Maxim Arbugaev, Genesis 2.0

Documentare il futuro

Crisi climatica, automazione, robotica, geoingegneria, carne in vitro: da «More Human than Human» a «Genesis 2.0», cinque documentari che provano a gettare lo sguardo sul mondo che verrà

Il cinema che racconta il futuro non è soltanto una sequela di eroi che si muovono iperattivi davanti ad artificiosi green screen o una distopia che porta agli estremi i lati oscuri del presente, da qualche anno a questa parte è anche cinema documentario che, invece di tirare le somme e voltarsi indietro, ascolta scienziati, studiosi, filosofi e imprenditori che ragionano sui tempi che verranno. Il cinema documentario che si confronta con il futuro opera in deroga alla missione del documentario strettamente inteso: è una scommessa che fa – o forse è meglio dire farà – i conti con i cigni neri, le infinite variabili del possibile e margini non indifferenti di fiction all’interno dei lavori di nonfiction. Ogni documentario che si confronti con le criticità del presente dovrebbe proporre soluzioni, far seguire al racconto della/e crisi una pars construens, una prospettiva altra e questa seconda fase propositiva non può che essere declinata al futuro. Negli ultimi anni Cinemambiente, il principale festival italiano dedicato alle tematiche ambientali, ha selezionato un numero crescente di documentari che fanno emergere questioni di primaria importanza per il futuro dell’umanità, tanto che l’edizione svoltasi a Torino, a cavallo fra maggio e giugno, ha creato la nuova sottosezione Inventing Tomorrow all’interno della sezione Panorama.

The Truth about Killer Robots di Maxim Podzorovkin (Usa, 2018) parte da alcuni casi di cronaca per discutere in termini etici e legali della progressiva automatizzazione della nostra società. Che cosa succede quando una macchina infrange la prima legge della robotica di Isaac Asimov arrecando un danno a un essere umano? Di chi è la responsabilità se un uomo viene ucciso da un robot, com’è avvenuto nel 2015 a Baunatal, quando un operaio della Volkswagen è stato schiacciato contro una lastra di metallo da un braccio meccanico? E che cosa succede se un’automobile con un sistema di guida assistita impatta contro il rimorchio di un tir uccidendo il proprio pilota? Nel primo caso, dopo due anni di indagini, è stata rilevata la responsabilità di un collega della vittima, nel secondo la responsabilità del pilota stesso visto che l’automobile era a guida assistita e non autonoma. Nel maggio 2016 Joshua Brown ha perso la vita mentre stava vedendo Harry Potter sullo schermo della propria Tesla S dotata di Autopilot. La telecamera del sistema di guida assistita non ha riconosciuto il lungo rimorchio del camion e ne ha confuso il colore chiaro con una porzione di cielo. Il radar ha escluso pericoli ma il pilota non ha preso la guida, né ha frenato per scongiurare l’impatto. Nel suo film Podzorovkin gioca con l’ambivalenza del titolo sottolineando come l’aumento dell’automazione  sia il «killer» che mette in pericolo intere filiere dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi. Come ha ricordato Peter Frase al recente Salone del Libro: «La disoccupazione provocata dall’automazione è un fenomeno ultrasecolare. Ora sono le persone che scrivono di automazione a vedere messi in pericolo i propri lavori e questo tinge di un colore diverso questo tipo di problematiche, cosa che non avveniva quando a perdere il lavoro a causa delle macchine erano operai e contadini». Mentre le élite continuano a professare il loro inscalfibile tecnottimismo, le disuguaglianze che le tecnologie iniettano nella società continuano a essere sempre più diffuse e innegoziabili.

In More Human than Human Tommy Pallotta e Femke Wolting affrontano il tema dell’Intelligenza Artificiale partendo dall’immaginario pop interrogando esperti di AI e pionieri della robotica, suscitando un dibattito fra sostenitori e scettici e sollevando questioni morali ed esistenziali. Nonostante sia diventato noto per il suo romanzo distopico Robocalypse nel quale i robot si ribellano ai loro creatori e ribaltano l’ordine costituito, Daniel H. Wilson sostiene che la concorrenza dei robot farà fare un salto di qualità alla razza umana, portandola a un livello superiore di conoscenza e consapevolezza di sé. Più vicini all’immaginario di Ex Machina che a quello di Blade Runner, alla Hanson Robotics hanno prodotto Sophia, un robot umanoide che mantiene il contatto visivo, riconosce i volti, comprende i discorsi e riesce a tenere delle conversazioni grazie alle esperienze maturate e al machine learning. L’ambizione di avvicinarsi il più possibile all’umano non è solo il frutto di un lavoro sull’apprendimento automatico, ma è una ricerca dell’iperrealismo che ha portato al brevetto di  Frubber®, una pelle nanotech che imita la vera muscolatura e la pelle umana consentendo ai robot di esibire espressioni di alta qualità e simulare espressioni facciali umane. Il fondatore David Hanson ha le idee molto chiare sulla strada migliore per far evolvere il robot: perché l’apprendimento automatico sia davvero fruttuoso occorre che fra le persone e la macchina si instauri un rapporto simile a quello che i genitori hanno con i figli nei primi anni di vita. Ma se il machine learning si spinge troppo oltre e – come accaduto un paio d’anni fa – due chatbot iniziano a conversare in una lingua inventata escludendo i loro programmatori? È sufficiente staccare la spina come hanno fatto i ricercatori di Facebook?

Thermostat Climatique di Arthur Rifflet racconta come, sotto la pressione del riscaldamento globale, scienziati e centri di ricerca stiano testando tecnologie che ritengono possano essere in grado di rallentare o persino invertire gli effetti del riscaldamento globale. Lo Stratospheric Aerosol Injection, per esempio, prevede di indurre un oscuramento globale (simile a quello che avvenne dopo l’eruzione vulcanica del Monte Pinatubo nel 1991) a partire dall’aerosol di solfati stratosferici sparsi ad alta quota da aerei o palloni aerostatici. L’alternativa dal basso a questa tecnica è il sistema Marine Cloud Brightening per la gestione delle radiazioni solari che ipotizza la creazione di navi dotate di altissime ciminiere in grado di captare l’acqua marina e trasformarla in aerosol da immettere alle alte quote. Rifflet mostra come siano ormai nell’ordine delle centinaia i brevetti della geoingegneria che vuole rimodellare il Pianeta contrastando il global warming. Fra i progetti più suggestivi vi è sicuramente ICE 911, la no profit dedicata al ripristino dei ghiacciai artici. La progressione dell’aumento di temperatura nell’Artico è doppia rispetto alla velocità di riscaldamento del resto del Pianeta e la perdita di ghiaccio artico contribuisce per un terzo all’aumento della temperatura globale, questo avviene perché viene meno il potere riflettente del ghiaccio. Per circa un decennio i ricercatori di ICE 911 hanno testato e perfezionato delle microsfere cave che fungono da strato riflettente sul ghiaccio polare. Secondo i loro test, una volta disperse in posizioni strategiche limitate, le microsfere avrebbero il potere di ripristinare lo scudo termico naturale dell’Artico e di stabilizzare il clima della regione. Effetti collaterali dello spargimento? Alla ICE 911 assicurano che la polvere non crea danni né all’uomo, né agli animali, né tantomeno alla vita acquatica: si tratta di vetro.

Uno dei nodi centrali della crisi climatica è l’alimentazione. Come nutrire un Pianeta in costante crescita demografica? Come sostenere una filiera, quella della carne, la cui produzione è quintuplicata negli ultimi cinquant’anni? In Vitro Meat, documentario della serie olandese Backlight firmato dal reporter scientifico Rob van Hattum, prova a rispondere a queste domande mostrando come la produzione di carne in vitro sia l’avanguardia della scienza alimentare. Ogni anno, per soddisfare la richiesta di carne, vengono macellati almeno 50 miliardi di animali provenienti da allevamenti che producono un quinto delle emissioni di CO2 sulla Terra. La carne in vitro sembra essere la risposta a questo problema. Pioniere della coltivazione della carne è stato Willem van Eelen, un ricercatore olandese morto nel 2015, all’età di 91 anni. I suoi brevetti sono stati acquisiti da alcune società della Silicon Valley che hanno fiutato l’affare visto l’aumento esponenziale della richiesta di carne. Fra queste vi è Just, l’azienda di Joshua Tetrick che in un video promozionale di un paio d’anni fa mostra una tavolata di amici intenta a mangiare carne di pollo, mentre lo stesso cammina indisturbato nel prato antistante. A rendere possibile questo pasto carnivoro senza vittime sono le cellule staminali coltivate con l’aggiunta di proteine. Dalla presentazione del primo hamburger artificiale avvenuta a Londra nel 2013 a oggi sono stati fatti passi da gigante e le aziende che operano nel settore – oltre a Just anche Mosa Meat, Finless Foods e Memphis Meat – stanno lavorando per rendere la produzione in vitro sempre più economica, in modo da renderla appetibile per le imprese dei settori dell’alimentazione e della ristorazione che hanno nella carne il proprio core business. Crudeltà, impatto ambientale e sicurezza sanitaria sono i tre pilastri dei sostenitori della carne in vitro. L’attivista Paul Shapiro, autore del libro Clean Meat, è sicuro che le prossime generazioni guarderanno ai carnivori di oggi e del passato in maniera estremamente critica, chiedendosi come la nostra società abbia tollerato una violenza così sistematica e diffusa nei confronti degli animali.  

A quarant’anni dal seminale Il principio responsabilità di Hans Jonas, dunque, il mondo del documentario si interroga sempre di più sull’impatto dell’attività umana e sulle nuove coordinate etiche imposte da una tecnologia che evolve a ritmi sempre più insostenibili per l’uomo. In tal senso vale la pena segnalare due documentari visti nelle passate edizioni del festival torinese che hanno anticipato i temi futuristici di Inventing Tomorrow: Into Eternity: A Film for the Future di Michael Madsen e Genesis 2.0 di Maxim Arbugaev.

Il primo, con stile kubrickiano, guida gli spettatori alla scoperta di Onkalo, il centro di stoccaggio permanente di scorie radioattive che l’azienda Posiva sta costruendo nel sottosuolo finlandese. Al termine dei lavori – previsto nel 2100 – il centro di stoccaggio dovrà contenere tutte le scorie radioattive prodotte in Finlandia dall’introduzione dell’energia atomica. Per mettere le scorie nucleari al riparo da calamità naturali e atti di terrorismo verrà scavato un tunnel di quattro chilometri che condurrà sino a 500 metri di profondità. Una volta conclusi i lavori, il sito dovrà restare sigillato e cementificato per 100.000 anni. Quale linguaggio riuscirà ad avvertire gli uomini dei prossimi millenni dei pericoli che si correranno varcando la soglia di Onkalo? Gli uomini del futuro disporranno degli stessi sensi o ne avranno sviluppati di ulteriori? Sapranno ancora leggere? Domande che galleggiano nell’atmosfera rarefatta e kubrickiana di questo capolavoro del documentario contemporaneo.

Genesis 2.0, trionfatore nell’edizione 2018 di Cinemambiente, si svolge fra le isole siberiane dell’Oceano Artico e la Corea del Sud e racconta la prometeica ricerca di una carcassa di mammut che possa riportare in vita, attraverso la clonazione, questa specie estinta. Dalle storie ai confini del mondo dei cacciatori d’avorio, la narrazione si sposta alla Sooam Biotech, dove facoltosi padroni fanno clonare i propri cani spendendo fino a 100.000 euro. In uno scenario naturale davvero unico, con una regia che guarda a Werner Herzog, Arbugaev firma un’opera che descrive un arco temporale che va dal Pleistocene all’Antropocene. È cinema che non ha paura di spingere la narrazione oltre i consueti limiti spaziotemporali e non si ferma di fronte a una sfida che sembra un’inconciliabile antitesi: documentare il futuro.

Davide Mazzocco Giornalista free lance, regista di documentari, cicloscalatore, si occupa da anni di cultura, società, comunicazione e ambiente per il web e per la carta stampata. Ha all’attivo una decina di pubblicazioni fra cui Giornalismo digitale (2012), Giornalismo online (2014), Propaganda pop (2016) e Cronofagia (2018).