Autoimmunità

Perché il corpo umano si rivolta contro se stesso? Dalle patologie autoimmuni al «cosmotrauma» passando per l’horror autotoxicus, ipotesi sulla malattia come forma di resistenza

Io provavo timore reverenziale del mio corpo; questa materia alla quale sono legato mi era diventata così estranea. Io non ho paura degli spiriti, dei fantasmi, io sono uno di loro; questa paura potrebbe averla il mio corpo; io invece ho paura dei corpi, tremo all’idea di incontrarli.
Henry David Thoreau (I boschi del Maine, 1864)

Clinicamente con «autoimmunità» si intende un’anomalia del sistema immunitario umano che lo induce ad aggredire i propri tessuti e i propri componenti, in maniera costante, spesso senza soluzione e soprattutto senza un’apparente motivazione. 

Il sistema immunitario, costituito naturalmente per distinguere ciò che gli appartiene dalle minacce esterne, identifica parti sane del corpo come ostili, assalendole esattamente come fossero virus o qualsiasi altro agente esterno, con esiti patologici più o meno gravi e quasi mai arginabili se non a costo di indebolire artificialmente l’intero meccanismo di difesa. Nel dopoguerra, in un oscuro braccetto con lo sviluppo capitalistico – e con le sue gemmazioni sociali, economiche, ambientali e tecnologiche –, le malattie autoimmuni hanno avuto un incremento esponenziale difficile da giustificare: negli ultimi quarant’anni, nel circolo dei paesi industrializzati, il numero di pazienti affetti da lupus è triplicato; nello stesso periodo i «paesi del benessere» nel Nordeuropa hanno registrato l’incremento del 3% annuo di malati di sclerosi multipla, e il diabete mellito di tipo 1 è quintuplicato. Il National Institute of Health stima che negli Stati Uniti, ad oggi, il numero di cittadini affetti da malattie autoimmuni abbia superato i 50 milioni. E non incrementano solamente i casi ma anche le tipologie: al lupus sistemico, al diabete di tipo 1, alla sclerosi multipla, all’artrite reumatoide, alla celiachia, alla tiroidite di Hashimoto, alla miastenia, alla sindrome di Sjögren, alla psoriasi, al morbo di Crohn e alle altre, se ne aggiungono di nuove ogni anno (attualmente il numero è salito a oltre cento e molte altre sono sotto osservazione dalla comunità scientifica). 

Il nodo principale risiede nella causa, che è ancora oggi un mistero medico, un enigma che appare in larga parte irrisolvibile. Vige dunque un clima di – per usare il lessico vandermeeriano – accettazione, sullo sfondo di una grossa fetta di popolazione afflitta da patologie che comportano quotidianamente dolore, abbattimento, rabbia, incomprensione da parte del sistema sanitario, debolezza, disabilità, rinuncia e una sensazione di degradazione interna dal sapore mortifero – che in fin troppi casi esercita effettivamente la sua fatalità. Nella medicina classica, e fino al Novecento inoltrato, si credeva che il sistema immunitario non potesse reagire contro le strutture del proprio organismo, una possibilità quasi fantascientifica a cui si era dato un nome altrettanto spaventoso: horror autotoxicus. Questione via via sempre più messa in discussione fino ad una prima battitura del termine alla fine degli anni Cinquanta, sulla scia di una nuova visione dei diritti dei pazienti e delle questioni immunitarie che sorgevano nel campo dei trapianti d’organo. Donna Nakazawa la chiama «la malattia occidentale».

Partiamo da un’ipotesi: che la trilogia sci-fi di Southern Reach di Jeff VanderMeer abbia concepito, forse indipendentemente, un’appendice ad Annientamento, Autorità e Accettazione, usciti a partire dal 2014. Un’appendice che condivide la prima lettera dell’alfabeto e un chiaro spasmo organico: Autoimmunità è un ingrandimento fantamedico sui corpi che entrano ed escono dall’Area X – una zona confinata da decenni, in cui una «nuova natura» pare esigere un proprio spazio e da cui raramente le spedizioni tornano –, e di pari passo supponibile ricostruzione a ritroso del processo di comprensione patologica del decorso cronico («accettazione», ma anche l’«autorità» di un sistema sanitario disfunzionale), fino alla decomposizione («annientamento»). 

Come le scintillanti e coloratissime rane velenose del Sudamerica, l’Area tarkovskijana descritta da Vandermeer sembra barattare in senso aposematico la bellezza comunemente recepita di una natura rigogliosa, «senza freni» che sta occupando una porzione di costa della Florida, con il rischio di una modulazione organica. E forse non è un caso che la dodicesima spedizione, al centro del racconto, sia composta esclusivamente da donne, che secondo la letteratura medica presentano un sistema immunitario più responsivo, e proprio per questo più passibile di affezioni autoimmuni rispetto alla controparte maschile – con un tasso d’incidenza più che doppio. Nell’aperto finale, l’Area sembra reclamare, oltre che uno «spazio di vita», anche una sorta di immunizzazione procedurale, giocata sul discrimine tra esterno e interno, alieno e terrestre, pandemico ed endemico, resistenza striata e mutabilità liscia, militarizzazione e intimizzazione corporea, con l’Area stessa che impara, replica il DNA umano e lo risputa al suo esterno in una versione già necrotizzata, ancora più imperfetta e malata. Chi riesce a uscire è colonizzato da velocissime e inconcepibili progressioni tumorali, con gli organi già in una fase di pre-collasso. In questo senso l’immagine che apre il primo libro è forse la rappresentazione autoimmunitaria più accurata: una torre-pozzo inversa che affonda nel terreno-corpo, autoinfliggendosi, e che soprattutto «non dovrebbe essere lì».

La coscienza, al pari del sistema immunitario, si forma come meccanismo di protezione per gli stimoli dal mondo esterno, ma lo stesso Freud non esclude che le psiconevrosi possano generarsi anche «dall’interno».

David Thompkins apparenta l’Area alla categoria mortoniana dell’iperoggetto: sistemi-entità troppo complessi, troppo intensamente distribuiti nello spazio e nel tempo perché siano controllabili e comprensibili dagli esseri umani; è una categoria espansa che comprende la formula chimica dell’uranio come l’estinzione di massa. Conviviamo quotidianamente con gli effetti distorsivi – talvolta lovecraftiani – degli iperoggetti ma senza poterli manipolare, preferendo nasconderli nel luogo delle astrazioni. E in effetti anche l’organismo immunitario può essere inserito in un orizzonte simile, a patto di intenderlo come recrudescenza geotraumatica, come il meccanismo di rigenerazione sclerotizzato che dilania, trasforma e assorbe Tetsuo nel finale di Akira nei modi di un’incontrollata moltiplicazione cellulare inizialmente intesa come difesa. 

La nozione di geotrauma, ispirata dalla CCRU e poi sviluppata da Reza Negarestani, soppesa l’idea di una violenza naturale eppure «innaturizzabile», giocata sul rapporto tra umano e non umano, che ribalta l’idea di trauma intesa da Freud, cioè come una profanazione, un’invasione che la psiche non può più assimilare. La coscienza, al pari del sistema immunitario, si forma come meccanismo di protezione per gli stimoli dal mondo esterno, ma lo stesso Freud non esclude che le psiconevrosi possano generarsi anche «dall’interno», secondo un processo pulsionale in cui forze consce e inconsce tentano di adattarsi al nuovo ambiente autoprodotto dal trauma. In una vertigine paradossale, Negarestani, seguendo uno svolgimento a ritroso, suggerisce che i traumi sono annidati uno nell’altro in una scala infinita, e che quindi dal corpo-psiche si possa procedere a un’estensione a rovescio, illimitata, che retrocede in quello che Sándor Ferenczi chiama l’ururtrauma, «la cicatrice primigenia», fino agli strati geologici e addirittura cosmici. 

A questo punto si ricollegano due istantanee che solo in apparenza sembrano lontane: da una parte i recenti report clinici che testimoniano come sia reale una connessione tra i disturbi post-traumatici e sviluppo di malattie autoimmuni, con un’incidenza che aumenta fino al 300%, e attraverso un’intrusione psichica che agisce eccitando la produzione di citochine infiammatorie; dall’altra parte ancora l’arca dell’Area X che lotta per una sopravvivenza terrestre, azionando un’immunità aliena che avanza secondo una serie di trial and error di acclimatamento biologico testato via via sui corpi (umani, animali, vegetali, minerali). 

Nel recente Spinal Catastrophism: A Secret History, Thomas Moynihan parla in proposito di «cosmotraumatica», utilizzando l’asse della spina dorsale umana come un collegamento ad coelum et ad inferos, tra uno zenit soprannaturale e un nadir ipogeo in cui dolorosamente si innesta, cicatrizzando il sistema nervoso periferico nelle sedimentazioni geologiche. L’uomo, come meridiano terrestre, scrive Moynihan, sembra dunque patire una sorta di dolore cosmico, di cui non percepisce la provenienza né tantomeno il fine, ma che avverte man mano che la posizione eretta e le concatenazioni vertebrali lo avvicinano alla volta celeste. Per Kant l’allontanamento dalla «prona beatitudine» è fonte di disagi e malattie, che possono andare dalla compressione dell’intestino alle emorroidi e alle vene varicose, dai tumori innescati dalla difficoltà del sangue che deve salire contro la gravità, fino alla «follia». Nei fatti, in gran parte patologie a carattere infiammatorio (a fine XVII secolo era stata descritta per la prima volta anche la spondilite anchilosante, artrite autoimmune che colpisce la colonna vertebrale), sono scatenate secondo il filosofo da un corpo che reagisce a se stesso in cambio dell’impulso ad avvicinarsi ai confini terrestri. In questo senso il professor Barker, uno dei tanti vettori «pseudoesistenti» creati dalla CCRU, immagina una retta geotraumatica che affonda l’ultima delle vertebre nel cratere messicano di Chicxulub, formatosi dall’impatto di un meteorite circa 65 milioni di anni fa, e sale in alto fino alle affinità topologiche del cranio umano col Vuoto di Boötes, o Grande Vuoto, un immenso campo spaziale quasi completamente privo di galassie.

Come detto, la più moderna assimilazione tra la durezza minerale dello scheletro e gli spasmi infiammatori del ventre terrestre nasce internamente alla CCRU, nel gruppo di ricerca di Warwick – su cui verrà strutturata anche la complessa mappa temporale del Numogramma –, ma retrocede, come spiega Mark Fisher in Flatline Constructs: Gothic Materialism and Cybernetic Theory-Fiction, anche in un altro «kantiano mutante», J.G. Ballard

Scrive Fisher, utilizzandolo in un atto estremo di apparente territorializzazione: «In Mondo sommerso, il disastro globale non si presenta come qualcosa contro cui i personaggi possono lottare, come se fosse semplicemente una minaccia esterna; l’innalzamento del livello delle acque porta cambiamenti nell’ambiente che producono un “rallentamento” nel metabolismo dei personaggi, una ricalibrazione delle loro fisiologie. Il viaggio attraverso il paesaggio è anche un’esplorazione del “corpo come paesaggio”. Lo scenario geologico è una mappa traumatica schizoanalitica del corpo umano; particolari caratteristiche geologiche sono correlate alle fasi di sviluppo dell’organismo (la cui organicità stessa è radicalmente negata dalla sua riassunzione in un processo anorganico). “Più ci si sposta verso la base del sistema nervoso centrale, dal romboencefalo alla spina dorsale passando per il midollo spinale, più si regredisce nel tempo neuronico. Per esempio, la congiunzione tra le vertebre toraciche e quelle lombari, tra la T-12 e la L-1, è la zona di transizione fra la respirazione branchiale dei pesci e la respirazione polmonare degli anfibi con le loro casse toraciche… proprio il punto di passaggio biologico in cui ci troviamo noi in questo momento, sulle sponde di questa laguna, tra l’era paleozoica e quella triassica”».

 

Così come il meccanismo autopoietico e immunologico dell’Area X costruisce corpi autodistruttivi che sono pura pulsione di morte, bomba a orologeria, l’intero apporto «cosmotraumatico» della fantascienza si inscrive in un sistema di patologie che replicano terrori clinici molto terreni, in cui l’autoimmunità ritorna spesso e volentieri come condizione che obbliga a fare i conti con se stessi, nella maniera più intima, nella solitudine dello spazio interstellare. L’estremo astrattivo di questo tragitto è ovviamente 2001 Odissea nello spazio (per quanto possa contare, essendo il confine di ogni visione), seguito da una sequela di variazioni body horror sul tema «malattie siderali» in cui però è il contagio e l’invasione patogena del corpo a primeggiare, come nei chestbursters di Alien – ispirati agli imenotteri parassitoidi – o nella sterminata lista di sindromi virali aliene di Star Trek, tralasciando come nel contesto autoimmune l’eroe e il mostro, il lupus stellaris, convergano. 

Non per questo però il nesso scolora; in un articolo scientifico di qualche anno fa, un team tedesco di medici ha ipotizzato una relazione tra malattia autoimmune e cancro, assimilandola a quella tra Predator e lo xenomorfo di Alien, con riferimento al film crossover tra le due saghe di Paul W.S. Anderson del 2004. In un passo della pellicola, un improbabile Raoul Bova, archeologo aggregato alla spedizione della Weyland Industries, solidarizza coi Predator chiarendo che «il nemico del mio nemico è mio amico», nell’urgenza di liberarsi degli xenomorfi. L’équipe di medici si chiede se questa antica regola possa essere usata anche in campo oncologico, avvalendosi dell’autoimmunità come antidoto reattivo. L’idea è quella di scatenare e riconvertire selettivamente l’aggressività autoimmunitaria verso un tumore completamente stabilito, che viene paradossalmente «adottato» dall’organismo come fosse una sorta di nuovo organo e addirittura protetto nella rigenerazione dai meccanismi immunitari stessi. Ciò che non viene citata, in questa virtualizzazione sci-fi, è un’altra frase che lo stesso Bova pronuncia nel film: «Chiunque vinca… noi perdiamo». In senso lato, e nel contesto patologico preciso, il «noi» espande la concezione del sé – che nella malattia autoimmune riveste un’importanza del tutto particolare, obbligando l’individuo non solo a rendersi antagonista al proprio corpo ma anche ai propri meccanismi di pensiero, come «allergico a se stesso» – come pulsione di morte biologica, ricanalizzazione di un dispositivo di sopravvivenza in un’azione suicida. 

Jacques Derrida, il filosofo che più si è occupato del concetto di autoimmunità come «pensiero del vivente», si riferisce alla definizione medica proprio utilizzando la tensione suicidaria di un organismo che lavora per smantellare le proprie protezioni e «immunizzarsi contro la propria immunità». Per Derrida l’autoimmunità non è semplicemente una variazione lessicale sul vocabolario decostruttivista, ma la perversione assoluta e inconscia della decostruzione stessa, autoinfezione della vita con la morte (e viceversa), pulsione non godibile percettibilmente attraverso alcun principio di piacere. Principio che semmai alberga nella dimensione sinistra, necrotizzata e automatizzata di un’insondabile natura biotanatologica che il filosofo descrive senza mezzi termini come terrore assoluto. Inoltre, per Derrida, ogni impianto decostruttivo – e a maggior ragione questo tipo di impulso – scavalca qualsiasi possibile oggetto per espandersi nel campo della politica, degli stati nazionali e dei sistemi economici. 

Alla luce di questo, e ricollegandosi alla descrizione patologica della fantascienza e al rapporto strumentale predatore-alieno, i frutti più calzanti in termini di science fiction si hanno quando ci si riavvicina percettibilmente alla Terra e alle sue complessità sociopolitiche, come nel caso del racconto di Geoff Ryman del 1989 The Child Garden. È il 2075 in una Londra dal clima tropicale, circondata da risaie e piante equatoriali, ed è un mondo già post-rivoluzionario, una rivoluzione resasi necessaria per salvaguardare il bios umano; all’inizio del millennio i biotecnologi statunitensi riescono a debellare, attraverso la sintetizzazione di un virus «predatorio», una pandemia di cancro diventata contagiosa. Ma solo dopo che il virus viene rilasciato nell’atmosfera si capisce che le cellule tumorali fungevano da paradossale stabilizzatore, permettendo agli individui di invecchiare. Senza di esse le persone muoiono entro i 35 anni; il dimezzamento dell’aspettativa di vita e la morte di massa dei più anziani instaura le condizioni per una rivoluzione politica, di stampo vagamente neomaoista. L’umanità tenta di adattarsi al meglio, e lo fa ancora attraverso l’arma del «controveleno» – dunque del Predator: i virus artificialmente modificati vengono ampiamente utilizzati come sistema di controllo globale, non solo come strumento medico ma anche e soprattutto sociale e antropologico, per gestire, tramandare memorie, conoscenze e abilità. I bambini non hanno matematicamente il tempo di crescere e formarsi scolasticamente, in una società dall’aspettativa di vita dimezzata servono il prima possibile persone produttive, e l’inoculazione di virus specifici sopperisce all’educazione tradizionale. Le persone del 2075 sono sorvegliate da una grande intelligenza artificiale di natura organica chiamata Consenso, una mente collettiva formata nei suoi strati superficiali da una foresta di ramificazioni carnose color porpora che tendono verso il cielo per cercare la luce del sole. Nei fatti una hive mind dalle precise proporzioni vandemeeriane, che risplende fino alle barriere coralline che circondano la Gran Bretagna. Consenso «legge» le menti dei bambini arrivati ai dieci anni in una sorta di interscambio virale (in cui ogni differenza socialmente conflittuale è normalizzata) e utilizza i dati in suo possesso per esercitare un potere decisionale centralizzato, in un’allucinazione che è la più diretta delle democrazie. La protagonista del romanzo è Milena, cecoslovacca, non integrata in Consenso perché naturalmente immune a qualsiasi virus. 

Visto da qualcuno come una sorta di groviglio tra Jubilee di Derek Jarman e un paesaggio di Max Ernst, il romanzo è in definitiva una narrazione del sistema immunitario figlia del suo tempo, lo scavallo tra Ottanta e Novanta, in cui si intrecciano i temi caldi dell’omosessualità e dell’AIDS (cioè collasso e negazione retrovirale di ogni protezione immunitaria); ma è anche un eccezionale sunto dei rapporti biologici che regolano la morte come eccesso di vita e la vita come eccesso di morte (esemplificati nella relazione alieno-predatore delle patologie), la tanatorivoluzione e il biopolitico, esclusione e inclusione (nella società, nel dolore fisico), immunitas e communitas, munus e autos, e dunque anche la riscrittura di un iperprotettivo potere hobbesiano – quello di Consenso – in cui le decisioni del vivere e del morire si infrangono. E soprattutto ci riporta, come ponte, da una dimensione fantascientifica dell’oltremondo alla complessità biologica, giuridico-relazionale e politica della Terra.

Giù in questo mondo, ci è stato raccontato che il grande male oscuro del nostro tempo è la depressione, come il risultato di una incompatibilità psicologica dell’uomo col sistema capitalistico. Un dominio linguistico della mente che ha una sua «letterarietà» (e una sua storia prettamente occidentale), di cui già Virginia Woolf pareva accorgersi in Ammalarsi: «Era lecito aspettarsi che interi romanzi fossero dedicati all’influenza; poemi epici alla febbre tifoidea; composizioni liriche al mal di denti. Ma no, a parte alcune eccezioni […], la letteratura fa del proprio meglio per sostenere che il suo interesse è per la mente, che il corpo è una lastra di vetro liscio attraverso la quale l’anima appare semplice e chiara». Certamente la sofferenza psicologica è innegabile, ma è solo una parte della catastrofe. Il reale male del nostro secolo è invece qualcosa di estremamente fisico: l’infiammazione. 

Don DeLillo nelle prime pagine di Rumore bianco, parlando delle metropoli e del modello di vita che impongono, scrive: «Tutta l’infrastruttura si basa sul calore, lo usa disperatamente, ne produce altro. La definitiva morte per calore dell’universo, di cui gli scienziati amano parlare, è già ben avviata a verificarsi: in qualsiasi città di dimensioni grandi o medie si sente ovunque che si sta realizzando. Calore e umidità». E noi bruciamo allo stesso modo, nei nostri corpi umidi. Il calore delle infiammazioni subcliniche che producono un’energia fossile totalmente inspendibile, il calore che consuma le carni dall’interno e sclerotizza gli ormoni sullo sfondo di un ambiente e di uno stile di vita esasperato dallo stress, dalla competizione, dalla solitudine, dalle tumefazioni mutanti del lavoro salariato, dal rilascio psichico delle inaccoglienti architetture urbane, dalle esposizioni elettromagnetiche, dall’alimentazione «di fortuna». «La definitiva morte per calore dell’universo» ricollega dunque il mondo ristretto del corpo umano in senso, ancora una volta, «cosmotraumatico», stella termica che brucia, si ingrandisce e si spegne. L’infiammazione cronica è il principale effetto delle malattie autoimmuni, attivata come difesa da un organismo che immagina di contrastare un agente esterno ma che nei fatti si rivela essere il suo stesso tessuto, producendone una degenerazione costante. Un’aggressione sregolata che segue principi incomprensibili, in una progressione che ricalca l’urbanizzazione tardocapitalista di cui parla DeLillo: calor, rubor, dolor e tumor, calore, rossore, dolore e gonfiore. 

Per Deleuze e Guattari ogni sistema socioeconomico produce una sua patologia esclusiva, da cui è indissociabile: l’isteria nelle società primitive, le manie depressivo-paranoiche nel Grande Impero, e infine la schizofrenia nell’era capitalista. La schizofrenia, come grande malattia sistemica, si configura in maniera produttiva sia come cellula impazzita che contiene le strutture desideranti dell’intero sistema capitalistico, sia come suo rivoluzionario limite estremo, che in qualche modo deve essere marginalizzato dalla società. Molti critici si sono spesi per separare la schizofrenia desiderante deleuzoguattariana dalla schizofrenia clinica: nei suoi stadi più solari puro schizo, nell’esperienza massificata, invece, depressione. 

L’introvabile manoscritto fantascientifico Autoimmunità ci parlerebbe piuttosto di una radice infiammatorio-traumatica che sottostà ai meccanismi psicologici e antipsicologici, psichiatrici e antipsichiatrici: da una parte le più recenti ricerche mediche ci dicono di una «ipotesi immunologica della depressione», in cui gli elementi proinfiammatori altererebbero i rapporti tra ipotalamo, ipofisi e surrene, e produrrebbero un impatto sul rilascio di ormoni come il cortisolo (il celebre «ormone dello stress»), contiguità particolarmente esasperate da quelle malattie autoimmuni che attaccano le ghiandole più sensibili a una modulazione dell’umore (come nella tiroidite di Hashimoto ad esempio), dall’altra le conseguenze delle difficoltà oggettive di vivere nell’Era dell’Autoimmunità. In questo senso è necessaria una consapevolezza politica perché il malato possa godere di una certa autonomia biosociale nelle maglie di un sistema sanitario che mal riconosce i disagi, i sintomi (spesso poco specifici) e la disposizione delle condizioni di vita. Non è insolito che chi lamenta gli effetti di una malattia autoimmune sia sottovalutato dal sistema medico e rispedito a casa con il superficiale stigma diagnostico di depressione, frutto psicosomatico o «fastidio mensile». In The Autoimmune Epidemic, Nakazawa riporta come circa la metà dei pazienti affetti da una malattia autoimmune sia stato clinicamente etichettato – almeno negli stadi iniziali – come ipocondriaco, e dunque ricondotti a una condizione metapolitica di «disabile invisibile».  

La macchina produttiva capitalistica avanza e si rafforza attraverso una serie di continue e necessarie crisi interne che attua sistematicamente e cronicamente. In questo modo, autosabotandosi, il processo riparte ogni volta in maniera sempre più efficiente.

Per un qualche motivo – e al netto del rimpasto genetico – l’autoimmunità sembra assorbire il contesto ambientale, assimilarne il degrado, le tossicità relazionali ma soprattutto replicare il meccanismo capitalista, diventandone una sorta di mortale contraccolpo biomediale – riterritorializzando anche laddove la merce non può arrivare. La macchina produttiva capitalistica avanza e si rafforza attraverso una serie di continue e necessarie crisi interne che attua sistematicamente e cronicamente. In questo modo, autosabotandosi, il processo riparte ogni volta in maniera sempre più efficiente, con condizioni di lavoro sempre più debilitanti, un maggiore isolazionismo sociale e aumento della forbice tra classi. Félix Guattari spesso si è pronunciato sulla questione, sostenendo come le linee di fuga capitalistiche non sono solamente le difficoltà che sopraggiungono, ma le condizioni stesse del suo esercizio; la base della sua economia è la decodificazione di flussi sempre più infestanti, e nelle sue crisi trova naturalmente il modo di espandere di volta in volta i propri limiti. Limiti che sono lo spazio della marginalità, lì dove il capitale erode avanti a tutti, negli spazi degli infermi e dei poco-esistenti. 

La malattia autoimmune pare agire nello stesso modo, autodistruggendo i tessuti (cellulari, sociali, politici) del proprio organismo per rinforzare la propria pulsione; solo che il capitalismo assalta i sistemi economici e sopravvive, l’autoimmunità assalta il corpo e il corpo muore. In comune c’è anzitutto questa estensione infinita e «cosmica» che non prevede una conclusione (il classico adagio fisheriano: «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo»). L’autoimmunità è cronica: se il corpo non si spegnesse probabilmente continuerebbe a riattivarsi in eterno. Rincara la dose Carolyn Lazard, teorica e artista che spesso ha lavorato sulla propria condizione di malato autoimmune: «Così come i disturbi autoimmuni fanno sì che un corpo confuso attacchi se stesso, il capitalismo fa sì che gli esseri umani aggrediscano il mondo naturale. Il capitalismo delinea un confine tra la società umana e la natura; separandoli, diventa estremamente più facile sfruttarli. Ciò che ci rimane sono corpi confusi, incapaci a livello molecolare di mantenere i confini fondamentali che sono costitutivi del sé. Imitando intimamente i gradi di alienazione e mercificazione che avvengono nel corpo a livello sociale ed economico».

L’infiammazione autoimmune non cessa mai, ha dei picchi produttivi e dei momenti subclinici ma è continuamente meccanizzata dal corpo; una cronicizzazione che, in un astruso riflesso, forse non casualmente è l’epidemia temporale del capitalismo cognitivo, degli smartphone di cui ci dotano le aziende accesi ventiquattrore al giorno, dell’estrazione di lavoro immateriale anche quando si dorme, di cui 24/7 di Jonathan Crary (sottotitolo: Il capitalismo all’assalto del sonno) ha parlato estensivamente, delle mutazioni elettromagnetiche del General Intellect. 

Anche Giorgio Griziotti sembra intravedere una relazione del genere, dedicando un paragrafo di Neurocapitalismo alle allergie e all’autoimmunità. La posizione è interessante: usando il rapporto critico tra il movimento punk e il sistema capitalistico urbano, esemplificato nell’immortale motto di Marco Philopat «costretti a sanguinare», si identificano i tatuaggi, i piercing e le scarnificazioni dei punk come l’avviso bioinformazionale di un impatto politico sui corpi. Le infiammazioni autoimmuni vengono dunque descritte come «reazioni alla sofferenza imposta al corpo da un potere trionfante», ma anche – usando una calzante definizione della ricerca medica – «una rottura della tolleranza di se stessi», in cui concorrono i maltrattamenti di uno stile di vita ossessivo e inquinato e di una società perversa. In pratica le «scorie calde» della catena capitalistica, alla quale gli individui sono sempre meno capaci di rispondere collettivamente, affannandosi in una sopravvivenza solitaria – nascosti dalle luci dei corpi perfetti dell’infotainment – che è spesso solo cruda soppressione clinica del sintomo. 

I fallimenti di decodificazione del sistema immunitario sono dunque i fallimenti sistematici della «manutenzione capitalistica», alimentati attraverso una logica di protezione dei propri meccanismi che relativizza addirittura i concetti di vita e morte (la vitalità dell’organismo che attiva l’apocalisse immunitaria). Una logica inumana, completamente insondabile, xenopatologica ai limiti dei tentativi di immunizzazione dell’Area X, che pare davvero ricollegarsi a una natura aliena. La crudeltà inconcepibile di certe logiche paradossali, sostiene Slavoj Žižek, è la stessa che ritroviamo in Sade – nelle vesti di un insospettabile kantiano –, come distinzione tra una «prima natura» che prosegue secondo ritmi cosmici e totalmente indifferente alle attività umane, e una seconda che invece sorge nel profondo geologico della pulsione; il piacere di torturare fino a distruggere, fino a soddisfare la richiesta più intima della natura, e cioè l’interruzione del ciclo di riproduzione. 

In un sistema che valuta gli apparati in termini di forza lavoro, designandone alcuni come utili e altri come inutili, la menomazione fisica o mentale si manifesta in quanto rafforzamento dell’esclusione dalla vita sociale o economica. Nella catena estrattiva le debolezze e le limitazioni biologiche del corpo sono completamente ignorate. I malati, i non produttivi, i poco produttivi, gli stancati dall’infiammazione, vengono spinti ai margini del sistema a morire nel «deserto degli schizofrenici», uccisi da una patologia che attiva l’autofagocitazione dal «sistema madre». In un certo senso però, questa lontananza dalla profilazione permette una certa «libertà mortifera» che svicola da un pieno riconoscimento clinico e dunque da un «controllo» del malato (lo schizofrenico limitato dagli psicofarmaci e dalle strutture di contenimento, l’autoimmune da un programma fatto di cortisonici, inibitori del sistema e cosiddetti farmaci biologici), ovviamente a un prezzo molto alto. Se la malattia autoimmune può essere dunque interpretata sia come l’estensione armata, risolutivamente biopolitica, di un cervello xenocapitalista, oppure come il rigetto del corpo dello stesso sistema socioeconomico, allo stesso modo la guerriglia patologica può tentare un azzardo di riconversione, o almeno di biunivocità. 

Alla sua apparizione, in un mondo in cui le strutture statali si contrapponevano nettamente, anche la nozione di immunità è stata descritta esclusivamente attraverso un lessico militare, legata a un organismo umano pensato come una fortezza da difendere ad ogni costo. Sono gli strumenti bellici di una guerra dall’esito fatale ma anche la militarizzazione di una resistenza: «costretti a sanguinare» fino alle contraddizioni consce del potere incarnato. Il fisiologo francese – citato anche da Susan Sontag in Malattia come metafora – Marie François Bichat ha definito la buona salute «il silenzio degli organi» e la malattia «la loro rivolta». Negli anni Settanta addirittura un gruppo attivista tedesco, gli SPK (Sozialistisches Patientenkollektiv, «Collettivo socialista dei pazienti»), avrebbe usato una strutturazione marxista e slogan come «Trasforma la tua malattia in un’arma» o «La malattia è la condizione e l’esito del capitalismo» per allertare una società in cui tutti, senza distinzioni, sono malati e in cui gli input dolorosi del corpo sono nient’altro che una non più rimandabile presa di coscienza del modello strutturale. 

Il malato cronico raramente è un’identità politicizzata o armata, perché impegnato in un’altra resistenza col sé, quindi inutilizzabile sia per produrre valore dal lavoro, sia in senso contrario come cellula attiva nei «gruppi in fusione»; ma rimangono costantemente, e più di ogni altro, dei «corpi politicizzati». La malattia cronica richiede disoccupazione, e la disoccupazione è un’infermità sociale che produce una resistenza alle necessità efficientiste del capitale – privilegiando semmai una traduzione affettiva del rapporto tra l’uomo e il progresso scientifico; d’altra parte, le «linee di fuga» capitalistiche di cui parlava Guattari hanno sempre una probabilità di innestarsi su un piano rivoluzionario. Una medicina che se esiste, non è affatto il riposo o la «cura di sé». Quando pensiamo al ristoro lo pensiamo commercialmente (farmaci, antibiotici ma anche integratori, omeopatia, beveroni di aloe vera, corsi di rilassamento guidato) e lì il capitale prospera, e raramente ci viene proposta la strada di una riconversione – celata dalla vergogna e da un non appetibile status di «minoranza» –, in questo caso dell’attività disperata e senza controllo del proprio sistema di difesa. 

«Accelerare il processo» al di fuori, fuori di sé, fuori dalle proprie grette cellule sociali, dai confini nazionali e fuori da questo mondo. Correre bruciando, regredire sotto il suolo dell’eziologia capitalistica, e poi ancora più lontano incappare nei luoghi d’origine della pianta rampicante della Guerra dei mondi di H.G. Wells, del dispositivo immunologico dell’Area X o degli space jockeys, e magari, in fondo, avere addirittura la fortuna di incontrare «il nascituro» – «il Sano».