Xanax Society
Per tre settimane ho rimandato la scrittura di questo articolo perché mi metteva ansia. Volevo scrivere della paura che inibisce l’agire e del vivere la vita nella testa piuttosto che nella realtà, ma poi mi sono resa conto che più che paura era una forma di ansia anche quella. Ho l’ansia che questo pezzo sarà noioso perché ripeto la parola ansia in tutte le frasi. Ogni dieci minuti mi viene la tentazione di lasciar perdere e buttarmi sul divano per vedere l’ultima puntata di Rick e Morty.
Poi però penso alle parole della mia relatrice di laurea che mi chiede perché i ragazzi della mia età siano così passivi e, guarda un po’, mi viene l’ansia. Soprattutto in Italia, mi dice, ha letto che i miei coetanei non studiano né lavorano. Non fanno niente, paralizzati da «non si sa cosa». Ieri ho visto la mia amica Arianna che mi ha detto che se le cose si mettono male ha ancora dei calmanti che le ha prescritto la psichiatra: basta chiedere. Martina invece è in ansia perché ha finito i sonniferi e non è sicura che le rinnovino la prescrizione. Mi sono accorta in fretta che è un problema diffuso; mi viene in mente il meme con Buzz Lightyear che, guardando verso l’infinito e oltre, indica con il braccio solennemente teso invisibili distese di ansia. Sembra esistere un’epidemia che colpisce in particolar modo le persone nate verso la fine degli anni Ottanta/inizio anni Novanta, i cosiddetti Millennials. Siamo quella generazione di fortunati che soffre la crisi del quarto di secolo. Persino la musica che ascoltiamo, agli eccessi drogherecci che furono, ha finito per preferire uno psicofarmaco come lo Xanax. Lana Del Rey, Drake, Rihanna: è tutto «pill pop», come fatto notare da un recente articolo del Washington Post.
Una volta uscita dalla bolla di egotismo che mi tiene chiusa nella convinzione che tutto capiti soltanto a me – che attenzione, non è frutto di una personalità überdrammatica e megalomane, ma il fine ultimo di una strategia isolazionista ben studiata e messa a punto altrove – quello che mi sono chiesta è perché. Perché cazzo tutti quanti c’abbiamo l’ansia.
La prima spiegazione è quella che nella bocca dei più anziani suonerebbe come un «ai miei tempi…», quella che in South Park ha preso le sembianze di bacche assuefanti chiamate memberberries, o quella che più concretamente Franco «Bifo» Berardi definisce come «cancellazione del futuro».
L’idea di «futuro» inteso non in senso temporale ma come percezione psicologica è nata con l’epoca industriale e ha avuto il suo apogeo nel secondo dopoguerra, alimentata dai meccanismi del capitalismo moderno. La continua espansione economica, la divulgazione su larga scala della conoscenza, il progresso scientifico e la rivoluzione tecnologica furono i binari su cui viaggiava un treno chiamato Il Futuro Sarà Migliore. I baby boomers – o più semplicemente i nostri genitori – sono cresciuti tra le aspettative create da quelle che Bifo chiama mitologie: quella hegeliana-marxista dell’Aufhebung, quella borghese di uno sviluppo lineare del benessere economico, quella tecnocratica che faceva perno sulla scienza. «Il futuro che la mia generazione stava aspettando», ricorda Bifo, «era basato sull’ottenimento implicito che nessuno avrebbe più sofferto il trattamento che hanno subito gli ebrei durante l’incubo tedesco. Questo presupposto si è rivelato essere fuorviante».
E quindi: le guerre non hanno smesso di scoppiare, le persone non hanno smesso di soffrire la fame (nonostante la sovrabbondanza di cibo nel mondo occidentale), e i campi di concentramento non hanno smesso di essere costruiti (solo che adesso li chiamiamo CPT). La crescita sconsiderata della produzione di beni ed energia sta causando il disfacimento dell’ecosistema Terra, mentre la tecnologia invece di incoraggiare la creazione di comunità ci sta rendendo sempre più isolati e alienati. Bifo individua nel 1977 il momento di svolta in cui il futuro ha smesso di essere percepito come radiante: fu d’altronde l’anno in cui i punk gridavano No Future, e a buon ragione. Adesso, quarant’anni dopo, ci accorgiamo che era vero. Adesso, se pensiamo a un futuro lontano, non possiamo non chiederci se il genere umano esisterà ancora. Ansia.
Una seconda spiegazione arriva da Mark Fisher e dal suo Realismo capitalista (di prossima pubblicazione qui). Per Fisher, il «realismo capitalista» altro non è che la percezione diffusa secondo la quale non esiste alternativa possibile al sistema capitalista. La pervasività di questa convinzione condiziona non solo la produzione culturale, ma anche la regolamentazione del lavoro, il sistema educativo e più in generale le stesse modalità del nostro agire, creando una barriera invisibile che impedisce pensiero e azione. Il risultato è un nichilismo edonista che, traslato in un esempio pratico, assomiglia a mio padre che la mattina mi porta giornale e caffè, e io prendo la tazza ma non il quotidiano perché leggere le notizie «mi prende male, meglio non pensarci». Oppure, usando la terminologia di Fisher, un atteggiamento di impotenza riflessiva: sappiamo che la situazione è tragica, ma sappiamo anche di non poterci fare niente.
Agire è inutile, sorprendere è impossibile: ma per dirla di nuovo con Fisher, «che succede se la gioventù non è più in grado di produrre sorprese?». Che poi era lo stesso dubbio che probabilmente tormentava Kurt Cobain, quando dal nichilismo punk sprofondò nella depressione del grunge: la consapevolezza immobilizzante di non poter produrre più niente di nuovo perché ormai tutto era già stato fatto. O la graduale, terrificante presa di coscienza che qualsiasi tentativo di innovazione e di insurrezione contro il sistema, sarebbe comunque tornato utile al sistema stesso: come non pensare al rapporto tra MTV e Nirvana?
La differenza tra gli anni Novanta e oggi, è che all’epoca le alternative al capitalismo erano ancora pensabili o quantomeno pensate. Oggi il capitalismo si è talmente infiltrato nel nostro modo di vivere da plasmare a sua immagine e somiglianza desideri, aspirazioni e sogni. Lo ha fatto soprattutto, sostiene Fisher, interferendo sull’idea di tempo. Viviamo nella sensazione costante di non avere tempo, di dover produrre, conoscere, esperire. Il successo si misura in base alla quantità di cose che facciamo. Depenniamo impegni dalle to do list solo per poi aggiungerne il doppio, siamo attanagliati dalla FOMO, invidiamo le persone che sembrano avere una vita più impegnata della nostra. Bisogna lavorare, bisogna viaggiare, bisogna divertirsi, bisogna realizzarsi, ma non abbiamo tempo per fare tutto, non abbiamo tempo, non abbiamo tempo. Tutto è urgente, niente è posticipabile. Vivi nel presente. YOLO. Ansia.
Sono atteggiamenti apparentemente opposti che sembrerebbero appartenere a due tipi di personalità diverse: da una parte il giovane smanioso e frenetico, dall’altra il giovane disilluso e apatico. E invece no, e qui sta tutta la malattia della società contemporanea. La maniera in cui viene strutturato il sistema socioeconomico attuale fa sì che le persone vivano in una costante altalena di superhype e superdown, e non è un caso che l’economista Christian Marazzi stia studiando la relazione tra postfordismo e disturbo bipolare. A suo tempo, Deleuze e Guattari sostennero che la schizofrenia è la malattia che marca i confini esterni del capitalismo; Fisher sostiene che il disturbo bipolare è la malattia mentale che del capitalismo caratterizza la dimensione interna, un capitalismo che è riuscito ad annidarsi nel subconscio delle persone.
Avrete notato anche voi quanta attenzione ultimamente è stata dedicata dai media alle malattie mentali, magari con articoli volti a sottolineare come la depressione non sia un tratto caratteriale ma uno scompenso biochimico; quello che però viene troppo spesso dimenticato, è che sull’insorgere di questi disturbi incidono anche i fattori ambientali, a cominciare dall’organizzazione sociale, politica ed economica in cui si vive. La patologizzazione dei disturbi psicologici (tipo: se sei depresso è perché hai i livelli di serotonina bassi) finisce per escludere la politicizzazione degli stessi (tipo: se c’è così tanta gente depressa rispetto a qualche decennio fa, è anche perché le condizioni di vita sono diventate più complesse e più precarie, ma i termini per stabilire il successo individuale non sono stati aggiornati).
Non solo: favorire l’idea che la malattia mentale sia un problema individuale – «i miei livelli di serotonina» vs. «forse è un problema sociale» – contribuisce a un’ulteriore atomizzazione e individualizzazione della società. Con questo non voglio negare che, per esempio, la depressione sia causata anche da bassi livelli di serotonina; ma se il National Institute of Mental Health americano sostiene che il 38% delle ragazze e il 26% dei ragazzi compresi tra i 13 ed i 17 anni soffrono di disturbi legati all’ansia, forse c’è un problema che va al di là della pura dimensione personale.
Se i Novanta furono il decennio del Prozac, lo Xanax è diventato il farmaco simbolo dei Duemila tanto da indirizzare persino le proiezioni e i ragionamenti degli investitori («It’s A Xanax World», per dirla con Bill Gross del Janus Capital Group). Ora che il ceppo virale è stato individuato e che – dalle diagnosi degli esperti – sembra inestirpabile, sarebbe bene capire come intervenire perché interrompa la sua ramificazione capillare fino a tradursi in infiniti tic ansiosi, vedi il refresh compulsivo della casella di posta elettronica, o i messaggi WhatsApp a cascata prima di arrivare ad un appuntamento, o il controllare l’ultimo accesso su Facebook dei tuoi amici perché vivi nella convinzione che se sono assenti da più di 22 ore probabilmente sono morti.
Il mio suggerimento è aggregarsi, fare blocco, perché in fondo l’unione fa la forza, mal comune mezzo gaudio e, insomma, ansiosi di tutto il mondo uniamoci. Dunque quando in metropolitana vedo il ragazzo con un fisico asciutto, due mezzelune bluastre sotto gli occhi e un respiro quasi impercettibilmente affannato, so che fa parte della gang. Siamo milioni. Perché come dice Sarah Fader, social media consultant intervistata dal New York Times, «se sei un essere umano che vive nel 2017 e non hai l’ansia, c’è qualcosa di sbagliato in te».