Non saranno i mammut a salvarci

Il permafrost si sta sciogliendo, liberando microbi e anidride carbonica. Per fermarlo, c’è chi pensa di ricostituire l’ecosistema del Pleistocene e resuscitare mammiferi scomparsi. Servirà?

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Il permafrost è uno strato di terreno che per definizione è «permanentemente gelato». Si trova nel sottosuolo ad alta quota ma soprattutto ad alte latitudini: il permafrost si nasconde sotto il 20% delle terre emerse. Negli ultimi anni sta iniziando a sciogliersi a un ritmo inverosimile.

È ghiaccio grigio che non smette di colare. Sulle rive del fiume Kolyma, dove studiano sul luogo Sergej Zimov e suo figlio, il permafrost recede di tre metri ogni estate, liberando microbi che hanno dormito per 20.000 anni. Si risvegliano, e iniziano a divorare tutta la materia organica che possono. Più il ghiaccio si scioglie più i microbi avanzano, producendo quantità enormi di anidride carbonica e di metano (CH4, trenta volte più riscaldante come gas serra rispetto alla CO2). Soltanto nei primi tre metri di permafrost sono intrappolati 1000 miliardi di tonnellate cubiche di carbonio organico. Per farsi un’idea: dalla rivoluzione industriale a oggi abbiamo pompato l’equivalente di circa un terzo. E iniziamo a farci un’idea di cosa significhi.

L’idea di Sergej Zimov invece è di natura geoingegneristica: Zimov vuole ricostituire l’ecosistema siberiano del Pleistocene popolando le sue terre di bisonti renne e cavalli, resuscitando addirittura il mammut. Di nuovi mammut si parla da qualche anno, e non ha nessun senso – lo stesso Zymov sembra scettico, si accontenterebbe di qualche elefante ibridato con dei geni di mammut. Reintroducendo la fauna che popolava la tundra prima della comparsa dell’uomo, si esporrebbe più terra al freddo siberiano, abbassando la temperatura del sottosuolo, rallentando lo scioglimento del permafrost.

In un video di Vice HBO viene detto che il 61% dei russi non crede nell’idea di un riscaldamento globale antropogenico: in un altro articolo viene detto che sono il 18%. Difficile disporre di statistiche sensate a riguardo, ma sembra probabile che l’opinione pubblica tenda ancora allo scetticismo; per lo meno, la televisione di Stato, guardata ogni giorno da almeno 100 milioni di persone, insiste su questa agenda, e così Putin.

Lo scorso ottobre, a una conferenza sull’energia sostenibile «in un mondo in trasformazione», Putin non ha negato l’esistenza del riscaldamento globale. Ha però precisato che non ne conosciamo le vere cause: «restano oscure, non ci sono risposte riguardo le cosiddette emissioni antropogeniche. Le ragioni potrebbero essere globali, per esempio qualche trasformazione cosmica che non possiamo neanche vedere, in questa galassia… […] Molti esperti, pensano che le nostre emissioni siano parte del problema, ma che non abbiano tutta questa influenza».

Una componente tipica del paesaggio di alcune fasce siberiane sono i grappoli di pingo (che è un termine degli inuit in Canada; in lingua yakutabulganniakh, in geologese idrolaccoliti), montagnole create dalla pressione idrostatica che spinge il ghiaccio verso la superficie. Possono arrivare a settanta metri di altezza, seicento di diametro. Se dovessi spiegarli ai nostri dodicimila nonni, direi che sembrano dei vulcani di ghiaccio. Quando la pressione del permafrost è troppa la bolla esplode/collassa: di solito le doline «classiche» nascono fagocitando il terreno. Da qualche anno abbiamo capito che in presenza di metano il fenomeno diventa esplosivo. In ogni caso, si apre un nuovo panorama. Spesso nascono nuovi laghi.

Per secoli i cacciatori nomadi hanno sacrificato le loro renne ai piedi di questi giganteschi crateri che si aprivano nella terra. Erano dei misteri. Ora che conosciamo grossomodo l’origine di questi crateri ne nascono sempre di più, e ci fanno paura lo stesso. Con l’aumentare delle temperature le voragini sono destinate ad aumentare. Con l’aumentare delle temperature il ghiaccio è destinato a fondere: più fonde e più si effondono metano e anidride carbonica nell’atmosfera.

I video di cui abbiamo parlato aprono a nuovi immaginari, per quanto preoccupanti. Scienziati camminano su un terreno che si muove, come fosse un materasso ad acqua; dalle fenditure nella neve escono vampate di metano, visibili avvicinando anche una fiammella; depressioni di centinaia di metri diventano  ecosistemi circondati da chilometri di muri a piombo, grigio-neri, che non smettono di sciogliersi.

La terra trema, i piedi non sanno più dove stare. Una realtà che abbiamo chiamato permafrost – permanent frost, gelo permanente – si sta sciogliendo. A cosa servono le parole, in un mondo che cambia? Quella del permafrost, come altre storie che abbiamo raccontato e continueremo a fare, è una storia di trasformazione. Per vivere si attraversa la trasformazione.

Mi è venuto in mente un racconto di Evgenij Zamjatin, uno scrittore sovietico tristemente sottovalutato. Elegante, pionieristico. La caverna racconta di una coppia rintanata in un appartamento di Leningrado. Sopravvissuti alla rivoluzione e alla guerra civile, Martin e Mascia stanno morendo di freddo. Non c’è più legna e non sanno come procurarsela; Martin riesce a rubarne al vicino e viene scoperto. Sbuca allora un flaconcino con la soluzione blu dei loro problemi, veleno, ma ce n’è solo per uno. Mascia lo implora, «va a fare due passi. Pare che ci sia la luna, la mia luna, te ne ricordi?».

No, non c’era la luna. Nuvole basse e oscure: la volta. E tutta un’enorme caverna piena di silenzio. Passi brevi, infiniti, tra le pareti; le rocce ghiacciate, nere, simili a case, e nelle rocce buche profonde, illuminate di rosso; là nelle buche, vicino al fuoco, gli uomini piegati sulle ginocchia. Una corrente di aria, leggera e gelida, spazza via la polvere bianca da sotto ai piedi. E sulla polvere bianca, sui blocchi, sulle caverne, sugli uomini piegati sulle ginocchia, il passo gigantesco e misurato di qualche super-mammut…

Il racconto finisce così.