Make worlding, not babies!

Videogiochi, dischi, progetti d’arte e saggi di demonologia: una volta si parlava di «opere-mondo». Adesso è il momento di interi universi capaci di far esplodere la nostra stessa realtà

You Can (Not) Create 3.0 + 1.0

Con l’avvento dell’ormai celebre primo capitolo della saga di Dark Souls nel 2011, il mondo dei videogiochi è stato testimone di un radicale cambio di rotta per ciò che riguarda la creazione di narrative, iniziando un lento processo di infiltrazione in un più ampio sistema di produzione mediatico e artistico. La nota peculiarità della serie Souls e delle sue varie emanazioni (Bloodborne, Sekiro: Shadows Die Twice, ecc.) riguarda, nello specifico, il metodo indiretto di costruzione di ambienti centrato sull’impiego di elementi visivi e sonori posti nel background. Un semplice suono ambientale può rivelare infatti dettagli nascosti sulla cosiddetta lore del mondo di gioco, così come la particolare forma di un abito può dare informazioni cruciali sulla storia di un personaggio. Ne sono esempi il disperato pianto dell’Orfano di Kos in Bloodborne o la mefitica forma della corona del Re Senza Nome in DS3, riconosciuta come uno dei più lampanti modelli di narrazione indiretta.

Per quanto il concetto di lore non sia di dominio assoluto del campo videoludico – l’intera produzione di Lovecraft può essere considerata, in un certo senso, come uno dei più noti esempi di tale metodo di costruzione –, è innegabile che sia stato il game design, in quanto macro-linguaggio, ad averlo reso uno strumento fondamentale in quello che viene definito world-building.

La creazione di mondi, intesi come ecosistemi in cui la narrazione diviene parte integrante dello spazio di interazione, è una pratica volta a decostruire i codici di uno specifico ambiente per poterlo riconfigurare mediante elementi provenienti da ambiti differenti. Il teorico Hiroki Azuma nel suo testo Otaku: Japan’s Database Animals descrive tale sistema di codici come database: un’architettura multiforme formata da diversi linguaggi – o narrative, in questo caso – la quale si distacca dalla visione moderna di un unico livello interno di lettura. L’analisi di Azuma prende avvio dalla percezione di una data narrativa in relazione al database da cui proviene. Considerati come linguaggi provenienti da origini differenti, tali insiemi di codici eterogenei formano un database prendendo parte a combinazioni disparate. Azuma si focalizza principalmente sulla fruizione di un universo vasto come quello che compone l’anime Neon Genesis Evangelion, nel quale codici culturali differenti – come l’immaginario mecha, il valore politico della cultura otaku, i riferimenti a teorie post-umane e le citazioni cabalistiche – formano uno dei database più influenti dell’epoca contemporanea.

Ciò che questo studio mette in rilievo è la capacità di dare forma a mondi affettivi autoconsistenti tramite un insieme molteplice di linguaggi, simboli e altri frammenti culturali. A tal proposito, è innegabile l’influenza del database creato da Hideaki Anno per Evangelion nella realizzazione dell’altrettanto vasto database del pluripremiato capolavoro Death Stranding, firmato Hideo Kojima. In questo caso i confini comunicativi che separano i due mondi sono a tal punto labili da permettere un continuo scambio di interazioni tra i diversi codici impiegati. Ad essere comune, infatti, non è solamente il richiamo visivo e concettuale tra i finali delle due opere, ma anche la tematica di fondo, riguardante lo spettro emotivo post-traumatico dei personaggi, e le personalità stesse di Shinji Ikari (Evangelion) e Sam Porter Bridges (Death Stranding).

L’eredità nel world-building perpetrata dalla creatura di Anno è cosa certa, basti pensare alla produzione di manga quali Eden di Hiroki Endo o a videogames come Xenogears. Tuttavia, ciò che viene proposto dall’opera di Hideo Kojima sfrutta a pieno – e in maniera assolutamente non convenzionale – una serie di elementi propri del territorio su cui agisce il game design. Fin da subito viene presentato un database che utilizza sistemi indiretti per comunicare elementi del background narrativo (come le mail colme di dettagli di lore provenienti dai propri contatti nel mondo di gioco) i quali aiutano il giocatore a entrare in una storia priva di una linea narrativa totalizzante. Le descrizioni che accompagnano le schede tecniche di elementi appartenenti al mondo reale – film, veicoli, tecniche di artigianato, album musicali –, contenute nei chip di memoria collezionabili nel gioco, costituiscono veri e propri elementi concettuali che hanno influenzato Kojima nella costruzione di questo mondo.

Il dettaglio che più risalta nel world-building di Death Stranding riguarda, tuttavia, la creazione di un piano di fruibilità decentrato, reso possibile lavorando al sound design e al level design del gioco: in una sezione di gioco ambientata in un illusorio Vietnam bellico, si possono ascoltare le agghiaccianti registrazioni di urla spettrali nel background sonoro, una scelta affettiva assolutamente degna di nota in quanto si rifà ad una reale tattica militare sonica utilizzata dai soldati americani durante il conflitto. Il sound design non svolge più, dunque, una mera funzione accessoria di accompagnamento, ma ricopre un ruolo attivo nella costruzione di narrazioni ponendosi come un codice radicalmente nuovo e privo di confini delimitati.

Nel panorama contemporaneo, la creazione di mondi formati dall’interazione di codici differenti risulta uno dei punti focali nella proliferazione di nuovi metodi di approccio artistico e culturale. In ciò, il ruolo del game design risulta avvantaggiato, essendo di principio uno strumento per l’agglomerazione di linguaggi diversi. Ciononostante, il modus operandi tipico dei videogames si sta espandendo anche oltre questo campo, influenzando, per esempio, la stessa scena musicale contemporanea. Il comportamento liquido di settori come il game design o la musica sperimentale elettronica tendono sempre più a erodere quei limiti che li confinavano nei loro spazi di appartenenza, tanto a livello concettuale, quanto a livello politico e affettivo.


An abandoned oil rig stands in for the garden of Eden

La scomparsa di confini va intesa dunque in un duplice senso. Da una parte testimonia la difficoltà di racchiudere con un unico termine l’insieme di codici e medium differenti che sempre più frequentemente caratterizzano le narrazioni sviluppate da_ game designer. Dall’altra parte, segna l’espandersi della creazione stessa di mondi anche al di là del solo campo ristretto dei videogiochi. Come ha osservato Simon Reynolds, la spinta al world-building all’interno dell’avanguardia musicale contemporanea è sia un riferimento generazionale a dei mondi digitali ben precisi, di cui la grafica e il design divengono un indicatore assolutamente accurato, sia un desiderio di creare una realtà dai limiti spaziali e temporali sempre più sconfinati.

L’esempio perfetto, a questo proposito, è Paradiso, l’album debutto del musicista e co-fondatore dell’etichetta NON Worldwide, Chino Amobi. Le ventuno tracce del disco costituiscono l’architettura di un universo sonoro la cui geografia è deducibile dai rumori di natura differente che intervallano le parti musicali. Urla, versi animali, sirene e sparatorie interferiscono con la possibilità di un ascolto lineare dell’album, facendo intuire all_ ascoltator_ di non essere i soli a visitare le strade di Paradiso. La carta d’identità del musicista impiegata come copertina suggerisce d’altronde che lo stesso Chino Amobi non è altro che un cittadino e uno spettatore di questo mondo artificiale. Come viene mostrato nel cortometraggio che ha accompagnato l’uscita dell’album, in Paradiso i concetti di iperoggetti e dark ecology di Timothy Morton trovano una propria incarnazione visiva all’interno di ambienti che mescolano il Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch alle strutture dei prodotti Square Enix usciti a fine anni novanta. 

Similmente, il riferimento alla costruzione di mondi virtuali e all’estetica obsoleta legata a console abbandonate è parte fondamentale della produzione artistica del duo finlandese Amnesia Scanner. Mantenendo un atteggiamento schivo nei confronti di pubbliche relazioni e interviste, almeno fino all’uscita del loro primo album Another Life, gli Amnesia Scanner contribuirono con la loro identità misteriosa e con il loro sito – una labirinto-pattumiera di collegamenti esterni a video, immagini e simboli illeggibili – alla costruzione di un mondo autonomo rispetto alle loro personalità. Il testo che accompagna uno dei loro primi prodotti, il mixtape AS Angels Rig Hook del 2015, darà vita al loro database di codici e rimandi: parole che sembrano generate da un’intelligenza artificiale istruita con algoritmi paradossali e riferimenti a mondi divorati dallo stesso insieme di elementi di cui sono composti.

Grazie anche a riviste come Pitchfork, si era diffusa in rete l’idea che l’estetica degli Amnesia Scanner funzionasse come un rebus, un insieme di materiale il cui senso sarebbe apparso sola una volta trovata la combinazione giusta. Questa prospettiva presupponeva ancora che il significato, il contenuto del lavoro, considerato come la parte fondamentale dell’operazione artistica, si sarebbe rivelato una volta compresa l’opera come totalità chiusa in se stessa, o una volta chiarite le intenzioni dei creatori. Opponendosi a questa logica, gli Amnesia Scanner hanno ribadito che non vi è nessun segreto, nessun significato nascosto, celato dietro a questo strato esteso di rimandi. In un certo senso, ciò che diviene fondamentale è esattamente il contrario, ossia che l’infrastruttura di questo mondo – fondata sul proliferare di connessioni esterne, su un design che implicitamente rimanda ad altri universi virtuali e musicali ben specifici, e sul porsi in dialogo con l’internet culture – sia talmente solida da poter esistere indipendentemente dalle operazioni e dalle intenzioni dei suoi creatori.

La fagocitante proliferazione dell’ambiente creato dagli Amnesia Scanner è in grado di espandersi a tal punto da inglobare una sempre maggior quantità di codici e linguaggi a sostegno del proprio database virtuale. La realizzazione del video di «AS Chingy» è frutto del lavoro dell’artista Sam Rolfes, noto per le sue sperimentazioni nel campo dell’animazione 3D e della performance VR, oltre che per la sua carriera di producer e dj. Il video si presenta come una versione distorta di un ipotetico spazio a metà tra il reale e il virtuale, descritto come «uno scenario club da incubo». Ciò che Rolfes aggiunge al già vasto database degli Amnesia Scanner è una serie di oggetti, riferimenti e codici propri della sua pratica digitale. Come ha sottolineato Hiroki Azuma, il valore e le dimensioni dei mondi interessati dal suddetto scambio – il database di Rolfes influenza e, allo stesso tempo, è influenzato dal database creativo degli Amnesia Scanner – vengono rafforzati e incrementati.

Il lavoro artistico di Rolfes esplicita ulteriormente questo processo, dal momento in cui la sua intera produzione è basata su un concetto molto vicino a quello di world-building adoperato nel game design. L’esempio più lampante è il suo utilizzo di Unreal Engine, un motore grafico impiegato solitamente nello sviluppo di videogames. Nei suoi mondi, Rolfes dà vita a creature antropomorfe collassate su diversi livelli di riferimenti e immagini, molto spesso provenienti da progetti passati e collaborazioni con fashion designers o producers. Un esempio è il surreale video tour creato dall’artista per FACT Magazine, dove tramite un avatar e un sistema VR è possibile esplorare lo spazio virtuale della performance Morbid Angel nata in collaborazione con il collettivo multidisciplinare House of Kenzo, e realizzata in occasione del festival di mediazione artistica Day For Night. L’esplorazione del mondo creato da Rolfes culmina con l’illustrazione di alcuni elementi visivi di background, molto spesso dei semplici render texturali o modelli 3D creati per progetti precedenti, riutilizzati e decostruiti in un nuovo ambiente. L’assenza di un vero e proprio concetto totalizzante e univoco nei mondi di Rolfes è dettata principalmente dalla sua tecnica di assemblaggio di codici provenienti da universi grafici, musicali e performativi in un’architettura che funziona esattamente come un mondo di gioco virtuale.

Un esempio ancor più concreto di questo metodo di world-building è rappresentato dal CTM Festival 2021, l’evento annuale di arte transmediale – incentrato tuttavia maggiormente sulla dimensione sonora – tenutosi quest’anno sotto forma di piattaforma multiplayer a esplorazione libera, dal titolo Cyberia. Gli utenti possono navigare in una realtà virtuale dove poter assistere alle perfomance musicali degli artisti selezionati e comunicare tramite i propri avatar distorti e instabili, utilizzando chat ed emoji. L’ambiente, costituito da texture in continuo collasso, superfici labirintiche permeate di un light design caricaturale, e corridoi dai colori opprimenti, ricostruisce una versione contorta di una club scene deturpata dalla pandemia, in preda alla riappropriazione dei propri spazi tramite tecniche di guerriglia simili alle attività dei life-simulator. Gli avatar possono utilizzare comandi e azioni tipiche di un videogame – come cambiare le proprie skin, correre, saltare o volare – il tutto fornendo la possibilità di assistere alle performance musicali disseminate nella mappa tramite dei portali di accesso.

In questo senso, l’universo di Cyberia si fonda sulla commistione di estetiche da clubbing e linguaggi tipici del game design, come la struttura estesa in diversi ambienti, la presenza del perturbante sound design umanoide che accompagna i movimenti del proprio avatar, e la capacità di comunicare con una community virtuale in maniera analoga ai vari MMORPG. In ciò, il CTM Festival 2021 riesce ad accorpare l’aspetto politico della community musicale con quello delle vaste chat e gilde delle più famose piattaforme di gioco online, dimostrando, allo stesso tempo, la mancanza di una divisione netta tra i due territori e il valore affettivo di un simile database. Queste operazioni pongono lo scenario artistico di fronte a una nuova concezione di progettualità atta a erodere il riproporsi di strutture narrative consolidate. Gli input concettuali derivanti dal confronto con prodotti come quelli che compongono la saga Souls danno vita a degli spazi la cui dimensione, e la cui complessità, risultano dai legami che è possibile costruire fra i differenti codici.


Whether you are creating art, games, institutions, religions, or life itself: WORLD TO LIVE!

L’interesse per ambienti in grado di autosostenersi, e per l’esplorazione di mondi legati all’universo videoludico, si è consolidato al punto tale da aver trovato il suo posto anche all’interno di istituzioni artistiche tradizionali, spesso refrattarie nell’accettare nel loro olimpo culturale simili tematiche. Lo sviluppo di ecosistemi virtuali autosufficienti, ad esempio, è al centro della pratica artistica di Ian Cheng. Fin dai suoi primi lavori Cheng si è interessato a software che fossero in grado di stabilire delle narrazioni digitali i cui attori potessero scegliere casualmente come muoversi e come reagire alle interazioni con gli altri elementi presenti nello stesso ambiente.

Attento a indagare le ripercussioni psicologiche che gli ecosistemi hanno sulla formazione delle identità personali, Cheng ha fondato nel 2015 il Metis Suns, una compagnia dedicata esplicitamente al worlding. I tre episodi che compongono la serie Emissaries, realizzati dallo studio dal 2015 al 2017, sono simulazioni grafiche dalla durata infinita nelle quali lo spettatore, accompagnato da un emissario, segue visivamente sullo schermo l’esplorazione di un mondo artificiale. Come in un ecosistema reale, l’universo creato dallo studio muta in base ai differenti rapporti che si costituiscono tra gli agenti che lo abitano. Il frutto delle ricerche e delle sperimentazioni conseguite dalla creazione di questa trilogia è stato pubblicato sotto forma di guida pratica al worlding, nel quale le descrizioni delle tecniche e dei luoghi impiegati per l’ideazione degli Emissaries si alternano a riflessioni sul concetto stesso di creazione di mondi e sulle sue implicazioni speculative.

L’ultimo lavoro del Metis Suns presenta la pratica del worlding a partire da una prospettiva rimasta in ombra nelle opere precedenti. BOB (Bag of Beliefs), infatti, è una forma di vita artificiale simile a un serpente la cui personalità, intelligenza e carattere variano a seconda delle interazioni con gli spettatori. In modo simile al Tamagotchi, è possibile interagire con BOB mediante un’app che permette di scegliere cosa introdurre nel suo ambiente: tra i vari elementi che si possono selezionare sono disponibili diverse forme di cibo, ma anche oggetti che possono ferirlo o ucciderlo, come sassi e bombe. A differenza del Tamagotchi in questo caso lo sviluppo della creatura non è vincolato alle scelte di un singolo giocatore, ma da una folla sempre più grande di persone proveniente da tutto il mondo le quali, simultaneamente, cercano di attirare la sua attenzione attraverso gli oggetti donati. L’attenzione e le interazioni di BOB sono legate al rapporto di fiducia che si è stabilito con il singolo giocat_, ma quest’ultimo, a sua volta, è condizionato dal comportamento de_ altr_ partecipanti, creando così una rete di connessioni invisibili fra tutti gli utenti. Mentre nel caso degli Emissaries i diversi pattern erano vincolati alle relazioni generate all’interno del mondo digitale, nel caso di BOB sono le scelte provenienti da un altro mondo, il nostro, a produrre gli stimoli che direzioneranno la sua crescita.

Contrariamente a Cheng, l’artista canadese Jon Rafman si è interessato, inizialmente, all’esplorazione e all’analisi di mondi virtuali già costituiti, come Second Life. Rafman proponeva dei tour all’interno dei diversi luoghi che gli utenti di Second Life avevano liberamente creato, scegliendo come proprio avatar Kool-Aid Man: una caraffa umanoide dal sorriso perenne riempita di Kool-Aid, una bibita statunitense dal colore rosso acceso, nota in particolare negli anni Ottanta per i suoi spot in cui irrompeva in un ambiente distruggendo i muri che lo circondavano. Nel lavoro di Rafman, la mascotte americana portava lo spettatore a oltrepassare i muri che componevano l’urbanistica di Second Life scoprendo i luoghi dove le perversioni degli utenti prendevano vita in forme digitali.

In un certo senso, l’ultima opera di Rafman, la serie in corso intitolata Dream Journal, è il prolungamento di queste esplorazioni nella vita quotidiana. I Dream Journal sono infatti installazioni video nei quali Rafman ha realizzato delle animazioni prendendo come punto di partenza i suoi stessi sogni. Il susseguirsi caotico e vaneggiante di scene presentate con delle grafiche digitali volutamente antiquate – che ricordano non a caso Second Life – esplicita gli effetti che questi mondi virtuali stanno avendo sull’immaginazione collettiva, plasmando lo stesso mondo onirico. Nell’ultimo Dream Journal la protagonista del video si imbatte in diverse creature mutanti lungo il viaggio che la porta a ricongiungersi con il suo ragazzo, un incrocio tra una foca e un umano. La sensazione di spaesamento e fastidio derivante dal susseguirsi di scene bizzarre e nonsense è attutita proprio grazie ai rimandi indiretti a codici e immaginari i quali, come dimostra la popolarità di Second Life, sono ormai una parte consolidata della nostra quotidianità. È lo stesso passaggio da un universo a un altro – virtuale o meno – ad essere problematico: sogni fatti di pixel, questi personaggi spigolosi testimoniano che i confini tra narrazioni provenienti da registri differenti si sono resi sempre più porosi.


Ecosistemi opachi

Lo statuto ambiguo, ibrido, che accomuna questi lavori, indipendentemente dal loro essere esposti in musei o considerati degli album musicali, li avvicina a ciò che Andrea Pinotti ha descritto, in un’intervista per Kabul, come An-Icons: «immagini (cioè icons), che tuttavia cercano di negare (an-) il proprio stesso statuto iconico, presentandosi direttamente come se fossero quella realtà che rappresentano». Ciò che fa di un oggetto un’an-icon è proprio il campo di forze che mette in atto per mascherare la sua natura iconica attraverso il coinvolgimento dello spettatore in una realtà aumentata. Come scrive Pinotti, «per realizzare questo scopo, le an-icons sfruttano diverse strategie: non solo impiegano quello “scorniciamento” caratteristico degli ambienti a 360° […] ma anche quel forte effetto di “presenza” che sono in grado di provocare nel fruitore: questo, più che sentirsi di fronte a un’immagine, si avverte come dentro a un ambiente, che gli offre cose da fare e spazi da esplorare. Ma il tratto forse più paradossale di questo tipo di immagini è la loro natura tecnologicamente molto sofisticata, che viene impegnata a ottenere un effetto di realtà e naturalità: si tratta di immagini idealmente “trasparenti”, volte a dissimulare l’opacità del medium e a proporsi come “immediate”, cioè non mediate».

Tracciando una possibile archeologia delle an-icons, Pinotti suggerisce che queste caratteristiche potrebbero essere adatte a descrivere tanto la prospettiva rinascimentale e l’uso del Trompe-l’œil, quanto i visori VR e il cinema 3D. Tuttavia, è proprio seguendo l’approccio opposto, ossia facendo leva sulle differenze e particolarità degli esempi citati di world-building che è possibile mettere in luce le loro specificità. In particolare, un importante fattore discriminante può essere rivenuto osservando le strategie adoperate dalle immagini nel loro tentativo di fingere una presenza non-mediata. Come hanno sottolineato Camilla Compagni e Miriam Rejas del Pino nel numero di TBD dedicato alle immagini operative, durante il lockdown si è assistito a un proliferare di immagini che cercavano di simulare il funzionamento delle an-icons. Ma proprio i limiti materiali e tecnici di tali operazioni hanno portato a delle riflessioni sulla stessa tensione che lega la creazione di un’esperienza immersiva al medium impiegato: il riflesso del proprio volto sullo schermo, le interruzioni dovute alle continue pubblicità e la lentezza nel caricamento dei contenuti, devono essere considerati parti dell’opera stessa? Il fatto che queste domande sembrino inappropriate se rivolte a lavori come Paradiso o al world-building di Ian Cheng è indicativo della particolare operazione che, pur nella loro diversità, tali lavori mettono in atto.

Nel loro sconfinamento sonoro e visivo, e nella loro capacità di imporre la propria presenza, è possibile notare come il telos di queste opere non sia quello di negare la realtà. Mentre, infatti, per le an-icons la mancanza di un alto grado di trasparenza può essere letta come un elemento negativo, nei casi citati l’opacità preservata assume, al contrario, un ruolo positivo. La separazione tra l’opera e l’ambiente circostante crea infatti le condizioni necessarie per un distanziamento critico e speculativo propositivo. Il deficit di immersione, ossia la persistenza di un fuori campo potenzialmente disturbante che ci permette di distaccarci visivamente dalle opere-mondo che stiamo fruendo, fa di queste ultime degli universi immaginari e concettuali che permettono di ampliare, stratificare e complicare le narrazioni quotidiane in cui siamo immersi.

More brilliant than the future

La possibilità di trovare dei legami tra queste operazioni e l’ecosistema filosofico e artistico che si è generato a partire dalla CCRU (Cybernetic Culture Research Unit) non dovrebbe sorprendere. È lo stesso Emile Frankel, nel suo Hearing the Cloud, a evidenziare la vicinanza fra questi universi: i lavori di Chino Amobi e della sua etichetta NON Worldwide, con il loro invito a fare del suono uno strumento di inversione delle percezioni in grado di sovvertire le strutture di potere invisibili, sembrano proseguire, con una diversa grammatica musicale, la prospettiva afrofuturistica delineata da Kodwo Eshun in More Brilliant than the Sun. Analogamente, l’estetica futuristica e criptica degli Amnesia Scanner si colloca in piena continuità con il linguaggio visionario e frenetico che ha reso celebre la CCRU.

Al di là di queste affinità formali, ciò che è importante sottolineare sono le simili operazioni narrative e concettuali che tali universi condividono con l’immaginario speculativo-estetico associato alla CCRU. L’insieme di fiction e rigore concettuale presente nei testi della CCRU rende difficile classificarli come saggi filosofici o come pure sperimentazioni letterarie. La costruzione del numogramma, lo studio della numerologia e la descrizione di un Pandemonium sono esempi di operazioni linguistiche che generano interesse proprio per il loro ritrarsi dall’approccio impiegato abitualmente per i testi filosofici, pur ammiccando, allo stesso tempo, al rigore concettuale presente in questi ultimi.

L’impressione è quella di trovarsi di fronte a degli ampi congegni narrativi nei quali la lettura coincide con la produzione. La comprensione dei codici impiegati passa infatti per una costante costruzione di collegamenti e un continuo lavoro di creazione di altri testi – non a caso si tratta spesso di frammenti discorsivi che si fondano sulla blogosfera. In questo modo è il sottotesto e il fuori testo a fare da collante alle differenti teorie dispiegate. Per queste ragioni, non risulta inappropriato parlare di una lore propria a testi come Cyclonopedia, Demonologia rivoluzionariao More Brilliant than the Sun: così come nella saga di Dark Souls,gli avvenimenti che costituiscono la parte più visibile e immediata dell’avventura sono meno importanti rispetto allo sfondo narrativo – e trovano parte della loro funzionalità grazie alla rete di connessioni creata dalla community nei vari thread su Reddit –, nei lavori citati la lettura e l’analisi del testo è meno importante rispetto alla ragnatela di rimandi su cui si fondano. 

Si tratta dunque di mondi nei quali molto spesso l’esplorazione coincide con la partecipazione all’espansione e alla creazione dello stesso universo. In base al loro coefficiente di apertura la complicità può essere intesa in un duplice senso: come lavoro di ricostruzione delle narrazioni mediante la speculazione e l’attenzione per i dettagli; o come ampliamento dello stesso mondo oltre i confini e i codici con cui era stato originariamente costruito. Per riprendere quanto lo stesso Eshun ha detto durante il suo discorso al memoriale della morte di Mark Fisher nel 2018, concetti come xenofemminismo, accelerazionismo incondizionato e afrofuturismo producono «una guerra di interpretazione eccessiva, una posizione che mira a intervenire nella politica culturale, che si modella per articolare un discontento, per concentrare la disperazione e la depressione in teorie per cui vivere, teorie che incarniamo e che vivono in noi, attraverso di noi, con noi e su di noi». Commentando questo passo, Frankel ha sottolineato il carattere politico-affettivo di tali mondi, derivante dal prendere parte alla cura e alla proliferazione di queste forme di vite culturali. Poco importa, infatti, che la costruzione di immaginari meno asfissianti rispetto a quelli in cui siamo immersi nasca grazie a un meme, a un concetto che si è riattivato vent’anni dopo la sua ideazione o ripopolando le lande desolate di mondi virtuali ormai abbandonati: l’importante è che sia iniziata.

Davide Tolfo si interessa di filosofia e arte contemporanea. Ha pubblicato per Marsilio Editore, La Deleuziana, Mimesis, Philosophy Kitchen e Twenty Cent Art.
Nicola Zolin è sound designer e co-fondatore dell’etichetta sperimentale Rest Now! recordings. Si occupa di musica, gaming, theory, arti visive e le intersezioni tra di esse. Ha pubblicato testi per Cactus Magazine e LaDeleuziana.