomi facendoli sopravvivere nel tempo?

Come le spie, dobbiamo tutt_ imparare a vivere e operare dietro le linee nemiche. Tutt_ ci troviamo in questo mondo, ma non dobbiamo diventarne parte.

AC: Tutte e tre le mostre sono così cruciali che è difficile per me parlarne in breve cercando di rendere loro giustizia. Come hai notato, sono tutte coinvolte in una problematica che sembra definire l’impasse in cui si sono trovate tante lotte di liberazione: il fatto che la protezione legale e la visibilità pubblica sono mere tattiche all’interno di una dialettica di riconoscimento. Il rinnovato interesse per Scenes of Subjection di Saidiya Hartman – un libro apparentemente sulle narrazioni schiaviste del XIX secolo e sull’ubiquità del discorso sulla libertà nonostante l’onnipresente violenza nell’America post-manomissione – dimostra l’intrattabile rilevanza nella nostra epoca attuale, che è afflitta da uno streaming infinito di video di telecamere di sorveglianza che ritraggono la violenza della polizia, l’integrazione globale di una versione molto liberale dei diritti LGBTQ+ basata sulla buona cittadinanza e una fame commerciale insaziabile di immagini di intrattenimento incentrate sulle persone black. La rivista insurrezionale Hostis, alla quale contribuisco, ha pubblicato un numero intitolato Beyond Recognition [Oltre il riconoscimento]. L’omicidio di un ragazzo black di 12 anni a Cleveland e le sue conseguenze ci hanno illustrato tutto ciò che è sbagliato nel riconoscimento. Abbiamo scritto che:

Il 22 novembre 2014, Tamir Rice è stato ucciso da due agenti di polizia di Cleveland. La giustificazione è stata che la sua air soft gun costituiva un pericolo per la vita degli agenti di polizia e della comunità in generale tale che l’omicidio di Tamir era necessario. Agli occhi della legge, un giovane corpo nero che giocava da solo in un parco legittimava tutto il sospetto necessario agli agenti di polizia Timothy Loehmann e Frank Garmback per ucciderlo. La risposta più rumorosa degli attivisti è proclamare che «il movimento per i diritti civili non è finito», implicando che tale brutalità è un effetto del fatto che i neri americani non sono pienamente riconosciuti come cittadini agli occhi della legge. L’unica cosa che quei diritti custodiscono è la via dell’innocenza. Sono le parole di chi dice con tutta onestà: «L’ingiustizia è quando i dannati della terra sono trattati come un problema, perché non lo sono». Nella loro smania di non essere un problema, gli innocenti si spogliano di tutto tranne che della loro prova di buona cittadinanza, che è un copione riscattabile solo con chi sta già cercando di punirti. L’innocenza può essere incassata solo per pagare un atto unico: l’evento del sovrano che aggiusta la bilancia della giustizia in modo che la punizione si adatti di nuovo al crimine.

E se la pistola di Tamir fosse stata vera, se Mike Brown avesse davvero caricato come un demonio, o se Trayvon avesse davvero colpito per primo? Li sosterremmo ancora di più. La nostra solidarietà non si estende nonostante la presunta criminalità, ma di solito a causa di essa. Anche se è un argomento trito, bisogna ricordare che il colonialismo, la schiavitù, l’olocausto e l’apartheid erano tutti legali. Non abbiamo nulla di buono da dire su Clement Attlee, Abraham Lincoln, Dwight Eisenhower o F.W. Klerk, anche se è stata la loro penna a porre fine a ciascuno di quei terribili sistemi. I nostri eroi provengono dai ranghi della rivoluzione haitiana, dalla rivolta delle navi creole, dalle unità partigiane dell’Europa orientale e da Umkhonto we Sizwe. Non ce ne può fregare di meno di essere riconosciuti da coloro che vedono come loro compito quello di governarci, giustamente o ingiustamente. Fanculo la giustizia, noi vogliamo vendetta.

Ma come dici tu, l’intensità con cui rifiutiamo il riconoscimento ha conseguenze diverse a seconda di chi lo dice. Mi ricorda uno strano incontro che ho avuto a una conferenza anarchica molti anni fa. Dopo un discorso sull’autonomia rivoluzionaria, qualcuno del pubblico fece una versione appassionata della classica domanda cui bono?, a chi giova? Sosteneva che i diseredati avevano più da perdere in una situazione rivoluzionaria. In quel momento ero abbastanza confuso, perché, almeno in linea di principio, chi sta peggio ha sia meno da perdere sia più da guadagnare. Quelli abbandonati dallo Stato, costretti in situazioni di sfruttamento, troppo poveri per far valere eventuali diritti che possono avere sulla carta, trasformati in oggetti di violenza per il piacere libidico, ridotti (almeno sulla carta) a mera sopravvivenza… l’unica cosa che hanno da perdere non sono le loro catene? La persona era così irremovibile su questo punto che dopo è venuta a parlare con me e, quando ho ammesso che avevo difficoltà a capire, il suo ritornello è stato quello di continuare a ripetere che era «una cazzata» per me dire quello che ho detto.

Ora che sono passati molti anni, credo di aver finalmente individuato la motivazione dietro le sue parole. La mia interpretazione viene da un commento di Frank Wilderson quando ricorda ciò che Saidiya Hartman gli disse a proposito del lavoro che sarebbe diventato Red, White & Black: Cinema and the Structure of U.S. Antagonisms: «Questo libro non ci lascerà nessun alleato al mondo», disse, aggiungendo che «la ragione è che nessuno al mondo che soffre – e qui non stiamo parlando del capitalista, o del maschio bianco cis-gender con i soldi – nessuno al mondo che soffre e che dice di voler essere libero, vuole essere libero come la Blackness lo renderà».

Potrebbe essere poco generoso da parte mia, ma credo che la persona del pubblico fosse realmente turbata da qualcosa di simile. Voglio essere chiaro: non stavo proponendo la «libertà» della Blackness, una doppia perdita di un nome, di una famiglia, di una cultura, di una terra, di un popolo e della vita stessa, aggravata dalla sottrazione di qualsiasi mezzo per recuperarli. Ho proposto invece una visione priva della protezione premurosa della Whiteness, cioè oltre il giudizio sovrano della legge, della normalizzazione paternalistica della famiglia e della protezione dalla violenza promessa dalla società civile. Non sono riuscito a promettere il recupero, la capacità o l’egemonia.

C’è una via d’uscita? Forse il mio libro su Deleuze può essere una guida, «ché tutti noi viviamo una doppia vita». Con questo voglio dire che tutti abbiamo bisogno di scendere a compromessi con la realtà per sopravvivere, ma non dobbiamo lasciare che finisca lì. La politica di ogni persona è definita dal modo in cui costruisce una coincidenza tra quei compromessi e il lavoro che fa per minare tutto ciò che è intollerabile nel mondo. Questa non è ipocrisia, è la condizione in cui tutt_ si trovano. Come le spie, dobbiamo tutt_ imparare a vivere e operare dietro le linee nemiche. Tutt_ ci troviamo in questo mondo, ma non dobbiamo diventarne parte.

Il Black Study qui lo dimostra; non come una mappa da seguire, poiché molti di noi non percorrono lo stesso territorio. Valga piuttosto la massima del femminismo nero che «nessun_ è liber_ finché non lo siamo tutt_». Cosa significherebbe per ognun_ di noi – dai nostri vari percorsi di vita – diventare liber_ come quelli che sono stati completamente sradicati? Se l’abolizione dev’essere presa sul serio, cosa significherebbe non solo abolire il complesso industriale carcerario o anche il paesaggio carcerario, ma anche sradicare i legami concettuali e materiali con le istituzioni pubbliche dello Stato (compresi i «beni» universali come l’istruzione), la società civile, la famiglia, la cultura, il territorio, e così via fino ad arrivare a tutto ciò che è stato preso dagli altri nel corso della storia? Questo è il progetto del comunismo sottrattivo, credo, un vero movimento di sottrazione che abolisce lo stato di tutte le cose presenti.

Traduzione e revisione Francesco Di Maio