Mark Fisher vs. Oneohtrix Point Never

Note sull’eternità che ci resta

Per le nostre macchine noi siamo ciò che un’ape è per il fiore, organi riproduttivi di una specie che non è nostra. Greenspan & S. Livingston

Attraversando quel rapido gradiente di hikikomorizzazione che è stato la pandemia del 2020, mi sono ritrovato spesso a pensare all’immortalità, al tempo e agli sforzi che la nostra specie ha fatto per eliminare l’oblio. Rinchiuso in casa con gli occhi gonfi di sangue incollati al volo statistico della febbre globale, ho pensato spesso alla placidità di un tempo più profondo di quello ripartito dagli impegni di tutti i giorni. Mi sono chiesto più volte se questo tempo denso potesse condividere qualcosa con l’eternità, con quel tempo concesso ai morti, certo, ma anche gli oggetti che possono essere replicati più o meno senza sforzo.

Sulla scia della mia deriva maniacale sono rimasto molto colpito da un commento che François J. Bonnet lancia un po’ di sbieco nel suo After death, un libro interamente dedicato all’omicidio della morte per mano del presente eterno del tardo capitalismo. Secondo il teorico francese c’è germe di eternità in ogni oggetto tecnico e in ogni artefatto umano, specialmente in quegli apparati che ordinano e arginano il tempo e lo riducono a misura d’uomo. Bonnet, infatti, in una nota abbastanza marginale, sottolinea come il calendario, oggetto essenziale per dominare il flusso catastrofico dei momenti, condivida la stessa radice etimologica del verbo chiamare, la parola a cui abbiamo affidato il compito di descrivere l’azione di richiamare a sé con il respiro o i sospiri gli oggetti e le persone non più presenti davanti a noi. Nell’indicizzare lo scivolamento asimmetrico dei giorni, dei mesi e degli anni con l’esattezza del linguaggio decimale, il dominio calendrico svolge la funzione necromantica di richiamare dalla fossa ciò che dovrebbe giacere rigido. Il calendario da semplice diagramma del tempo empirico diviene un portale verso un tempo vuoto in cui tutto accade all’unisono. Le date, queste appendici macchiniche, salvano ciò che il tempo naturalmente disperderebbe e ci permettono di accedere a un tempo vuoto in cui tutto è prodotto nello stesso istante.

Questa funzione salvifica e trascendentale degli apparati tecnici viene inoltre ribadita da due dei più attenti critici culturali contemporanei, Agnès Gayraud, di cui Claudio Kulesko ci ha parlato in tempi non sospetti. Gayraud dedica all’immortalità tecnica, a questa «chiamata» necromantica degli artefatti umani, uno dei capitoli più commoventi e densi del suo Dialectic of pop; un capitolo decadente, interamente dedicato all’empatia che si prova verso gli oggetti inutili e che incarnano periodi totalmente passati. Citando Junk di Paul McCartney, Gayraud sostiene, seguendo Walter Benjamin, che l’artefatto umano – in special modo la canzone pop, con il suo potere ammaliante e la sua potenza da apex predator mnestico di incollarsi alla nostra memoria – ha il potere di salvare il tempo da se stesso, di congelarlo e restituirlo a un’eternità cronologica che ci supera ampiamente e che straborda in una sorta di tempo trascendentale ma totalmente materiale, presente in ogni momento e fondo produttivo di ogni istante, ma sempre più profondo e più freddo di ogni attimo vissuto. Come le macchine di Erehwon di Samuel Butler usano l’umanità come un organo sessuale per riprodursi, così le canzonette pop di Gayraud ci abitano, riavvolgendo le lancette dell’orologio, restituendoci qualche minuto di eternità secolare nel loro permanere. Citando Gayraud: «Trasformare la magia di una hit in una pura rêverie dell’ascoltatore è probabilmente un modo per sfuggire alla de-umanizzazione che viene promossa dall’avanzata razionalizzazione della canzone da classifica, ma è anche un modo per far migrare dalla parte del soggetto una promessa che dovrebbe essere descritta come un fatto puramente oggettivo: quella promessa di riconciliazione in cui l’unione del nostro godimento e del nostro stupore non sarebbero un segno di manipolazione propagandistica, ma l’esperienza di una comunità estetica universale, la realizzazione dell’utopia della popolarità», di un Fuori assoluto, ma prodotto, involontariamente, da una mano umana e dalla riproduzione asessuata di questo artefatto. Come sosteneva R.E. Templeton: «Nell’esteriorità, nel luogo in cui il tempo lavora davvero, quella parte di te che senti come più propria non ha nulla in comune con ciò che sei davvero».

Un esempio chiarissimo di questa eternità secolare è indubbiamente l’ultimo disco di Oneohtrix Point Never, Magic Oneohtrix Point Never. Il disco è un concept album intimista, in cui Daniel Lopatin (la mente che ha partorito Oneohtrix Point Never) mette in musica i format flips radiofonici, quegli istanti in cui le radio americane cambiano la loro «biologia», smettendo di essere, ad esempio, una radio che trasmette prevalentemente easy-listening e diventando una radio soft rock. Il disco di Oneohtrix Point Never è un concept album che parla, dunque, dell’eternità in due sensi. In primo luogo, è un disco esplicitamente dedicato a un fenomeno ormai obsoleto e relegato alle finzioni della memoria collettiva, ampiamente sostituito dallo streaming torrenziale di podcast, meme e video. In secondo luogo, e uscendo un po’ da queste riflessioni melense da Video killed the radio star, il disco di Lopatin è un inno all’eternità tecnica, reale, materiale; una riflessione sul tempo trascendentale che sta alla base di ogni fenomeno culturale. Ripetendo e sublimando il fenomeno dei format flips, Lopatin mostra come la morte soggettiva e individuale sia stata abolita dal costante lavorio del tempo impersonale e tecnicamente mediato. La radio diviene la pulsazione utopica ma paradossalmente reale di un tempo innaturale e disumano, fuori da ogni coordinata. 

Mettendo in scena quelle che, di fatto, sono delle piccole morti inorganiche, Oneohtrix Point Never ne dimostra l’impossibilità assoluta, mettendo al bando ogni nostalgia (dopotutto, non puoi rimpiangere ciò che è eterno…), e ci mette di fronte alla completa sconfitta del tempo cronologico, antropico e lineare in favore di un tempo post-storico ed eterno che continua a ritornare su se stesso come una serpe o una spirale – una spironomia inorganica positiva che necessariamente sfugge alla finitudine delle nostre vite e a cui possiamo partecipare, spesso involontariamente, attraverso le nostre finzioni e i nostri artefatti. Citando lo stesso Lopatin: «La mia musica è migliore quando le cose cambiano e si trasformano […] quando il quadrante gira su se stesso».   

Nondimeno, con buona pace di questi sforzi estetici e teorici di ammazzare il chiaro di luna e mettere fine allo scorrimento del tempo, bisogna constatare come, nella critica culturale contemporanea, questa passione per l’eternità spiraliforme sia una passione minoritaria, relegata per buona parte a un gruppo di scoppiati. Bisogna arrendersi all’evidenza, come già suggeriva Linda Trent negli anni Novanta, di come la cronopolitica culturale si sia atrofizzata e sia divenuta un culto anemico della nostalgia, un’ossessione e una fissazione antropomaniacale sulla nostra finitudine e sulle nostre care memorie.

Sotto la superficie intonsa di questo rifiuto morale di ogni ripetizione del passato e del mondo «neoliberale» tout court, scalcia un autore molto più ambivalente nei confronti del panorama pop «massificato» e della nostra memoria elettrica. 

Il lato più doloroso di questa marginalità è certamente notare come si sia costruita una triste vulgata pseudocritica sull’idea di memoria tecnicamente riproducibile sciolta dal soggetto della memoria stessa e, più in particolare, intorno al cadavere di Mark Fisher. È facile notare, infatti, come si sia assemblata spontaneamente una massa torbida che ha brandito i resti del teorico britannico per giustificare un atteggiamento risentito e, nel peggiore dei casi, pretesco nei confronti del mondo mediato dalla nostra memoria espansa. Armati di Realismo capitalista, esibito come il Libretto Rosso di una Rivoluzione Culturale pallida e agonizzante, e pronti ad accusare ogni nemico di essere infetto del morbo del vampirismo teorico, questo gruppo ha trasformato l’opera di Fisher in una triste invettiva contro la stagnazione (culturale ed economica) contemporanea – un’opera di denuncia moralmente distaccata da questa stessa presunta stagnazione e liberata da ogni tipo di contraddizione interna. Con il tono di chi la sa lunga, questa congregazione di spiriti in esilio, lontani dalla terra promessa della rivoluzione, ha appeso le sue maledizioni sul portone del «neoliberismo» – termine ultra-polisemico, capace di inglobare in sé ogni cosa, senza bisogno di troppe spiegazioni o precisazioni – e si è relegata nel suo angolino nero in cui poter compiangere la lenta cancellazione del futuro, ignara di quanto il presente produca costantemente vie di fuga dal tempo maggioritario.

Il punto in cui questo tipo di letture fisheriane si è concentrato in maniera più virulenta, raggiungendo il suo apice, è stato sicuramente la critica all’hauntologia, la denuncia di tutte quelle forme culturali che ripetono in maniera pedissequa i fantasmi di un passato morto e sepolto o di un futuro che non si è mai materializzato. 

Col tempo, però, è diventato sempre più difficile capire come questi Ghostbusters stessero combattendo la good fight della rivoluzione, ammonendo, senza troppi risvolti pratici o politici, tutti coloro che non davano una scossa al sistema e costringendo l’artista o la figura pubblica di turno a dimostrare simultaneamente una totale estraneità all’ideologia neoliberale e una capacità quasi innaturale di partorire, ex nihilo, dei lavori culturali assolutamente e indubitabilmente nuovi, o che perlomeno non si adagino troppo in fretta sulle convenzioni sociali del mondo che li circonda. Sembra quasi che questo tipo di critiche siano progressivamente diventate, in Italia e all’estero, una sterile prova di forza astratta, volta a mondare il panorama artistico da ogni potenza non-rivoluzionaria, da ogni movimento che non si situi al di fuori del presente e al di sopra della stagnazione sociale in cui, oggettivamente, ci troviamo a vivere. Citazioni come: «“Ripetizione” è il nome che designa la nostra condizione culturale, una cultura che riproduce un’infinità di remake di altri remake. Mentre gli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta e Ottanta erano contraddistinti da stili ben definiti nel design, nella moda, nella musica e nell’arte, dagli anni Novanta a oggi sembra di vivere in un gigantesco remix. Siamo intrappolati in un loop di cultura boomer» sono diventate forme di critica vuote, volte a denunciare uno stato culturale moralmente decadente, ma materialmente inattaccabile. Sono, ad oggi, indistinguibili dalle lamentele di un miliardario ipercapitalista qualunque in crisi d’astinenza da boom economico e da novità facilmente marketizzabili ai suoi simili. Fra l’altro, la citazione qui sopra è di Peter Thiel.

Raro reperto fotografico che raffigura un neo-fisheriano con caratteristiche thieliane.

Il vero peccato cardinale di questo tipo di operazione cronopolitica non è solo di essere teoricamente sbagliata da un punto di vista critico/culturale – e lo è eccome – ma soprattutto è di essere profondamente ingiusta nei confronti dello stesso Fisher. Sotto la superficie intonsa di questo rifiuto morale di ogni ripetizione del passato e del mondo «neoliberale» tout court, scalcia un autore molto più ambivalente nei confronti del panorama pop «massificato» e della nostra memoria elettrica. Scavando nelle carte del processo di beatificazione di San Mark, troviamo una persona profondamente nevrotica e concettualmente disfunzionale – unica, vera caratteristica teorica che ci accomuna a lui senza ambiguità. Fra le figure che l’agiografia ufficiale, debitamente disinfettata da comment section e scazzi da social media, tende a dimenticare e relegare in scritti apocrifi, ma di cui qualcuno porta ancora i segni impressi a fuoco nella propria mente, troviamo: Mark il Moralista, che scomunica pensatori a destra e a manca ma che accusa Twitter e gli SJW di moralismo; Mark l’Estremista, che passa senza battere ciglio dall’«anarco-capitalismo cyber-Stalinista apocalittico» al «tiepido umanismo da liberale di sinistra», per citare testualmente le parole di Rhian E. Jones e Carl Neville; Mark il Dogmatico, che scrive post sul suo blog in cui dà, senza troppi giri di parole, dello scemo a chi ha perso tempo a leggersi Kant e Bourdieu e molti altri Mark che sarebbe inutile elencare qui.

Tralasciando gli esempi evidenti che contraddicono questo moralismo monolitico e anti-hauntologico e lasciano trasparire le profonde contraddizioni che attraversano il pensiero e la vita online di Fisher  – si potrebbe anche citare l’amore che Fisher provava per The Caretaker, essere quintessenzialmente hauntologico e tornato alla ribalta fra gli zoomers travolti dalla time-sickness pandemica, o il ruolo che un personaggio odiatissimo come Drake giocava nelle sue opere Spettri della mia vita – ci tengo a sottolineare tutto questo perché esiste un filone di riflessioni fisheriane che vale la pena valorizzare, proprio in virtù della dissonanza che produce nel processo di ricezione e canonizzazione contemporaneo; un filone in cui il pop e la cultura mainstream diventano il luogo a cui l’underground deve tendere senza riserve e senza purismi, senza tapparsi troppo il naso davanti ai comportamenti «neoliberali» delle masse moderne.

L’innesto di questo tipo di riflessioni anti-fisheriane di Mark Fisher si trova, molto probabilmente, in uno scritto dei tempi della CCRU, buttato giù insieme a Robin Mackay per una conferenza tenuta durante l’ormai leggendario «festival culturale» (si fa per dire…) Abstract Cultures, intitolato Pomophobia. Il testo è una dichiarazione di guerra contro il postmodernismo, contro l’«orrenda autocoscienza» e il «triste carnevale dell’autenticità negativa» della cultura contemporanea (il titolo stesso è una storpiatura del termine omofobia, ora trasfigurato nella fobia del pomo, abbreviazione inglese di postmodernismo). Fisher e Mackay riprendono un vecchio ritornello nietzschiano, secondo cui un’epoca satura di storia e autocoscienza è dannosa e apertamente ostile alla vita, e lo attualizzano alla noia post-umana degli anni Novanta. Il testo resta uno scritto feroce, specialmente per dei lettori che si trovano a vivere in un mondo ancora ossessionato dalla storia e dalle nostre piccole, mediocri nevrosi.

La soluzione a questa noia cosmica, a questa capacità ipertrofica di concettualizzare e psicanalizzare ogni singolo brandello di realtà è, se prestiamo fede alla doxa fisheriana, decisamente controintuitiva: i due autori propongono, infatti, come (all’incirca) Bonnet, Gayraud e Lopatin, la ripetizione del passato come via di fuga dalle brutture (estetiche e politiche) del presente. La ripetizione dei cliché di epoche sparite nel gorgo della storia consensualmente accettata viene qui presentata come una forma di cultura sintetica radicale; un furto e una distruzione, una profanazione dello scorrere del tempo maggioritario e una ricombinazione sotterranea eterna, che mostra la totalità delle permutazioni criptate che si nascondono sotto la soglia della realtà. 

Essere popolari significa essere mortalmente e oceanicamente pop, fino al paradosso, incarnando le strutture sociali che ci circondano in toto, fino a renderle eterne, orrende e innaturali.

È, in altre parole, il metodo tipico del modernismo più efferato, del costruttivismo rivoluzionario sovietico e del futurismo più oltranzista, redivivo nelle pratiche sonore della cultura rave e club, dalla jungle all’hip hop: ruba, sfigura, distruggi e spingi il mondo che ti circonda verso i suoi bordi più estremi. Un’estetica, insomma, che non cerca immaginari nuovi o futuri perduti, ma lo shock della rottura e la veggenza della ripetizione brutale e militante del mondo che ci circonda.

Kurt Cobain incarna ciò che la theory scorpora, i terribili movimenti intestinali che lo appestavano trovano il loro corrispettivo disintensificato nelle pose intellettuali, nelle sopracciglia sollevate dell’ansia accademica urbana. Smells like Hegelian spirit. Al contrario, la cultura sintetica disorganizza i regimi docilizzanti delle politiche disciplinari del corpo. L’hip hop e la jungle lavorano sul corpo, non nella luce dell’espitemoscopia lumotopologica della mummificazione necrospettiva, ma nelle zone oscure in cui non fai in tempo a pensare che cosa significa ciò che hai davanti prima che sia già accaduto […] la musica sampleoide e i videogiochi emergono come le avanguardie della cultura sintetica proprio per il loro esplicito macchinismo, per la loro funzionalità a-significante […] Lungi dall’essere imprigionata nel passato, la cultura sintetica libera il surplus macchinico dell’esistente, stirando e distorcendo il tempo in circuiti somatici non-organicamente programmati di velocità e lentezze inumane.

Chiaramente, il neo-fisheriano hauntologico e risentito potrebbe rispondermi, brandendo il suo ditino da professorino umanista, che questo era solo un abbaglio giovanile, un testo scritto da un Mark Fisher che doveva ancora scoprire la sua vera anima, socialista, socialdemocratica o populista, a seconda dei fetish prediletti. Nondimeno, è facile notare che questa passione per la cultura sintetica e di portata eonica, che si appropria del mainstream per romperlo, distruggerlo e mostrare il tempo che pulsa sotto il presente, rimase estremamente importante per il critico inglese, restando una tensione taciuta e latente in tutti i suoi lavori maturi. Prendiamo, ad esempio, il modo in cui Fisher trattava i Jam, gruppo rock inglese capitanato da Paul Weller, nel pieno della sua fase populista.

I Jam sono interessanti, secondo Fisher, per il loro essere manifestamente l’incarnazione di una politica estetica mod e popolare (non populista, ché «se c’è qualcosa che ci è stato insegnato dall’esplosione di cultura popolare sperimentale della seconda metà del XX secolo è che si può essere popolari senza essere populisti»), per il loro aderire senza riserve a una forma culturale perfettamente in linea con un certo tipo di esistenza pubblica tipica dell’Inghilterra moderna. Ciò che salta immediatamente all’occhio è il modo in cui Fisher definisce, però, mod e popolare.

Ci tiene subito, infatti, a sottolineare che mod sta per moderno, nel suo senso più distruttivo – uno stile anfetaminico, orientato verso un futuro perfettamente alieno alla vita umana, allontanato il più possibile dagli stucchevoli revival anni Cinquanta che ci appestano dagli anni Ottanta. Ancora più forte e netta, però, è la distinzione di popolare; non tanto perché Fisher gli dia un significato particolarmente nuovo o inedito, ma perché gli attribuisce il senso più scheletrico ed essenziale possibile: popolare è ciò che vive nella pubblica piazza, diventando tutt’uno con l’immensità del mondo spettacolare che ci circonda. In altre parole, quell’eterna comunione tecnoscientifica che Gayraud ha definito l’utopia della popolarità. Popolare è ciò che prospera in mezzo a tutti irrispettoso dei contesti locali e temporalmente codificabili, portandosi in spalla tutte le contraddizioni della sua epoca senza mezzi termini e in maniera paradossale – ignorando le piccole cose di pessimo gusto, la preservazione identitaria e i particolarismi antropologici che tanto piacciono ai populisti contemporanei. Essere popolari significa essere mortalmente e oceanicamente pop, fino al paradosso, incarnando le strutture sociali che ci circondano in toto, fino a renderle eterne, orrende e innaturali.

I Jam davano il loro meglio quando venivano suonati in spazi pubblici, sui mezzi di comunicazione di massa. Il fatto che fossero popolari era essenziale; i dischi guadagnavano potenza quando sapevi che erano al primo posto in classifica, quando li vedevi a Top of the Pops – perché non eravate solo tu e il tuo ristretto gruppo di iniziati a sentirli; li aveva sentiti pure il (grande) Altro […] la mediazione di massa trasformava gli affetti della musica, non si limitava a rappresentarli; dopo che venivano annunciati e il focus si stringeva su di loro, erano le emozioni stesse a essere esperite diversamente. E si potrebbe tranquillamente dire che tutto questo era rielaborato coscientemente da Weller, con le sue affiliazioni mod(erniste) e la sua fame per nuove sensazioni.

La musica dei Jam, per Fisher, amplifica e realizza la sua natura di strumento di propaganda proletario trasmettendosi, come se fosse la chiamata di un regime politico immaginario, attraverso le frequenze delle radio nazionale, che anche per Fisher, come per Lopatin, si dimostra una potentissima Twilight Zone cronopolitica, travolgendo tutti nel suo cammino, senza troppo riguardo. Per quanto il post sia attraversato da una critica anti-hauntologica il punto resta sempre lo stesso: pomofobia assoluta, la dialettica si gioca nel ventre della cultura popolare e con armi moderniste e pure un po’ rozze. 

Anche il socialismo si crea nell’eternità reale dei mass media, con le tecniche di seduzione di massa del pop e all’ombra di un tempo che non è il nostro. Anche nel Fisher più umanista e politicamente impegnato non c’è alcun tempo con cui giustificare la propria nostalgia.