Strane videocamere
Non vorrei iniziare questo articolo confessando che il dibattito sul cosiddetto «Novo Sconcertante Italico» mi serve soprattutto come pretesto per introdurre un libro, La festa nera di Violetta Bellocchio, che ne fa parte e da cui voglio far partire questa riflessione sul ruolo delle videocamere nel genere weird. Non vorrei farlo, dicevo, perché credo che il recupero e il rilancio di questo genere a cui stiamo assistendo negli ultimi anni, sia valido non solo come gioco tassonomico ma anche come segnale di una ricettività che permette ad autori italiani di connettersi, con una latenza minima, a correnti culturali che esondano entro i confini nazionali. Correnti che dissodano terreni fertili, da cui germinano frutti di notevole importanza come è, appunto, La festa nera da cui voglio partire.
Il romanzo di Bellocchio, uscito nella collana Narrazioni curata da Michele Vaccari per Chiarelettere, racconta la vicenda di una crew di documentaristi che percorre la statale 45, in quello che sembra il più che probabile collasso che attende l’Italia da qui a pochi anni. Una banda che, a voler essere affettuosi, si potrebbe paragonare a una troupe de Le Iene sotto speed. Persone abituate ad andare a caccia di stranezze umane da dissezionare con l’obiettivo; storie da gettare in pasto a un pubblico bulimico di curiosità disturbanti, funzionali a stimolare il rilascio di neurotrasmettitori nel proprio usurato sistema nervoso.
Per i protagonisti del libro, gli strumenti di registrazione della realtà sono uno scudo con cui tenere a distanza le realtà derelitte con cui si confrontano e, al tempo stesso, acciai chirurgici con cui operare a cuore aperto nell’intimità delle persone che si trovano davanti. Che l’apparato di registrazione visiva abbia, nella finzione imbastita da Bellocchio, un rapporto privilegiato con il corpo appare evidente nel fatto che Misha, uno dei personaggi del libro, ne incorpora uno nelle lenti a contatto quasi le fosse stato impiantato direttamente nell’occhio. La carne come add on della funzione di attestazione del reale.
Se da una parte Bellocchio fa riferimento, con questa sua scelta narrativa, a un modo di fare documentario che ricorda molto certe produzioni degli albori di Vice – in cui giovani reporter, tendenzialmente occidentali e bianchi, viaggiavano alla ricerca di bizzarrie da testimoniare con uno sguardo sempre oscillante tra la meraviglia e lo sfottò – dall’altra parte la scelta di mettere in scena una crew di documentaristi sembra essere anche un modo per richiamarsi alle radici horror: ad esempio al padre nobile Cannibal Holocaust che di quel modo di fare documentario sembra un po’ il progetto e la segreta ambizione. Anche nel film di Deodato, i protagonisti sono documentaristi e gli strumenti di registrazione della realtà un elemento chiave della narrazione, quello che scoperchia l’orrore, che lo testimonia a uso e consumo dello spettatore.
La videocamera come sigillo di verità
Il cinema, come arte e tecnologia, s’è sempre definito nell’oscillazione tra la sua capacità di attestare ciò che accadeva davanti agli occhi della macchina da presa, imprimendone l’emanazione su pellicola, e la sua capacità di configurare questo materiale, componendolo attraverso la manipolazione del montaggio.
Verso la fine degli anni Novanta del secolo scorso, grazie alla miniaturizzazione resa possibile dalle tecnologie digitali cominciarono a diffondersi le videocamere portatili e con esse tutta un’estetica della realtà. Caratterizzata dalla compulsione allo zoom che rompe la naturalità della visione, dal piano sequenza come forma di attraversamento dello spazio e dall’alternanza di rollio e beccheggio come impronta del corpo e del suo movimento, quell’estetica fece registrare una forte oscillazione nell’equilibrio tra configurazione e attestazione, a tutto vantaggio di quest’ultima. La videocamera e la sua estetica finirono perciò per diventare un sigillo di verità. Se di fronte all’obiettivo della videocamera un evento accadeva mostrando i segni di quell’estetica, beh, quell’evento doveva essere vero.
Il weird intervenne a perturbare l’equazione. Lo fece con un film, The Blair Witch Project, che aggiornava la formula di Cannibal Holocaust all’epoca delle videocamere digitali. La trama racconta del ritrovamento delle riprese realizzate da un gruppo di adolescenti che, nell’ambito di un progetto scolastico, si avventurano in un bosco alla ricerca di elementi che possano fare luce su una leggenda locale: quella della cosiddetta «strega di Blair». Presentato come semplice successione cronologica delle riprese, il film annulla programmaticamente il montaggio per collocare lo spettatore di fronte ai tentativi di attestazione della verità che i tre ragazzi mettono in atto. La verità sul mistero della strega di Blair resterà però confinata ai margini dell’inquadratura, invisibile nel fuori campo benché presente, capace di far sentire la propria pressione sull’immagine fino alle conseguenze più tragiche.
Quando in The Weird and the Eerie Mark Fisher prova a definire il tipo di sensazione che proviamo quando dobbiamo definire qualcosa usando quell’aggettivo, lo fa dicendo: « Intendo qui sostenere che il weird è un particolare genere di perturbazione. Chiama in causa un senso di non-correttezza: un’entità o un oggetto weird è talmente inusuale da generare la sensazione che non dovrebbe esistere, o perlomeno non dovrebbe essere qui». The Blair Witch Project usa l’estetica della videocamera e il suo potere attestativo per mettere in scena null’altro che questo: la presenza di qualcosa che non dovrebbe essere presente, ma che invece c’è e con il peso che esercita sull’immagine mette in discussione ciò che credevamo possibile. «La cosa weird non è sbagliata, dopotutto: dovranno per forza essere inadeguate le nostre concezioni», dice ancora Fisher chiudendo il paragrafo.
Lo sguardo dell’altro
Ci hanno raccontato che gli attacchi terroristici dell’11 settembre e il crollo delle torri gemelle del World Trade Center sono stati il primo evento ad avvenire sotto il segno della videocamera e della sua estetica. A dispetto del fatto che l’immagine simbolo di quei giorni è una sola ripresa televisiva, incessantemente ripetuta, del secondo schianto, la narrazione vuole che l’11 settembre sia avvenuto sotto l’occhio di centinaia di videocamere che ne hanno moltiplicato i punti di vista possibili. Tanto forte è stata l’influenza di quell’estetica.
È su quell’impressione che Matt Reeves ha costruito Cloverfield, un film che con The Blair Witch Project ha in comune tanto l’espediente narrativo – le riprese memorizzate in una videocamera scampata al disastro – quanto l’estetica realistica tipicamente collegata a questo dispositivo. Il realismo della videocamera qui è funzionale alla storia di una New York sotto attacco di una forza aliena e misteriosa che devasta la città, colpendola nei suoi punti più simbolici. Una narrazione in cui ogni elemento paga dazio al clima di catastrofe imminente, che la ricezione mediatica dell’11 settembre aveva contribuito a diffondere nella società occidentale dei primi anni Zero.
La videocamera registra in soggettiva tutto quello che accade e ci fa attraversare l’evento, mentre i protagonisti del film attraversano la città alla ricerca di scampo. Il culmine della tensione emotiva coincide con la sequenza finale del film. Precipitati da un elicottero in mezzo a Central Park, i ragazzi si tirano fuori a vicenda dalle lamiere roventi per continuare la fuga a piedi. Sullo sfondo di grattacieli in fiamme si sente il bang supersonico di due caccia che attraversano il cielo di New York per bombardare la città. Hud, il ragazzo che per tutto il film ha trasportato la telecamera incorporandoci nell’evento, si allontana un istante per recuperarla da terra dove l’aveva appoggiata per aiutare l’amico ferito. È a quel punto che una delle creature che stanno attaccando la città irrompe sulla scena. Il suo muso canino ci punta; ci scruta, inchiodandoci con lo sguardo. L’inquadratura vacilla mentre lo zoom si regola automaticamente. Le fauci si aprono e tutto, per un istante, vira al nero. Voliamo per aria, confusamente, mentre il mostro ci divora per poi sputarci a terra. Giaciamo nell’erba, fissiamo la faccia esanime di Hud, mentre l’autofocus sfarfalla, incapace di fissarsi su quell’oggetto troppo vicino. Sfocata, la massa della creatura, che non vediamo mai per intero, si allontana sullo sfondo.
Il meccanismo che in The Blair Witch Project era funzionale a farci sentire la presenza dell’elemento weird qui si trasforma nella sua visualizzazione. Ma cos’è che stiamo vedendo, in realtà? È ancora Mark Fisher a offrire la chiave di lettura per questa sequenza. Nel primo capitolo di The Weird and the Eerie, Fisher si propone adoperare queste due sensazioni per superare il concetto di Unheimlich, il perturbante freudiano, che è loro successivo cronologicamente. Dice infatti Fisher: «Il ricondurre il weird e l’eerie all’unheimlich è sintomatico di un ripiegamento secolare dall’esterno […] Il weird e l’eerie muovono da una direzione opposta: ci permettono di osservare l’interno da una prospettiva esterna».
Quello che viene messo in scena nella sequenza finale di Cloverfield è esattamente l’apparire di questo sguardo che dall’esterno preme sull’interno e che è destinato a costituire il nostro punto di vista nello spazio e nel tempo postapocalittici. Ancora una volta, è grazie al potere attestativo della videocamera a della sua estetica che possiamo cogliere i segni dell’avvento del weird nella nostra realtà.
Dalla narrazione del realismo al realismo della narrazione
Due uomini camminano nel buio. Respirano con affanno. Una torcia si accende. La fiamma si propaga. Totale sull’incendio, dissolvenza in nero. Stacco.
Un obiettivo, ripreso di fronte, occupa per intero lo schermo. In sottofondo il rumore dell’autofocus che cerca la la messa a fuoco. Stacco.
Primissimo piano di uno schermo digitale su cui campeggia in rosso la scritta REC. Siamo così vicini da riuscire a scorgere i singoli pixel. Stacco.
Un personaggio appare nell’inquadratura. È seduto nella stanza di un ufficio che vediamo solo in parte. Alle sue spalle veneziane semichiuse. La scritta in sovrimpressione ci informa che ci troviamo nei locali della Criminal Investigation Division della polizia di Stato della Louisiana e che stiamo assistendo alla dichiarazione Martin Eric Hart. Un’identica inquadratura introduce un secondo personaggio.
È così che Nic Pizzolatto (autore) e Cary Fukunaga (regista) costruiscono le prime due scene del primo episodio di True Detective. E non lo fanno per caso. Sanno che, da The Blair Witch Project a Cloverfield, la videocamera è lo strumento che veicola un’immagine realistica del mondo. Per questo la scelgono come elemento diegetico intorno a cui costruire l’incipit della loro serie. Come a volerci dire che quanto stiamo per vedere è reale o, meglio, vero, autentico. Accade realmente davanti ai nostri occhi. Ma cosa, di preciso, accade realmente davanti ai nostri occhi?
La struttura narrativa di True Detective è basata sul flashback. Ci sono due principali piani temporali attraverso cui la vicenda viene raccontata: il 1995, anno in cui ha inizio la caccia all’assassino di Dora Lange, e il 2012, l’anno in cui la vicenda si chiude. È in quest’ultimo piano che si svolgono le deposizioni.
Nei primi tre episodi della serie il racconto nei due piani temporali coincide. I fatti e le deposizioni dei due protagonisti, Marty Hart e Rust Cohle, sono la stessa cosa, corrono in parallelo e raccontano la frustrante lentezza e inconcludenza con cui proseguono le indagini. Alla fine del terzo episodio, la svolta.
I due detective hanno individuato un sospetto: Reggie Ledoux, un cuoco di metanfetamine. Marty ha scoperto che Leduox ha lasciato la Louisiana per operare in Texas. Rust, che in Texas ha lavorato sotto copertura come infiltrato nelle gang che controllavano il traffico di droga, elabora un piano per catturare il sospetto. Il piano non è legale. I fatti e le deposizioni cominciano a scollarsi e a divergere.
Marty e Rust individuano la zona dove si nasconde Reggie Ledoux, grazie alle informazioni del capo di una gang di biker che hanno rapito. La coppia di poliziotti si addentra attraverso la vegetazione, in cui sono nascoste delle trappole esplosive, fino ad arrivare a una baracca. Riparati dall’erba i due cominciano a muoversi, circospetti, verso la costruzione.
L’inquadratura stacca sul primo piano di Rust Cohle. Il montaggio alternato ci ha riportato avanti nel tempo, nel 2012. Il detective racconta agli agenti che lo stanno interrogando che lui e il collega hanno intenzione di ritirarsi e aspettare rinforzi «but ain’t what happend». Non appena iniziano a indietreggiare infatti, racconta ancora Rust…«bang!»; è Marty a parlare ora, di fronte alla videocamera, ed è proprio questa la sua prima parola: «bang». Segue la descrizione del conflitto a fuoco che vede coinvolti i due detective. Intenso, serrato. Il sospetto sembra avere una qualche specie di arma automatica. Un fucile così potente da sbriciolare il tronco di un albero. «Ta-ta-ta-ta», Rust imita il suono sordo e costante dell’arma mentre mima con le mani il movimento semicircolare che accompagna il tiro…«heavy shit».
Di fronte a cosa viene messo lo spettatore quando la realtà dei fatti crolla miseramente anche di fronte alla più oggettiva delle istanze di registrazione? Null’altro che il racconto e la narrazione.
La scena che vediamo svolgersi nel 1995 non ha nulla a che vedere con quanto Marty e Rust raccontano nel 2012. I due infatti si avvicinano indisturbati alla baracca e la perquisiscono a pistole spianate, trovandovi Ledoux. Dopo averlo ammanettato nello spiazzo, Marty prosegue la perquisizione nella rimessa. Rust sorveglia il sospettato e intima l’alt al suo complice, appena uscito da un terzo capanno. Nella rimessa Marty troverà due bambini scomparsi e, in preda alla rabbia, fredderà Ledoux con un colpo alla testa. Rust, consapevole della situazione, reagisce in fretta e aiutato dal suo compagno allestisce la scena che gli abbiamo appena visto raccontare. Toglie le manette a Ledoux per evitare che ne porti i segni e sparge colpi di fucile automatico tutt’intorno alla scena del crimine. La lunga sequenza della morte di Reggie Ledoux si conclude con il lento ritorno alla normalità dei due detective, acclamati come eroi.
Per tre episodi c’è stata perfetta aderenza tra i fatti e il loro racconto. A partire dal quarto e, definitivamente, nel quinto, i piani temporali si scollano. Tra essi non esiste più alcuna corrispondenza. Nel gioco di scambi che il flashback instaura attraverso il montaggio alternato, le sequenze temporali del racconto e dei fatti si scambiano di posto e la prima anticipa la seconda trasformando la sequenza in una composizione ad anello… «Time is a flat circle», mormora Ledoux prima di morire.
Se in The Blair Witch Project e in Cloverfield l’estetica realistica della videocamera veniva messa alla prova del weird ma restava sempre valida come elemento in grado di legittimarlo, di farlo sentire presente allo spettatore senza mai fargli dubitare della sicurezza della sua posizione, di fronte a cosa viene messo lo spettatore quando la realtà dei fatti crolla miseramente anche di fronte alla più oggettiva delle istanze di registrazione? Null’altro che il racconto e la narrazione, sembrano volerci dire Pizzolatto e Fukunaga. Non esiste altra realtà al di fuori di quella che puoi raccontare è la lezione di True Detective.
Cosa significa vivere in un mondo in cui «il principio di realtà è un paradigma sopravvalutato [e] la realtà è una percezione»? Significa, ci dice True Detective, che viviamo ogni giorno sulla bocca spalancata dell’inferno che rigurgita i suoi demoni e anche noi, come Rust, di fronte all’irruzione dell’orrore nella realtà restiamo impietriti, perché nel gioco infinito della costruzione della realtà abbiamo perso la capacità di riconoscere il male.
Buongiornissimo e benvenuti nel «Novo Sconcertante». Che la festa nera abbia inizio.