Il canone strano

Da Calvino a Evangelisti, da Buzzati a Moresco: per una possibile storia della weird fiction in Italia

Credo nella non-esistenza del passato, nella morte del futuro e nelle infinite possibilità del presente  (J.G. Ballard)

In una lettera al marchese Cesare D’Azeglio datata 1823, Alessandro Manzoni condannava le storie soprannaturali che tanta parte avrebbero avuto nella temperie romantica europea come «non so qual guazzabuglio di streghe, di spettri, un disordine sistematico, una ricerca stravagante, un’abiura in termini del senso comune». Questo autorevole anatema si è rigenerato nei decenni sottraendo lustro e vitalità a una produzione letteraria e popolare che già nel XIX secolo abbondava in un’Italia alla ricerca di unità (lo hanno dimostrato Claudio Gallo e Fabrizio Foni nell’antologia intitolata Ottocento nero italiano: narrativa fantastica e crudele).

Per generazioni cresciute e formate all’interno di quel grande dispositivo anti-manzoniano qual è la scuola italiana nella sua articolazione letteraria, quella censura potrebbe bastare a dischiudere le porte dell’oltreumano con tutto il carico di piacere proibito che accompagna l’infrazione del divieto e il ritorno del rimosso. Contro l’ordine realistico, contro il dominio del «vero, unica sorgente d’un diletto nobile e durevole» (ancora Manzoni) il «guazzabuglio» dello «stravagante» ha sempre avuto vita difficile, da noi. Difficile ma non impossibile: è soprattutto a partire dal Novecento (eccettuata la parentesi ottocentesca degli scapigliati e il «favoloso» weirdo Giacomo Leopardi) che la scrittura difforme, votata al bizzarro e allo straordinario, riesce a far breccia nel gusto più distinto e farsi accogliere nei salotti della letteratura bene, saltuariamente e con non poche occhiatacce diffidenti.

Le schede che leggerete di seguito sono nate da un gioco, da una suggestione lessicale e da quella che chi scrive (insieme ad altri critici) odora come l’aria dei tempi, senza nessuna garanzia di certezza ma con un certa fiducia. Una sera, insieme a Valerio Mattioli, ci si è domandati se fosse possibile definire un canone di «weird» italiano, o qualcosa del genere. Weird è una parola bellissima che non ha equivalenti nella nostra lingua: il suo significato rimbalza tra il senso del misterioso, del soprannaturale e dello strano (tagliando fuori per pura forza etimologica – sia detto per gli addetti ai lavori – la sottile distinzione di Todorov tra meraviglioso e strano). Il termine diventa quello che conosciamo oggi – ovvero qualcosa di simile a un’etichetta di genere – nel mondo anglofono di fine Ottocento/inizi Novecento, e quando nel 1923 Edwin Baird introduce il primo numero della rivista che dirige, Weird Tales, descrive i suoi contenuti come «Racconti fantastici, straordinari, grotteschi talvolta, che narrano storie anomale e strane […]. Alcune saranno un incubo, altre – scritte dalla mano di maestri – tratteranno “argomenti proibiti”». Weird Tales (assieme ad Amazing Stories) diventerà il calderone ribollente da cui usciranno molte delle più famose penne e storie fantastiche del Novecento americano. Qualcosa di simile, ma di nuovo molto meno noto, succedeva contemporaneamente in Italia: se volete scoprire la storia sconosciuta delle riviste pulp (altro termine che racchiude diverse declinazione del difforme) italiane c’è un libro molto bello intitolato Alla fiera dei mostri, racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899 – 1932 di Fabrizio Foni (sempre lui).

L’idea di provare a stabilire un canone «Italian Weird» arriva tuttavia da suggestioni più dirette e cronologicamente vicine. Con gli anni Zero, tra Inghilterra e Stati Uniti si è iniziato a parlare di «new weird»: il dibattito è diventato un’antologia curata dai coniugi Ann e Jeff VanderMeer, lui romanziere ormai noto anche in Italia, lei editrice e editor (anche per Weird Tales). Nel libro molte voci si confrontano sul neo-genere in questione; il nucleo generico sarebbe dunque al crocevia tra la fantascienza, l’horror e il fantastico: tra i viventi, autori di riferimento sono considerati abbastanza unanimemente China Mièville e il più anziano M. John Harrison; Mervyn Peake è riconosciuto come un predecessore importante, e dietro tutto questo ci sono i grandi precursori Kafka e Lovecraft (e dietro ancora Poe e Hoffmann); a partire da queste non troppo definite coordinate è stato costruito una specie di canone anglosassone attuale comprendente, oltre ai suddetti, autori come Michael Moorcock, Thomas Ligotti, lo stesso VanderMeer.

Ma non è finita: nel 2011 i coniugi VanderMeer sfornano una gigantesca antologia di più di mille pagine intitolata The Weird che ambisce a consacrare il genere fornendone un’immagine esauriente e comprendente autori non solo anglosassoni. La silloge inizia con L’altra parte dello scrittore (e illustratore) austriaco Alfred Kubin, libro stupefacente del 1908 nonché primo volume in assoluto della Biblioteca Adelphi, e conclude arrivando allo stesso filone «new weird». La selezione è inevitabilmente incompleta e si potrebbero lamentare innumerevoli assenze, ma ha anche il merito di creare, come direbbe Wittgenstein, un’aria di famiglia. Degli italiani sono presenti solo Dino Buzzati e un oscuro scrittore fiorentino, Luigi Ugolini (qui è possibile vedere l’indice completo).

Dopo l’apogeo degli anni Zero il documentarismo letterario e il realismo programmatico stanno perdendo parte della loro centralità, o quantomeno del loro charme. Il soprannaturale, il misterioso, lo speculativo sono forze che si diffondono nell’immaginario culturale con crescente energia.

Nell’introduzione di The Weird il genere è definito come «letteratura proveniente dal lato più disturbante e ombroso della tradizione fantastica», ma ancora più avanti le radici del genere sono così suggerite: «le influenze […] prendono spunto da diverse tradizioni, tra cui Surrealismo, Simbolismo, la letteratura decadentista, la fantascienza New Wave e le diramazioni più esoteriche del Gotico». Come si vede, il weird appartiene alla letteratura di finzione, si colloca alla confluenza di altri generi, ma non deve necessariamente includere elementi soprannaturali. Questo per quanto riguarda i precedenti.

Per quanto riguarda l’aria che tira: si diceva all’inizio che tutta la letteratura che per comodità chiamiamo «fantastica» ha avuto storicamente difficoltà a entrare nei canoni estetici e critici della storia letteraria italiana. In un libro dell’anno scorso che dovrebbero consultare tutti quelli che si interessano alla questione, Stefano Lazzarin insieme ad altri studiosi fissa l’inizio dell’interesse accademico nostrano verso il fantastico nel 1980. Il libro è un altro mastodonte: ordina, compendia e commenta tutto il materiale critico, teorico e antologico relativo all’argomento e s’intitola Il fantastico italiano, bilancio critico e bibliografia commentata dal 1980 a oggi. Negli ultimi tre o quattro decenni dunque i critici accademici hanno scoperto che l’Italia gode di un’importante tradizione di letteratura fantastica, e di questo siamo loro riconoscenti anche perché ci permettono di prelevare da quel patrimonio tutt’altro che omogeneo qualche pezzetto utile al nostro progetto.

Tuttavia pure questo sforzo restava minoritario, e dentro e soprattutto fuori dell’accademia, dove la letteratura si fa, la situazione era abbastanza diversa. La linea egemonica dell’estetica e della critica militante è quasi sempre stata quella del realismo duro e puro, al netto del formalismo sperimentale della neoavanguardia e dei suoi epigoni. Nel 1982 Enzo Siciliano apriva la terza serie di Nuovi Argomenti invitando gli scrittori a occuparsi della «narrativa delle cose», sostantivo quanto mai empirico se non proprio materialistico, di certo poco fantastico. Uno scrittore che ha dettato la linea negli anni Ottanta come Pier Vittorio Tondelli si basava su una forte impostazione documentaristico-giornalistica e questa stessa impostazione ha continuato a dominare incontrastata fino a tempi recenti, supportata da riviste, quotidiani e autorevoli maestri, ignorando senza troppi problemi le escandescenze dei Cannibali e giungendo attraverso minimalismi nostrani e reportage narrativi degli anni novanta e zero fino ai fasti commerciali del libro-icona Gomorra.

Tutto questo non è accaduto invano, né senza avere favorito la pubblicazione di opere importanti. C’è però qualcosa nell’aria, si diceva, che sta cambiando: dopo l’apogeo degli anni Zero il documentarismo letterario e il realismo programmatico stanno perdendo parte della loro centralità, o quantomeno del loro charme. Il soprannaturale, il misterioso, lo speculativo sono forze che si diffondono nell’immaginario culturale con crescente energia. Pensate a quante distopie tra film, fumetti e narrativa si sono avvicendate negli ultimi anni. Un buon termometro di questo cambiamento è segnalato quasi involontariamente da Gianluigi Simonetti in La letteratura circostante (la sua ampia ricognizione della letteratura italiana degli ultimi tre decenni appena uscita per Il Mulino), in un confronto tra l’antologia di giovani scrittori italiani di minimum fax pubblicata nel 2005 (La qualità dell’aria) e quella pubblicata dallo stesso editore dieci anni dopo (L’età della febbre): rovesciando l’assunto realistico e impegnato della prima, dice Simonetti, nella seconda «La realtà è evocata soprattutto per essere trascesa o semplicemente forata, da qualche trovata immaginifica, da qualche stratagemma surreale».

Simonetti interpreta questa novità come una forma di involuzione escapista, così allineandosi idealmente a Manzoni e agli altri fustigatori dell’irrealtà. Io vedo le cose diversamente, e il fatto che editori nuovi e vecchi stiano favorendo l’emersione di un patrimonio immaginario più colorato e accalorato di quello che perlopiù ha segnato il «mainstream» degli ultimi decenni, mi pare qualcosa di assai stimolante. Penso al lavoro che stanno facendo marchi come Il Saggiatore sotto la guida di Andrea Gentile, Tunué nella collana diretta da Vanni Santoni, la stessa minimum fax (due dei romanzi italiani più acclamati dalla critica degli ultimi dieci anni, Il tempo materiale di Giorgio Vasta e Il cinghiale che uccise Liberty Valance di Giordano Meacci, entrambi pubblicati dall’editore romano, si muovono in territori limitrofi a quelli del weird) e altri ancora. Per una ricognizione particolareggiata del catalogo di narrativa Tunué potete leggere un articolo di Alcide Pierantozzi uscito su Rivista Studio, e quello uscito su Doppiozero di Giuseppe Carrara, che cerca di contestualizzare il diffondersi di una rinnovata sensibilità fantastica italiana all’interno di una più ampia cornice culturale.

Il semplice fatto di sapere immaginare un fuori o di suggerire altre realtà possibili e non conformi al modello unico – che si tratti di epistemologie stranianti, entità aliene o involate misticheggianti – diventa un gesto intrinsecamente politico.

C’è aria di weird: e una spiegazione a questa nuova moda potrebbe avere un senso diametralmente opposto a quello che suppongono i nemici manzoniani dello stravagante. Il critico e teorico inglese Mark Fisher, in un libro del 2016 intitolato The Weird and the Eerie, colloca il gusto per lo «strano» in una «fascinazione per il fuori, per ciò che si trova al di là delle percezioni, cognizioni, esperienze, standardizzate». Più precisamente, attuando un cambio di prospettiva, il weird ci permette di osservare «il dentro dalla prospettiva del fuori». La natura tutt’altro che escapista ma prettamente intellettuale e critica di molta di questa narrativa (e cinema, e graphic novel, eccetera) è chiaramente rivendicata da un’altra etichetta che si è abbastanza largamente diffusa anche in Italia negli ultimi anni: quella di «fiction speculativa». L’idea di una uscita, di un outside, di un varco verso l’altrove, è ricorrente in ogni definizione disponibile del weird, ma il senso più profondamente attuale e speculativo e politico di questo «fuori» lo scopriamo di nuovo grazie a Fisher e al suo libro più famoso: Realismo capitalista. Se l’equivalenza si è abbattuta sul mondo, se «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo», e se l’attuale sistema economico-politico (e culturale) globalizzato ha inoculato nel corpo e nella mente di ognuno di noi la sua specifica concezione della realtà così profondamente da rendere impossibile (o addirittura indesiderabile) l’idea stessa di un’alternativa, se tutto questo è vero e siamo davvero ingabbiati e preformati da una realtà che non è mai stata così vera e persuasiva, così efficiente e reale, allora il semplice fatto di sapere immaginare un fuori o di suggerire altre realtà possibili e non conformi al modello unico – che si tratti di epistemologie stranianti, entità aliene o involate misticheggianti – diventa un gesto intrinsecamente politico.

Anche uno scrittore non fantastico come Amitav Ghosh in La grande cecità, un importante pamphlet uscito nel 2017 dove riflette sul rapporto tra letteratura e ambientalismo, scorge nella congiuntura presente le possibilità di un’uscita verso nuovi territori dell’immaginazione artistica e politica: il romanzo realista oltre che mostrarla ha interiorizzato a livello di strutture narrative la «regolarità della vita borghese» strappando dalla scena l’imprevisto e la dimensione irrazionale del romanzo fantastico: i fenomeni climatici e il rischio globale correlato riportano al centro della percezione una «connessione di ordine superiore» liberando le trame narrative dal limitato ambito delle «avventure morali individuali». O almeno è quello che Ghosh si augura. La realtà è diventata così monolitica e squilibrata che è necessario sperimentare – almeno quello – un possibile sconfinamento.

La nostra lista di weird italiani (uso la prima persona plurale perché alcuni degli estensori delle schede sono anche in parte corresponsabili delle scelte) è un modo per sostenere le ragioni dell’outside. Nessuna pretesa di esaustività né di stretta e accademica coerenza definitoria ha guidato la creazione di un canone costruito soprattutto per forza di gusto e desiderio di assecondare la tendenza di cui si è parlato. Molti altri scrittori avrebbero potuto e certamente dovuto entrare nella lista, che esiste per questo: per allargarsi, per arricchirsi di nuovi nomi, per comporre una biblioteca ideale. Questa lista è un invito alla lettura e alla produzione di nuove opere orientate allo strano, al misterioso, al difforme.

Per ragioni di spazio e per una più pigra fedeltà alle tradizionali canonizzazioni del fantastico italiano si è deciso di limitare l’arco cronologico dall’inizio del Novecento fino ai giorni nostri. Per ogni autore si è scelto di parlare di un solo libro (ma ci sono eccezioni). D’altronde, a ribadire la forte pulsione fantastica che scorre nelle vene della letteratura italiana, alcuni importanti scrittori si sono cimentati con opere di questo tipo solo occasionalmente e quasi in contraddizione con la loro abituale poetica. Il caso più esemplare è Primo Levi: famoso al mondo per i suoi romanzi di testimonianza eppure autore di splendidi racconti bizzarri e inconsapevolmente weird. Ho affidato la descrizione dei diversi libri a scrittori, critici, amici che sapevo appassionati, esperti o comunque vicini alle ragioni del weird, o delle infinite possibilità del reale: in ordine di apparizione, a firmare le schede che seguono sono (a parte il sottoscritto) Raoul Bruni, Giordano Tedoldi, Veronica Raimo, Francesco Pacifico, Edoardo Rialti, Michele Mari, Marco Mongelli, Sara Marzullo, Gilda Policastro, Alessandro Raveggi, Danilo Soscia, Rossella Milone, Franco Pezzini, Lorenzo Alunni e Vanni Santoni. Li ringrazio tutti di cuore perché hanno generosamente prestato la loro penna solo per la causa, come si dice. Per scoprire cosa ciascuno degli autori coinvolti ha da dire su nomi e libri scelti per l’occasione, basta cliccare su ciascuna delle immagini che trovate sotto. Buona lettura.

GIOVANNI PAPINI, Tragico quotidiano (1908)
di Raoul Bruni

Il fantastico in Italia arriva in ritardo. Certo, per l’Ottocento si potrebbero citare alcune eccezioni: l’irripetibile capolavoro di Pinocchio, gli esiti precocemente perturbanti di alcune operette leopardiane, gli scapigliati che guardavano Poe; ma una moderna narrativa fantastica inizia a prendere piede solo all’inizio del Novecento. Il caposcuola è uno scrittore controverso, oggi quasi completamente dimenticato, banalmente etichettato come «fascista» o cattolico reazionario: Giovanni Papini. Il suo esordio narrativo, Il tragico quotidiano, pubblicato nel 1906 quando l’autore aveva solo venticinque anni, è una sorprendente raccolta di racconti fantastici, che fece scuola, e non soltanto in Italia. Contiene fra l’altro uno dei più suggestivi racconti fantastici del Novecento, L’ultima visita del Gentiluomo Malato, tutto costruito sui sogni di un sognatore, che è a sua volta sognato.

Sembra di leggere Borges, il quale infatti non solo lo incluse (unico racconto italiano) nella fondamentale Antologia della letteratura fantastica, curata con Adolfo Bioy Casares e Silvina Ocampo, ma introdusse e fece pubblicare un’antologia di racconti fantastici di Papini nella collana La Biblioteca di Babele di Franco Maria Ricci (Lo specchio che fugge, 1975). Basta confrontare l’incipit del Gentiluomo malato con quello di uno dei racconti più celebri di Finzioni, Le rovine circolari, per renderci conto del debito: «Nessuno seppe mai il vero nome di colui che tutti chiamano il Gentiluomo Malato. Non è rimasto di lui, dopo l’improvvisa scomparsa, che il ricordo dei suoi indimenticabili sorrisi […]» (Papini); «Nessuno lo vide sbarcare nella notte unanime, nessuno vide la canoa di bambù immergersi nel sonno, ma pochi giorni dopo nessuno ignorava che l’uomo taciturno veniva dal Sud e che la sua patria era uno degli infiniti villaggi che si trovano a monte del fiume […]» (Borges).

Nel Tragico quotidiano ci sono, fin dal titolo, i semi dello stile fantastico italiano novecentesco, che è appunto (si pensi a Buzzati) un fantastico «quotidiano», che nasce spesso da scenari realistici: si può leggere ad esempio il racconto Il mendicante di anime, in cui la storia di uno scrittore squattrinato sfocia in un apologo metafisico. Ma il fantastico di Papini è stato giustamente avvicinato anche alla pittura metafisica di Giorgio De Chirico, le cui atmosfere sembrano già prefigurarsi in questi racconti.

La vena fantastica di Papini non si esaurisce nel Tragico quotidiano ma continua a variamente a manifestarsi nelle successive raccolte di racconti, come Il pilota cieco (1907) e Parole e sangue (1912), per poi riemergere nelle cronache apocalittiche di Gog (1931). Da quel libro singolarissimo si potrebbero ricavare spunti per numerosi romanzi fantascientifici. Papini tratteggia fra l’altro lo scenario di una catastrofe planetaria che oggi farebbe pensare allo scenario di una serie tv distopica: «[dopo la catastrofe] le bande degli scampati saranno ricadute allo stato selvaggio. Nelle foreste ricresciute sui campi incolti si aggireranno tribù sospettose ed ostili alla ricerca d’un po’ di cibo. In meno di cinquant’anni l’Europa orgogliosa della sua scienza e l’America superba della sua ricchezza saranno popolate da clans di neo-primitivi». Insomma, chi fosse alla ricerca di precursori italiani del «weird» rimasti nell’ombra, troverebbe in Papini inaspettati riscontri. 

ALBERTO SAVINIO, Palchetti romani (1937-1939, pubb. 1982)
di Giordano Tedoldi

Sono stato un grande lettore e ammiratore di Savinio soprattutto intorno alla metà dei vent’anni. Adelphi pubblicava i suoi capolavori, Narrate, uomini, la vostra storia, la Nuova enciclopedia (uscita postuma). Ero così affascinato da lui che, pur non amando il teatro, acquistai anche Palchetti romani, che conteneva le sue critiche teatrali. Non saprei dire esattamente cosa mi attraesse di Savinio: tante e disparate dovevano essere le ragioni di questa fascinazione. In filigrana vi leggevo Nietzsche. Dei surrealisti – di cui Savinio, riferendo un’attestazione nientemeno che di Breton, si compiaceva di farsi considerare un precursore – non sapevo nulla e, se il suo libro più surrealista, Hermaphrodito, mi lasciò stranamente freddo, devo riconoscere che mi sembrò molto vicino a un libro che avrei potuto scrivere io in quell’epoca.

Quei tentativi cerebrali, corrivamente onirici, addensati nella prosa scettica e con pose immoralistiche che apparivano sul monitor a fosfori verdi del mio vecchio computer. Altre molte cose di Savinio non le amavo affatto, ma allora non lo sapevo, perché a vent’anni non distingui il bene dal male in una stessa cosa. A vent’anni, almeno io, ero rigorosamente manicheo. Oggi la sua tendenza ad antropomorfizzare le cose e a reificare gli uomini, che si trova continuamente nella scrittura saggistica come nei racconti, mi viene facilmente a noia. Capisco le ragioni di questo gusto per la metamorfosi – in primo luogo, l’ancoraggio di Savinio alla cultura classica ed ellenistica, ai miti di trasformazione, il suo amore per Apuleio – ma io ero e sono troppo poco greco (e di conseguenza troppo poco surrealista) per apprezzare le poltromamme e le «pianesse», i pianoforti femmina, cioè quelli a coda, che figliano tanti piccoli pianofortini che scorrazzano per la casa della signorina Fufù in uno dei racconti inclusi in Tutta la vita.

So che lo scopo di questo mio intervento dovrebbe essere quello di trovare tracce di «weirdness» nell’opera di Savinio, ma, e sarà un luogo comune, Savinio stesso era molto più weird di tutti suoi scritti, dei suoi quadri. Sulla sua opera musicale, invece, potrei dire che era davvero bizzarra, inquietante, ambigua, e disperatamente inascoltabile. La storia musicale di Savinio, un surrealista ante litteram che studia in Germania con Max Reger, severo compositore e organista il quale gli infliggeva esercizi di contrappunto nella più rigida ortodossia bachiana, è la storia di un uomo destinato a non poter conciliare il caos e l’ordine. Savinio la fece finita con la musica, in un certo senso, facendola finita con il Sé ideale come lo chiamava la psicanalisi, ovvero, con la tensione inconciliabile tra due volti della sua personalità che non avrebbero mai combaciato. La conseguenza di questa archiviazione della vocazione musicale fu quella che lui definiva polypragmosyne, cioè la sua poliedricità espressiva in tutte le arti, meno la musica ovviamente, una specie di sbocco isterico in più direzioni poiché la vera fonte, quella di Euterpe, la musa della musica, si era prosciugata sotto i suoi occhi. Alla musica tornò però sul finire della vita, quando l’arte dei suoni non lo spaventava più, quando ormai era soltanto un nemico dissanguato e che lui stesso, nelle critiche musicali recentemente raccolte in Scatola sonora, aveva degradato quale arte tradizionalista, passatista, che ripete all’infinito lo stesso rito. Logicamente, non c’è vita alcuna nelle ultime opere musicali di Savinio. Le prime composizioni di gioventù non sono ancora musica, le ultime non lo sono più. Tutto ciò non vi sembra abbastanza weird? Siete incontentabili.

Allora dovrò tornare ai citati Palchetti romani, la raccolta pubblicata da Adelphi delle sue critiche teatrali. Potrà sembrare una scelta idiosincratica, la mia, ma è in queste critiche, scritte prevalentemente per ragioni alimentari, andando a vedere spettacoli scadenti e routinari, spazientito dal profluvio di drammi «gialli» – chissà come avrebbe infuriato oggi, di fronte all’apoteosi del genere – che ho colto il Savinio senza la panoplia della sua retorica, della sua cultura sterminata. Il Savinio inerme, in poltrona, col posto pagato dal giornale, di fronte a attori cani, una pièce imbarazzante e un pomeriggio o serata interminabile e deprimente. Per consolarsi, riecheggiava un’intuizione di Stefan Zweig: a teatro, il vero spettacolo sta nel pubblico (considerazione che va collocata in un tempo in cui la gerarchia tra autore, interprete, e spettatore era, nei teatri italiani, ancora inattaccabile, e non annullata o capovolta come avverrà in seguito). Adesso fare un florilegio dei suoi malumori, del suo tagliente snobismo, delle sue ire addirittura, allungherebbe di molto lo spazio che mi è concesso e soprattutto richiederebbe un notevole sforzo negatomi dalla pigrizia. Né voglio chiudere comodamente, con una citazione a effetto, che pretenderebbe di essere riassuntiva di quelle centinaia di pagine che sono vere e proprie relazioni da un torturato in teatro. Però posso enunciare una massima se non del weird in generale, quantomeno della weirdness saviniana. Savinio sprezzava le arti, a lui interessava solo l’uomo, la sua volontà, la sua libertà. L’unica arte che avrebbe amato, la musica, lo portava a un livello tale di libertà da diventare pazzia. Per essere weird (almeno al modo di Savinio) bisogna innanzitutto essere artisti non dell’arte cui si era vocati, e poi, bisogna essere considerati dal mondo artisti in quelle arti che, come la Elisabeth Volger in Persona di Bergman, la quale sta per scoppiare a ridere nel bel mezzo di una recita di Elettra, pratichiamo senza potercene nascondere la profonda ridicolaggine – perché queste arti non sono l’altra, non sono l’anima. 

TOMMASO LANDOLFI, La pietra lunare (1939)
di Veronica Raimo

Ho letto La pietra lunare di Landolfi quando ero adolescente. C’ero arrivata dopo i racconti di Poe, passando per Lovecraft e Hoffmann. Prima di allora c’erano state solo le favole. Al tempo credevo che leggere significasse esattamente quello: vedere irrompere nella realtà elementi di un’altra realtà; non facevo distinzioni tra realismo e fantastico, semplicemente perché non sospettavo nemmeno dell’esistenza del primo. Senza internet, non ricordo come venisse generato l’algoritmo esistenziale per cui dopo Hoffmann ero stata indirizzata verso Landolfi (forse c’era di mezzo un bibliotecario), ma in quell’azzardo temporale e geografico che legava i due autori per affinità elettive, si era venuto a creare un interessante paradosso: la relativa vicinanza di Landolfi al mondo in cui vivevo – ovvero il fatto che fosse uno scrittore italiano e quindi immerso in un immaginario meno remoto – aggiungeva alle sue storie un fascino più oppressivo e, per questo, più conturbante.

La claustrofobia familiare, intrisa di noia e angoscia, dello scenario con cui si apre La pietra lunare, quell’eterno crepuscolo degli interni italiani, la «cucina che era il luogo abituale di trattenimento della famiglia», o il paese di P. dove è ambientato il libro – la quintessenza del borgo italico – o ancora «Gurù», la «capra mannara» che affiora dall’oscurità come una visione sensuale e paurosa agli occhi del protagonista Giovancarlo, rendevano le allucinazioni landolfiane disturbanti nella loro prossimità,  quasi moleste: uno «strano» al tempo stesso ferino e quotidiano. Se non si trattava proprio del mio universo di riferimento, avrei potuto però facilmente sovrapporlo a quello dei miei nonni. Oppure, per dire, immaginare che una fanciulla potesse trasformarsi in una capra, sotto la luce della luna, in un paesaggio roccioso in sentor di Appennino, come succede a Gurù – «le sue natiche vellutate s’andarono coprendo di una peluria bruna, mentre le cosce ferine s’inargentavano e il pelo se ne diradava insensibilmente» – era un esercizio speculativo meno acrobatico che fantasticare sulla metamorfosi di una donna in sirena (che poi sia la povera Gurù che la sirenetta di Andersen sfoderino tutto il loro armamentario seduttivo per essere infine tradite e abbandonate è un altro discorso). 

DINO BUZZATI, Il deserto dei tartari (1940)
di Francesco Pacifico

Per coincidenza ho ripreso in mano dopo vent’anni il Deserto dei Tartari proprio nella settimana d’uscita di Annientamento, il film di Alex Garland tratto dal VanderMeer. In entrambe le storie, persone con armi da fuoco a caccia di un nemico elusivo finiscono con lo spararsi fra di loro. Il soldato Lazzari si inoltra troppo nel deserto per andare a recuperare un cavallo: «era soldato da poco tempo, non pensava neppure lontanamente che senza la parola d’ordine non sarebbe potuto rientrare. Tuttavia temeva una punizione per essersi allontanato senza permesso». Queste due pagine sono un fantastico balletto di burocrazia mentale.

«Chi va là, chi va là?» gridò la terza volta la sentinella e nella voce c’era sottinteso come un avvertimento privato e antiregolamentare. Voleva dire: «Torna indietro finché sei in tempo; vuoi farti ammazzare?»

E finalmente il Lazzari capì, si ricordò in un lampo le dure leggi della Fortezza, si sentì perduto. Ma invece di fuggire, chissà perché, lasciò le briglie del cavallo e si fece avanti da solo, invocando con voce acuta:

«Sono io, Lazzari! Non mi vedi? Moretto, o Moretto! Sono io! Ma che cosa fai con il fucile? Sei matto, Moretto?»

È l’italiano di fronte allo stato di polizia, al diritto. Lui degli usi e costumi e dell’adattamento alle situazioni, deve affrontare il Leviatano, peraltro un Leviatano che guarda al nulla.

Ma la sentinella non era più Moretto, era semplicemente un soldato con la faccia dura che adesso alzava lentamente il fucile, mirando contro l’amico.

E dopo ancora:

Ma la sentinella non era più il Moretto con cui tutti i camerati scherzavano liberamente, era soltanto una sentinella della Fortezza[,] assolutamente identica a tutte le altre nella notte, una sentinella qualsiasi che aveva mirato ed ora premeva il grilletto.

La reazione del Lazzari, centrato: «Oh Moretto, mi hai ammazzato!» E come muore, «un rimescolio guerriero si propagava per i meandri della Fortezza».

Se vogliamo inserire Buzzati nella galassia weird col senno di poi, dobbiamo partire da una cosa molto italiana, quasi fantozziana. È vero che qui ci si ammazza come in VanderMeer, ma l’ignoto davanti non è una forza strepitosa che cerca di creare altra vita. Ci si ammazza quasi per un incidente burocratico. La fortezza è un centro per la noia, ricorda il sanatorio della Montagna incantata, e oggi, davanti ai temi della nostra letteratura fantastica, l’estinzione e i cambiamenti climatici, una favola sull’attendere un nemico che non esiste sembra solo una metafora del posto fisso e dell’awkward – più che del weird – da posto di lavoro.

«Signor capitano!» gridò finalmente Giovanni, vinto dall’impazienza. E salutò di nuovo.
«Cosa c’è?» rispose una voce dall’altra parte. Il capitano, fermatosi, aveva salutato con correttezza ed ora chiedeva a Drogo ragione di quel grido. […]
«Giovanni si fermò, fece portavoce con le mani e rispose con tutto il fiato: «Niente! Desideravo salutarla!»

Chi arriva alla Fortezza Bastiani si ritrova ad amarla come una madre in Hitchcock. E la finge viva e attiva anche se non vale niente. La Fortezza Bastiani è infatti

«Vecchissima, completamente superata».
«Ma è una delle principali, vero?»
«No no, è una fortezza di seconda categoria» rispose Ortiz. Pareva che ci trovasse gusto a dirne male, ma in un tono speciale[.] «È un tratto di frontiera morta[.] Così non l’hanno mai cambiata, è sempre rimasta come un secolo fa».

È una «frontiera che non dà pensiero», davanti c’è un «grande deserto», «nessuno dev’essere passato di là, neppure nelle guerre passate».

«Così la fortezza non è mai servita a niente?» chiede il nuovo arrivato.
«A niente».

Il weird di Buzzati sarebbe un weird della piccolezza. Se da lontano colpisce il «nudo colle» al tramonto «e sul ciglio di esso una striscia regolare e geometrica, di uno speciale colore giallastro», alla seconda visione, il giorno dopo, «pareva davvero piccola in confronto alla visione della sera prima. Dal forte centrale, che in fondo assomigliava a una caserma con poche finestre, partivano due bassi muraglioni merlati che lo collegavano alle ridotte laterali, due per parte. I muri sbarravano così debolmente l’intero valico…»

Davanti alle allucinazioni del deserto «Giovanni ricominciava a pensare che davvero non ci fosse nulla… Ora sentiva perfino un’ombra di opaca amarezza, come quando le gravi ore del destino ci passano vicine senza toccarci».

È così strano che sia uscito nel 1940, mentre di Weird c’erano i gas e le sparizioni di fette intere di popolazione. Sembra invece una metafora del mondo che in Italia comincerà a creare la DC subito finita la guerra, quando ci si ammazzerà di circolari e di estati al mare. 

ITALO CALVINO, I nostri antenati (1952-59)
di Edoardo Rialti

Quella della fiaba, del racconto fantastico non è una via di capriccio e di facilità: guai se ci si sposta troppo dalla parte della pura gratuità surrealistica e guai se ci si costringe al gioco obbligato d’una stretta allegoria morale o storica. La fantasia perché non sia come un cartaceo scenario di teatro dev’essere intrisa di memoria, di necessità, di realtà insomma.
Calvino

Voleva essere «il Chesterton comunista». Tuttavia, a oltre un secolo di distanza dai fratelli tedeschi e la loro opera, è stato anche il Grimm italiano. E proprio nello scritto che accompagnava le Fiabe italiane, tentando di sintetizzare il valore profondo del racconto fantastico popolare, lo definì un prezioso «catalogo dei destini». Chi conosce l’opera di Calvino, intuisce immediatamente che un’immagine simile potrebbe figurare tra i titoli dei suoi stessi libri. Al pari di altre espressioni e giudizi critici («l’incalcolabile pluralità di mondi… indistinti confini tra mondi diversi») condensa e accosta al tempo stesso la vastità e l’inventario, la velocità vorticosa e il controllo. Per lui non c’era alcuna contrapposizione tra immaginazione fantastica e impegno: «ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senza’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne». Del resto, già la sua narrativa d’esordio sulla Resistenza era stata definita «fiabesca». «Possiamo dire di aver visto davvero un uomo, se non lo vediamo protagonista d’una fiaba?» si chiedeva il già citato Chesterton. Anche per Calvino «le fiabe sono vere.» Il grottesco e l’enigmatico costituiscono infatti forme privilegiate di quella «lettura come interpretazione» che egli sentiva propria del nostro tempo.

I Nostri Antenati («una trilogia d’esperienze sul come realizzarsi come essersi umani») si inserisce in questo orizzonte. Già il titolo complessivo ambisce a tratteggiare una condizione comune, al pari del «cammin di nostra vita» dell’incipit dantesco. Vi si raccontano infatti «tre gradi d’approccio alla libertà» che diagnosticano e rispondono, da diverse prospettive, alla medesima crisi: «Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l’uomo contemporaneo; Marx lo disse “alienato”, Freud “represso”; uno stato d’antica armonia è perduto, a una nuova completezza s’aspira.» Tre diverse ambientazioni, tre diverse fonti letterarie principali (Stevenson, Voltaire, Ariosto), tre diverse verifiche dell’esserci. Rispetto a sé, agli altri, al mondo. Parafrasando Chesterton, possiamo dunque dire che abbiamo davvero visto davvero il conflitto tra le pulsioni se non abbiamo visto l’uomo come un visconte dimezzato da una cannonata? Possiamo dire di aver raccontato davvero la misteriosa fecondità di chi si sottrae ai meccanismi sociali se non abbiamo visto l’uomo come un barone che sale sugli alberi per non discendervi più e da quella diversa prospettiva diffondere benessere e invenzioni? Possiamo dire di aver davvero riflettuto sulla condizione sempre più artificiale del nostro rapporto col mondo se non immaginiamo un cavaliere che non esiste, una corazza vuota perfettamente efficiente (e Calvino, affrontando con questo terzo romanzo la dinamica «più fantascientifica» delle tre ricorrendo però a un’ambientazione fantasy-cavalleresca, ha dato prova di ulteriore sottigliezza).

Intorno a Medardo, Cosimo, Agiulfo, a queste tre radici della nostra incompletezza e delle nostre spinte a superarle, si dispiega, ancora una volta, il catalogo degli altri destini possibili, le diverse strade si dividono nello stesso bosco. Lebbrosi e ugonotti webeneriani, cavalieri del Graal («il buddismo dei samurai»), scudieri bestiali, adolescenti stendhaliani e donne-guerriere…il tutto filtrato- ed è significativo- dall’ordinarietà della voce narrante (un fanciullo, un fratello, una monaca) che a sua volta consente distacco dalla vicenda e immedesimazione per il lettore stesso, giacché nel corso degli anni a questa dialettica tra fantasia e realtà si aggiunge sempre piú una riflessione sulla natura stessa della scrittura e della lettura, il «rapporto tra la complessità della vita e il foglio su cui questa complessità si dispone sotto forma di segni alfabetici».

Come e piú di Eco, Calvino resta tuttora il nome piú citato della letteratura italiana contemporanea. Proprio per questo, sintetizzarne il peso e l’eredità anche solo di questi tre romanzi nel «weird italiano» è impossibile. La complessità dei temi, degli interessi e delle sperimentazioni stilistiche spesso sono state ridotte a formule che non ne esprimono la piena complessità, e per una certa vulgata, il fantastico italiano «alla Calvino» è diventato sinonimo di mero gioco cerebrale, pastiche citazionista. In realtà, I Nostri Antenati stessi nacquero tutti come «immagini, non da una tesi».

Semmai, parte decisiva di tutta la sua narrativa va cercata, anche qui, nel campo elettrico che si accende tra i poli della consapevolezza ironica per la tragica e nevrotica separazione contemporanea da epoche e culture dove «la verità è ancora fedeltà al mito», aderenza a un racconto complessivo e condiviso, e la consapevolezza sorridente che «le storie possono assomigliarsi, mai ripetersi», ancora oggi. E la contemplazione di tali infinite combinazioni e solo parziali sovrapposizioni, che connettono tarocchi e galassie, partigiani, mercanti medievali e lettori di storie sempre incomplete, ridesta nel lettore una «forma particolare di attenzione», perché vi presagisce una consolazione indefinibile ma reale, nella dolorosa e incerta verifica quotidiana del nostro stesso esserci. 

PRIMO LEVI, Storie naturali (1967)
di Michele Mari

Può, uno scrittore, sentirsi in colpa per il piacere procuratogli da ciò che ha scritto? Non dovrebbe, anche se ha già scritto Se questo un uomo e La tregua, così il suo senso di colpa ci appare sommamente ingiusto, e ci accora.

Nel 1967, sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila, Primo Levi pubblicò in volume le Storie naturali, parzialmente anticipate su giornali e riviste: quindici racconti fantastici e fantascientifici, felicissimi per ispirazione, per trovata e per tenuta, che trasmettono appunto il piacere e il divertimento con cui sono stati scritti, e che proprio per questo l’autore sentì come qualcosa di sconveniente non solo al momento di offrirli al pubblico (onde lo pseudonimo) ma già nell’atto di scriverli. Confessando il proprio disagio per questa «trasgressione» Levi spiegò: «chi ha coscienza di un “vizio”, di qualcosa che non va, dovrebbe approfondirne l’esame e lo studio, dedicarcisi, magari con sofferenza e con errori, e non liberarsene scrivendo un racconto»; e poi ancora: «io sono entrato (inopinatamente) nel mondo dello scrivere con due libri sui campi di concentramento; non sta a me giudicarne il valore, ma erano senza dubbio libri seri, dedicati a un pubblico serio. Proporre a questo pubblico un volume di racconti-scherzo, di trappole morali, magari divertenti ma distaccate, fredde: non è questa frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell’olio?» No, non è frode; al contrario, per quanto mi riguarda, è proprio in questi racconti (oltre che nella Chiave a stella e nel Sistema periodico) che, libero dall’ipoteca inevitabilmente ricattatoria della “testimonianza”, ho la prova della grandezza di Levi come scrittore.

Sei di questi racconti, pur in ordine sparso, costituiscono una serie, essendo dedicati ad altrettante invenzioni della NATCA, società specializzata in rivoluzionari brevetti tecnologici: macchine versificatrici che sembrano uscite dalla fantasia di Apollinaire (Il Versificatore), macchine che duplicano qualsiasi cosa, persone comprese (L’ordine a buon mercato, Alcune applicazioni del mimete), simulatori di esperienze virtuali (Trattamento di quiescenza, in anticipo sul Tagliaerbe di King e su Brainstorm), traduttori dalla lingua delle api e delle libellule in modo da stabilire con loro accordi commerciali (Pieno impiego), misuratori di bellezza (la misura della bellezza): storie, queste, effettivamente «divertenti ma distaccate, fredde», prigioniere come sono della stessa trovata.

Altrove invece la trovata lievita e si modula in una narrazione più rotonda e ombreggiata, come in Versamina (composto chimico che invertendo il rapporto fra dolore e piacere spinge il soggetto sperimentale a un voluttuoso quanto letale autolesionismo), o nei Mnemagoghi, dove si immagina (con un’idea che, ereditata da Baudelaire e da Proust, suscitò molte variazioni nella fantascienza degli anni ’50 e ’60, con vertici in Fredric Brown e Robert Sheckley) un magazzino di odori sintetici capaci di suscitare specifici ricordi metafisici (quella noia di quei pomeriggi, quella camera, quell’aula scolastica…); oppure nel Sesto giorno, che inscena una disputa divina – ma tutta declinata in chiave tecnico-progettuale – sulla morfologia da assegnare al creando uomo, in modi aerei e paradossali che ricordano da vicino alcune delle Operette morali di Leopardi, prima fra tutte La scommessa di Prometeo.

Ma dove Levi ci conquista e ci lascia ammirati è in tre altri racconti, ognuno dei quali è un autentico capolavoro: L’amico dell’uomo, Quaestio de Centauris e Angelica Farfalla. Il primo, che potrebbe essere stato scritto da Borges o dal miglior Cortázar, ci ragguaglia sul linguaggio lirico, affidato a una «metrica cellulare», delle tenie, e sul loro lancinante desiderio di interloquire con gli umani che le ospitano. Le «traduzioni» leviane delle loro mute composizioni sono degne dei Tristia di Ovidio, e tanto più ci struggono quanto più bassa e materica ne è la genesi. Se per la costruzione e la stilizzazione i primi nomi che vengono in mente sono quelli dei due argentini, per la situazione narrativa in se stessa non c’è dubbio che i numi tutelari di un racconto simile siano Landolfi e Manganelli. E landolfiana, talmente landolfiana da sembrare un apocrifo, è la magnifica Quaestio de Centauris. Qui, dopo avere ricondotto le specie favolose alla «fecondità delirante, furibonda» o «panspermìa» succeduta al Diluvio Universale («Ora questo fango, che albergava nella sua putredine tutti i fermenti di quanto nel diluvio era perito […], ospitò nel suo seno cedevole ed umido le nozze di tutte le specie…»), si ragiona in particolare dei Centauri, in cui «la possa erbivora del cavallo» si congiunge alla «cecità rossa dello spasimo sanguigno e vietato» con cui furono concepiti. Uno di questi, adottato dalla famiglia del narratore, cresce (o meglio continua a vivere la sua vita plurisecolare) in semiclandestinità, compagno di giochi e di profonde conversazioni con lo stesso giovane narratore: fino all’arrivo, nel casolare vicino, di una fanciulla di cui il castissimo bimembre si innamora perdutamente. La ragazza si concederà invece all’umano, sconvolgendo così la favolosa creatura, che percepisce l’oltraggio a distanza: tutti i suoi simili infatti «sentono per le vene, come un’onda di allegrezza, ogni germinazione, animale, umana o vegetale. percepiscono anche, a livello dei precordi, e sotto forma di un’ansia e di una tensione tremula, ogni desiderio ed ogni amplesso che avvenga nelle loro vicinanze». Frustrato nel suo sogno d’amore con una donna, folle di dolore come Orlando furioso, il Centauro fuggirà per darsi sistematicamente al coito brutale e selvaggio con le cavalle di tutti i casali che incontrerà nel suo viaggio di ritorno alla Grecia, volutamente imbestiato, sempre più imbestiato e lussurioso di stupro in stupro, nella celebrazione delle sue «nozze gigantesche». E c’è una pietas, nello sguardo e nella voce del narratore, un tale senso di colpa, che ci mettono di fronte come non mai a quel «vizio di forma», grande o piccolo che sia, che vanifica la civiltà e la morale, e che per li rami collega queste storie ai libri più famosi.

Un collegamento si dà anche in Angelica Farfalla, poiché gli esperimenti biologici ivi narrati sono stati effettuati da un medico nazista, e non possono non evocare il «gigantesco esperimento biologico» di Se questo è un uomo. Scoperto che un animaletto messicano, l’axolotl, si riproduce allo stato larvale, e che soltanto pochissimi individui particolarmente longevi giungono allo stadio successivo, il dottor Leeb ipotizza che tale condizione (altrimenti detta neotenìa) possa interessare anche l’uomo, la sconosciuta evoluzione del quale potrebbe essere nientemeno che l’angelo, come il dottore inclina a credere, da buon nazista, sulla base di adeguate fonti esoteriche. E poiché l’inoculazione di un estratto tiroideo provoca nell’axolotl la metamorfosi, perché non provare a trasformare il verme umano nella dantesca angelica farfalla? Tanto si viene a scoprire per frammenti, man mano che a guerra finita gli alleati indagano. Interrogando una testimone scopriranno che quattro esseri umani legati su altrettanti tavolacci hanno in effetti subito la metamorfosi, ma per diventare esseri mostruosi con ali più di pipistrello, o di pollo arrosto, che di angelo: scena raccapricciante degna di un finale di Lovecraft. (Per la cronaca, l’axolotl non esce dal Manuale di zoologia fantastica, ma esiste veramente). 

RODOLFO WILCOCK, La sinagoga degli iconoclasti (1972)
di Marco Mongelli

L’universo letterario atipico e irripetibile di Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978), scrittore argentino e poi italiano, è costellato di figure fantastiche e orrorifiche, di strani esseri tra l’umano e il mitologico. Questo immaginario che oggi definiremmo weird è comune a gran parte della sua produzione in lingua italiana, specialmente quella breve. Dai racconti di Il caos (poi riscritti in Parsifal, 1974), ai ritrattini metamorfici del Libro dei mostri (1978), passando per il romanzo franto di Lo stereoscopio dei solitari (1972), Wilcock ha lavorato a una serie di variazioni comiche – di ispirazione soprattutto borgesiana ma anche più schiettamente fantascientifica – su un campionario di bizzarrie fisiche e di situazioni paradossali. Se volessimo però indicare il luogo in cui questo carattere weird emerge in maniera più pregnante dovremmo guardare a La sinagoga degli iconoclasti (Adelphi 1972, poi ristampato nel 1990 e nel 2014), che fra tutti è il libro di Wilcock più coeso e strutturato, più complesso e, in definiva, più bello.

In questa raccolta di biografie finzionali che si rifanno esplicitamente ad Aubrey, Schwob e Borges (e che saranno prese a modello da Bolaño), la weirdness non è più (solo) fisica ma soprattutto morale. Dietro la divertente e buffonesca bizzarria da folli visionari, incompetenti dilettanti o utopisti mitomani, i trentasei personaggi oggetto di biografia nascondono spesso un carattere poco innocuo, inquietante e persino abietto. Affascinante come quella dei criminali borgesiani, l’infamia descritta da Wilcock è quindi più perturbante, perché i suoi idioti presuntuosi (che siano inventori, artisti o scienziati) sono capaci di uccidere un ragazzo di quattordici anni in nome di una strampalata ricerca sulla sostanza della bellezza (come il medico Henrik Lorgion) o di creare una sorta di campo di concentramento per «cretini» (come il dottor Alfred Attendu). Attraverso una poetica basata sulla manipolazione e la falsificazione di dati reali da un lato e sull’imitazione di generi fattuali come il saggio storico, l’enciclopedia o il manuale scientifico, dall’altro, Wilcock è in grado di dare verosimiglianza alla smisurata ambizione dei suoi personaggi, i quali sono allo stesso tempo esseri dotati di un’innocenza assoluta (è la lettura di Bolaño) e geni talmente spaventosi da dover essere rinchiusi in manicomio (è la lettura di Pasolini).

La frizione tra gli elementi fortemente comici e quelli altrettanto disturbanti crea lo spazio per lo spaesamento, che è poi lo spazio di quella weirdness che, secondo Mark Fisher, è data proprio dalla presenza di ciò che «does not belong», di quello che non potrebbe o non dovrebbe esistere eppure c’è. In questo spazio Wilcock può sognare un mondo infernale e abitato solo da iconoclasti, dove utopia e distopia si annullano in un nichilismo che non ha bisogno di empatia o di pietà.  

MARIO SOLDATI, Lo smeraldo (1974)
di Carlo Mazza Galanti

Lo Smeraldo è un oggetto unico e raro non solo nel vasto corpus di opere narrative e cinematografiche di Mario Soldati (che pur non disdegnava le lusinghe dello strano e dell’arcano) ma nell’intero panorama della letteratura italiana del secondo Novecento. Inedito incrocio di temi che attingono in uguale misura dal fantastico psicologico, dal fantascientifico e dalla fantapolitica, questo romanzo che l’autore ha scritto in età matura (a 68 anni) potrebbe addirittura essere annoverato tra i precursori dell’autofinzione o meglio ancora dell’autofinzione onirica (ipotizzando l’esistenza del sottogenere).

Lo scrittore Mario Soldati si reca in America dopo decenni dal suo primo soggiorno (quella America primo amore immortalata in uno dei suoi libri più memorabili) e incontra Count Cagliani, personaggio circonfuso di mistero dall’aspetto nobiliare e vagamente mefistofelico, che preconizza intorno alla vita del protagonista: questi troverà a Saorge, nella Francia meridionale, uno smeraldo che produrrà eventi fatali. Titubante ma attratto dalla promessa di avventura, lo scrittore si reca nel luogo tempo dopo e come per gioco, prende una stanza in una pensione e lì si addormenta. Inizia qua, a pag. 121 della mia vecchia edizione Mondadori, il vero e proprio romanzo: un lungo sogno vigile (il sognatore è consapevole di stare sognando) in un mondo ambientato in un futuro distopico dove il pianeta, in seguito a una nuova guerra mondiale, è rimasto diviso in due parti: nord e sud. L’Italia è tagliata all’altezza della toscana, l’Oceania fa parte del sud, la Russia controlla buona parte del nord insieme all’America in un quadro politico di rigido statalismo diffuso. Vige per esempio, in questo grande nord, un pesante controllo demografico in virtù del quale i figli vengono sottratti ai genitori e riallocati presso altre famiglie.

Esistono anche due papi, uno a Malta (sud) l’altro a Aquileia (nord). Il Sud, oltre che più povero, sembra più politicamente frammentato e in mano a oligarchie economico-religiose (con forme di sincretismo islamo-cristiano) dai modi di gestione del potere tendenzialmente più barbarici rispetto al nord. Le due parti sono state divise alla fine della guerra da dei satelliti che hanno sganciato bombe atomiche lungo il confine, creando una fascia larga cinquanta chilometri di devastazione post-nucleare nella quale è vietato entrare e che a causa delle radiazioni isola completamente l’una dall’altra le due metà del mondo. Al tempo della narrazione sono passati decenni dai bombardamenti satellitari e il pericolo di contaminazione è probabilmente terminato, in pochi tuttavia sembrano saperlo e le due parti continuano a vivere nella reciproca ignoranza. Soldati, nel sogno, non è Soldati e non è scrittore ma un pittore famoso nel nord (dove gli artisti sembrano godere di un peloso privilegio statale) di nome Andrea Tellarini. Il protagonista sognatore vive la sua vita alternativa scoprendo pezzo a pezzo gli elementi della nuova identità. Il senso di impostura e sdoppiamento lo accompagnano nella sua ricerca.

L’attrazione dello smeraldo e la memoria di un amore interrotto spingono Tellarini/Soldati ad attraversare la fascia di devastazione, a percorrere le strade deserte di una fantastica Roma post-atomica dove vivono solo famiglie di zingari e loschi contrabbandieri, e infine raggiungere l’altra metà del mondo. In tutto il romanzo la fantasia politica accompagna in contrappunto il tema della quest  identitaria del protagonista: il piano di lettura psicoanalitico e quello fantapolitico si confondono e generano cortocircuiti inediti. La incoerenze cronologiche o di altro tipo sono funzionali al lavoro onirico e, come nei sogni, la storia s’interrompe al momento di massima tensione.

Se c’è un libro di Soldati che merita di entrare a pieno titolo in un canone eccentrico e weird, questo è Lo smeraldo: romanzo ibrido e sperimentale, scritto benissimo come ogni sua cosa, attraversato ora dal vento tiepido del conte philosophique ora da qualche gelido spiffero di terrore gotico. Peccato che da molti anni non sia più reperibile al di fuori del Meridiano dedica ai romanzi  dello scrittore torinese e curato da Bruno Falcetto (ma se vorrete non avrete difficoltà a trovare una copia usata delle belle edizioni degli anni Settanta). 

GIORGIO DE MARIA, Le venti giornate di Torino (1976)
di Sara Marzullo

Quasi tutto quello che circonda Giorgio De Maria sembra legato a coincidenze e segnali indecifrabili: la sua vita assomiglia a una di quelle detective story in cui tutti gli elementi convergono, ma alla fine non si scopre niente, se non che il destino è solo una parola che usiamo per dire il modo obliquo di manifestarsi delle cose. Irregolare della letteratura italiana, il suo nome ricompare, dopo quarant’anni di oblio (il libro è del 1976), con la pubblicazione del romanzo Le venti giornate di Torino negli Stati Uniti, grazie a Ramon Glazov, traduttore australiano appassionato di fantascienza e romanzi eretici. Come è possibile? Di mezzo c’è Luca Signorelli, consulente editoriale, torinese come De Maria, e ospite di Glazov nelle sue permanenze italiane. Niente di strano, se non fosse che Signorelli, senza saperlo, aveva passato interi pomeriggi a casa di De Maria, negli anni Settanta, amico di suo figlio Domenico. Lo aveva scoperto anni dopo: probabilmente, mentre i due ascoltavano i Black Sabbath, nella stanza accanto si stava scrivendo questa storia.

Feroce anticlericale, De Maria era stato membro dei Cantacronache, insieme a Calvino, Eco e Fortini, ma dopo la pubblicazione del romanzo, aveva iniziato a soffrire di problemi mentali, che lo avevano portato a un esaurimento nervoso e un’improvvisa conversione religiosa. Muore nel 2009, in miseria, alcolizzato e dipendente dall’Halcion: rilette oggi Le venti giornate di Torino sembrano contenere in nuce questa follia. I prodromi della malattia paiono emergere dal racconto di quella stagione allucinata della città, quando, per venti giorni, un’improvvisa insonnia colpisce i cittadini costringendoli a vagare come zombie nella notte e lascia cadaveri schiantati sul selciato. Nel romanzo un uomo, uno scrittore, non un poliziotto, indaga su quei fatti, in un crescendo di paranoie e coincidenze spaventose, che partono dal Cottolengo, la Piccola casa della Divina Provvidenza, che ospita la misteriosa Biblioteca, e proseguono tra suore, statue che sembrano muoversi e lettere anonime.

Il legame tra biografia, malattia e letteratura sembra tornare anche in un altro suo racconto, La morte a Missolungi, in cui una maledizione impedisce a Lord Byron di scrivere: ci si rivede lo stesso De Maria, la cui carriera da pianista era stata stroncata da una malattia, forse psicosomatica, che aveva colpito le mani.

Eppure questa lettura biografica non spiega poi molto e rischia di fargli un disservizio: De Maria è un autore colto, profondamente influenzato dalla letteratura del fantastico e dell’orrore; questo romanzo di fantasmi, di corpi perturbanti e di architetture stranianti, rintraccia i suoi antecedenti nella narrativa weird e in Lovecraft: Providence, così come Torino, è una città (ex) industriale in cui l’eleganza e la cortesia dei cittadini si trasformano in reticenza, omertà e in un’atmosfera inquietante.

E poi ancora, Le venti giornate di Torino, che è del 1976, anche nella sua extra-ordinarietà, instaura delle parentele con opere dei suoi anni: prima di tutto con Guido Morselli e il suo Dissipatio HG (pubblicato postumo nel 1977), o, anche, con La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati (del 1976). Ci sono le voci, le città desertificate e le stragi – immagini di quelle reali degli anni di piombo. Questi testi inscrivono il malvagio nelle geografie urbane: ci sono la città del potere economico e i crimini coperti da silenzi omertosi, e poi l’esoterica Torino che pare uscita da un dipinto di De Chirico, sfondo, proprio in quegli anni, anche di Profondo rosso di Dario Argento. Torino è la città del diavolo, centro dei triangoli della magia nera e della magia bianca, la città dove Nietzsche impazzì e di cui Kafka , laconico, scrisse «non andare a Torino. A nessun costo». Torino è, nelle parole di De Maria, la città che tiene a sé, “incatenati come Prometeo alla roccia”: è questo il luogo di nascita della Soffitta Macabra e di Surfanta, i gruppi artistici surrealisti di Lorenzo Alessandri, il «Papa Nero», artista cattolico e allo stesso tempo appassionato di occultismo, ufologia e satanismo.

All’inizio si era detto che questo è un romanzo delle coincidenze e allora: in quegli anni a capo del gruppo torinese che si stringeva intorno a Gurdjeff c’era Giancarlo Frassinelli – figlio di Carlo, fondatore della casa editrice; tra gli adepti, anche la moglie di De Maria. Frassinelli, rimasto paralizzato a seguito di un ictus, era stato poi ucciso dal suo infermiere, un uomo disturbato, che agì, forse, in obbedienza all’ordine dell’uomo (tecnicamente: suicide by proxy). La cosa inquietante è che l’omicidio era avvenuto proprio nell’androne del palazzo dove viveva De Maria. Oggi la casa editrice, che ha ripubblicato il libro, non appartiene più alla famiglia Frassinelli, ma ancora una volta Le venti giornate di Torino si rivela una storia di coincidenze e interdipendenze che sembrano nascondere altri, sinistri significati. 

GUIDO MORSELLI, Dissipatio H.G. (1977)
di Gilda Policastro

Chi dice io, nell’ultimo (e postumo, come del resto gli altri) dei romanzi di Morselli, Dissipatio H.G., scritto nell’anno della tragica morte dell’autore, il ‘73? E dove si trova Crisopoli, il locus disamoenus in cui si ambienta la narrazione? È una dimora terrena svuotata di abitanti o un altrove di indefinita collocazione all’indomani di una sciagura, fosse anche solo personale (un suicidio premonitore, ipotizziamo, complice l’autore fuori e dentro il testo)? Il topos dell’altrove o dell’altrimenti è, come nel precedente morselliano di Contro-passato prossimo, mutuato dalla letteratura di genere: dalla fantascienza e in particolare dal romanzo postatomico che avrebbe avuto così grande fortuna nei decenni a seguire, arrivando fino alle serie tivù distopiche alla Black Mirror. E però in Dissipatio non troviamo traccia di deflagrazioni o altri accidenti cosmici: dove sono finiti gli uomini e chi ha salvato (o meglio: «escluso») e per quale ragione, l’io che narra? Non sembrano questi i motivi di preoccupazione del narratore, qui: piuttosto, la descrizione di un vuoto che potrebbe sembrare onirico («la sospensione notturna della vita collettiva semplicemente si è prolungata, indefinitamente prolungata»), ma è in realtà la sottrazione simultanea di elementi in precedenza vitali, un «silenzio da assenza umana».

Così, ad esempio, Teklon, l’aeroporto di Crisopoli ex scalo internazionale, ora «vuoto di gente. Le sale, le biglietterie, la dogana, il deposito bagagli, il bar, il ristorante […]; nessuno». E allora, chi è l’io che narra, e perché si è ritrovato, improvvisamente, solo? Si tratta di una condizione privilegiata o di una punizione? E dove sono andati, loro? Che si tratti di un’allucinazione o del contrappasso per una natura dichiaratamente fobantropa («la società, dopotutto, era semplicemente una cattiva abitudine»), certo è che questa immotivata desertificazione riguarda lo spazio antropomorfo, non il mondo in sé. Proprio come nel Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo di Leopardi, di cui uno dei passaggi centrali di Dissipatio sembra una sorta di perifrasi o condensato: «il mondo non è mai stato così vivo come oggi che una razza di bipedi ha smesso di frequentarlo».

Il mondo svuotato di uomini varrebbe perciò come metafora (anche se nel testo si tende a rifiutare la categoria) di uno svuotamento in atto, nell’interiorità dei singoli così come nella società (passo ulteriore rispetto al nichilismo leopardiano, che salvava almeno l’utopia di un’alleanza degli uomini contro la natura). Intanto, però, nell’impossibilità di situarsi in un qualche altrove affiora l’«engouement postumo», che rimanda per Morselli all’«occlusione» della stessa vita, per cui «morire biologicamente è il perfezionarsi di uno stato in cui ci troviamo già ora». Allegria. E però, malgrado gli espliciti segnali del testo, sarebbe semplicistico considerare questo libro come un testamento oppure, al limite, come testamento di un’epoca, quella in cui ai personaggi dei romanzi era consentito questionare della loro infelicità: «ho un progetto», ci confida l’io di Dissipatio, «e con questo […] sfato la morte, da me e da attorno a me» (p. 109). Purtroppo in almeno uno dei due casi ha indubbiamente fallito. 

PAOLO VOLPONI, Il pianeta irritabile (1978)
di Alessandro Raveggi

Autore dalla voce inimitabile in Italia e dalla visione anticipatrice sulla metastasi turbo-capitalista, nel Pianeta irritabile, romanzo uscito nel 1978, Paolo Volponi seppe condensare molte cose assieme, in un libro che oggi verrebbe sicuramente catalogato come post-esotista, peccato sia stato scritto circa trent’anni prima delle opere di Volodine. Il pianeta irritabile è un breve Roman de Renan che pare scritto usando i colori di un illustratore di Metal Hurlant, una distopia post-umana e picaresca che tocca a volte la caratura filosofica di nuove Operette morali, un affresco lunare e grottesco ad un tempo di una terra devastata dall’atomica ma soprattutto dal General Intellect, il calcolo astratto applicato al lavoro e all’uomo. E ovviamente è una crudele favola ambientalista e animalista – priva dell’idea però che gli animali siano necessariamente creature innocenti, ma quantomeno non totalmente contaminabili – in risposta ad un globo abbandonato dall’uomo per colpa dell’uomo stesso. Vi si narrano le avventure di un’Armata Brancaleone di superstiti animali, trickster fuggiti da un circo: lo spietato stratega babbuino Epistola, l’elefante Roboamo (che sa a mente Il Purgatorio), l’oca Plan Calcule che comunica scagazzando – lo scatologico e la poesia vanno a braccetto nel Pianeta – e infine, al loro guinzaglio c’è quello che è il loro servo-gregario – e unico umano della banda sebbene dimidiato – il nano deforme Mamerte, a volte chiamato Zuppa. Gli animali parlanti vagano senza apparente meta in cerca di una nuova aurora, in una piaggia desolata e continuamente allegorica, grigia, violacea, rossastra, come inoltrandosi in un leopardiano giardino sofferente ridotto allo stadio terminale, dove l’uomo è ciononostante sopravvissuto, è il governatore del mondo e viene chiamato Moneta (!), il quale ingaggerà con gli animali una battaglia finale, apparendo all’improvviso con un sommergibile, come un mostro alla fine dello schema di un videogame.

Anzi, a volte, pare di leggere in questo romanzo esattamente una partitura da videogame, che si spixella e riprogramma mentre procede, giocato in uno scenario sia naturale che artificiosamente innaturale, prodotto di quel «taglio immenso, un grande svisceramento, attraverso il quale si sono versati gli oceani e caduti a capofitto i continenti» scrisse lo stesso Volponi, conseguenza catastrofica cioè del dominio capitalista sulla vita e sull’ambiente. Nella speranza di una nuova Alleanza tra uomo e animale, in questo arcade leopardiano si trovano visioni portentose: «montagne blu… di ghiaccio», un mondo incenerito, inquietato dalla presenza di due lune o più, che a volte però si interrompe in una «erba alta e selvatica, di genere lacustre, con grandi lame», dove «piove a dirotto da sempre», dove «il cielo rimaneva orfano di luce… anzi era caduto e spiegazzato in basso», oppure dove si incontrano, ora invase dalla natura intossicata che si ribella, le vestigia manageriali del mondo che sarà descritto da Volponi ne Le mosche del capitale. Come quella «grande poltrona di cuoio», reliquia iper-significante (perché trono di potere umano e per giunta di pelle animale) di un super-manager, scovata all’interno di uno spazio industriale di uffici, catene di montaggio ma anche aule scolastiche (altra intuizione, questa soluzione di continuità tra impresa manageriale e scuola) ora abbandonati e immersi in un nauseabondo odore di medicine.

A differenza di altri romanzi dell’utopia animale dell’epoca – Il pianeta irritabile dobbiamo dirlo fa parte di un fugace trend che incluse, tra gli altri, il Paradiso degli animali di Cassola, del 1979, o il più sperimentale Re del magazzino di Porta uscito sempre nel 1978 – è la lingua qui forse il vero miracolo. Volponi dimostra in questo libro tutta la qualità di un linguaggio ad un tempo antico e moderno, mai totalmente impenetrabile da un lato e mai «modernizzato» dall’altro, con un italiano che per stare al passo coi tempi li affronta alla radice invece che assecondarli. Una lingua «grossa» e velocissima ad un tempo, si potrebbe dire, in una sorta di postmoderno antimoderno. Imprendibile, come il suo autore, che seppe far scacco matto ogni volta ai canoni imposti, riuscendo a stare a metà tra certe stanche del romanzo neorealista e certe prove a metà del romanzo neoavanguardista da Gruppo 63. Imprendibilità che fu la sua fortuna, certo, ma che oggi lo rende un autore piuttosto ahinoi dimenticato. 

GIORGIO MANGANELLI, Centuria (1979)
di Danilo Soscia

Non sono numerosi gli intervalli della storia letteraria italiana del Novecento in cui la dittatura romantica abbia subito sanguinose imboscate. L’uscita di Centuria nel 1979, tuttavia, è stato uno di quelli. Si tratta di un catalogo infernale, cento gioielli anamorfici che materializzano le monadi di cento possibili romanzi, cento surrogati di isteria impura, in cui sono fatti prigionieri – insetti nell’ambra – attori e scenografie arcaiche, come l’Assassino, il Ladro, la Creazione del Mondo o una città devastata dalla peste.

Quello messo in scena tra le pagine di Centuria è un anti-ordine tendente all’infinito, una sequela di oggetti feticcio disposti in un disegno stellare. Ne cito solo alcuni: il vomito, la prova dell’esistenza di Dio, l’assenza, una catasta di morti alla fermata del treno, una testa mozzata, biancheria nuova, una grammatica tedesca, un corpo celeste non identificato, un uccello dal volto di donna, il peccato originale, il Tibet, uno scheletro d’uomo, un orologio…

Il mondo, entità straniera e incontrovertibile le cui regole procedono secondo un meccanismo autonomo, nelle micro saghe di Centuria coincide con la letteratura, e con quest’ultima condivide la stessa origine artificiosa, bugiarda. Un palindromo, infine, di cocente attrito: il mondo è la letteratura, la letteratura è il mondo. La convinzione fideistica – con i secoli diventata allucinazione lisergica – che il presente sia davvero una produzione del Soggetto, lascia il passo a una gioiosa iconoclastia, come accade in una misura esplicita nel romanzo Novantasette, parabola in cui si narra con ossessione burocratizzata una infernale Creazione del mondo.

La cultura popolare ha da sempre coltivato una gioiosa cognizione del nulla. Pertanto le maschere orribili sgorgate dal suo ventre (Dio, Satana, la Morte, la Vita e molte altre) appaiono in prima battuta incomprensibili, arcane, silenziose casse di risonanza, presenze aliene. Pertanto la religione del feticcio che si agita tra le pagine di Centuria parrebbe riguardare più le radici oscure dell’umanità e dei fantasmi che la accompagnano sin dalla sua comparsa, piuttosto che la psicologia. Nel campionario manganelliano l’anima individuale è un apocrifo: esiste, al limite, un Moloch psichico collettivo. E – fatto ancora più importante – la psiche non si esprime attraverso il logos. La psicologia ricondotta sulla letteratura è una contraddizione in termini, la pantomima di una congiunzione impossibile.

Nella declinazione ennesima degli archetipi si annida il vuoto, e la centuria – il numero cento, il secolo – è la misura apocalittica di un simile baratro. 

ANNA MARIA ORTESE, Il cardillo addolorato (1993)
di  Rossella Milone

Attraversare i libri di Anna Maria Ortese significa attraversare Napoli. Riga dopo riga, vicolo dopo vicolo. Ogni curva è la rivelazione di un segreto, visto che Napoli è una città costruita su se stessa: come una grande matrioska che contiene altre città al suo interno, Napoli non è solamente una, ma tante. Ortese, che non nacque a Napoli ma che visse la città come se fosse una sua intima, carnale parente,  lo sapeva molto bene: scavare sotto la superficie, inoltrarsi nei vari strati che compongono un luogo, significa rivelarne la sua natura ancestrale. Il cardillo addolorato è stato per Anna Maria Ortese, e lo è per i lettori, lo strumento attraverso cui tuffarsi non solo in uno spazio fisico, ma anche nelle cavità del pensiero umano; lei si immerge come un’archeologa del genius loci, per restituire a tutti ciò che appartiene a una città: il mistero dell’esistenza. L’autrice ha sfruttato la composizione de Il cardillo – la costruzione architettonica complessa che si sviluppa in verticale, con capitoli piccoli e agili che si infiltrano, però, gli uni negli altri fino a formare una larga mappatura del  pensare e del sentire – per andare a osservare e scovare tutte le contraddizioni, le storpiature, i camuffamenti e le contaminazioni che quell’origine ancestrale ha accumulato, nel suo stratificarsi.

Perché Il Cardillo addolorato riesce in questa impresa complessa del rimandare ciò che di più incomprensibile alloggia nell’essere umano?

Il libro racconta di tre amici di Liegi – Neville, Dupré e Nodier – che visitano la fiorente Napoli del settecento borbonico, dove incontrano Elmina, una creatura anfibia che sposerà prima Dupré e poi Neville – attraverso un’intricata impalcatura di fatti come intricati sono i vicoli che si aggrovigliano nella città. Intrigo, complessità, sospetto, pettegolezzo, preghiere e confessioni, fantasie e verità, morti e resurrezioni: Anna Maria Ortese gestisce il patrimonio tutto umano di tali fragilità attraverso l’uso propriamente letterario dell’immaginazione e dell’affabulazione. Doti che solo i bravi scrittori sanno mettere al servizio della narrazione, per avvicinarsi, trasfigurandola, alla realtà e a una sua possibile comprensione. Come ha ben scritto  Monica Farnetti (curatrice dei romanzi ortesiani comparsi nella collana La nave argo di Adelphi): «anche il fantastico è per suo statuto proposto come un effettivo realismo».   Il cardillo, quindi, del titolo e del testo, è sì un uccello, che ritorna in varie forme, quella di animale, di pensiero, di visione, di presenza invisibile e sulfurea, diabolica e angelica, una voce che perseguita i protagonisti ma, anche, che li consola:

«Ah, comincio a credere anch’io, uomo di pandette, incredulo circa la bontà della natura umana, alla verità di un Cardillo nascosto in questo mondo; e che la voce, e il pianto, di un Cardillo non tace mai»

È soprattutto l’immagine referenziale del divenire umano; un divenire che è e che può essere soltanto misterioso. L’invenzione fantastica delle sue innumerevoli metamorfosi, si concretizza nel lettore come ciò che di più nascosto gli uomini e le donne proteggono, una specie di dolore, una specie di dannazione e felicità, come dannata e felice è la città in cui il cardillo vive – Napoli , e forse anche il mondo tutto – una specie di indicibilità scura e palpitante, che solo la letteratura, ci dice la Ortese, è in grado di andare a stanare. 

VALERIO EVANGELISTI, Ciclo di Eymerich (1994 – ????)
di Franco Pezzini

A una storia del weird nostrano si può con buone ragioni ascrivere l’opera di Valerio Evangelisti, nato nel 1952, uno dei pochi autori viventi di fantastico italiano tradotti (e di fatto robustamente noti) all’estero. Un autore già saggista su temi storici, che nel corso degli anni muove attraverso registri narrativi diversi (si pensi alla trilogia Il sole dell’avvenire, 2013-2016, sullo sviluppo del socialismo in Emilia-Romagna dal 1875 al 1950) ma in termini di assoluta coerenza ideale e talora con felici, spiazzanti compenetrazioni: emblematico il caso di Antracite (2003), che pur nell’ambito del cosiddetto Ciclo di Pantera su un West febbrilmente fantastico guarda ai grandi murales di altri suoi romanzi propriamente storici di ambientazione americana.

Fermo restando dunque l’ampio spettro della sua produzione, si può però individuarvi un filone più tipicamente Weird (almeno nell’accezione del termine oggi di frequente spesa): con epifania nel grande Ciclo di Eymerich avviato dal primo romanzo dell’autore, Nicolas Eymerich, inquisitore, 1994 – ma già vincitore nel 1993 del Premio Urania – e che sta felicemente proseguendo. Nel reinventarvi il profilo dell’autentico inquisitore domenicano Nicolas Eymerich (1320-1399), l’Autore raccorda le vicende di quel medioevo con altre in epoche molto diverse (la storia di Wilhelm Reich, per dire, o le truci avventure di scienziati nazisti transfughi) e spesso in un futuro remoto e allarmante, persino fuori dall’atmosfera terrestre, nell’ambito di un sofisticato e straniante gioco a incastro – o a rete – che rivela impreviste risonanze degli eventi. E tutto ciò trattenendo come sottotesto o invece evidenziando una serie più vasta di provocazioni.

In chiave di prima approssimazione Eymerich si potrebbe ricondurre al genus degli investigatori dell’occulto. Di norma interviene su casi misteriosi, assurdi e raggelanti emersi da un capo all’altro del mondo – letteralmente: dalle Isole Felici occidentali alla remota Costantinopoli – e che sfidano il senso della realtà minacciando la chiesa di Roma (al momento ad Avignone) o i potentati laici: casi che puntualmente «risolve», offrendone una lettura coerente con la sua ottica ma sempre problematica su un piano più vasto – e il suo intervento innesca a sua volta una serie di conseguenze. Di qui un ruolo demiurgico del protagonista via via più marcato nel Ciclo, nel segno gnostico di suoi ritorni o ipostasi future.

Al mondo di Eymerich, l’Autore restituisce tutto lo spessore di un’epoca, con un’attenzione scrupolosa al rispetto della complessità di scorci d’ambiente, profili di personaggi (il Principe Nero e il Conte Verde, Giovanna d′Arco e Gilles de Rais, Petrarca, Eleonora d’Arborea, Gian Galeazzo Visconti, Caterina da Siena, vari papi e altri inquisitori…), conflitti istituzionali, questioni sociali (per esempio i cagot paria della società medievale tra Francia e Spagna), problemi filosofici e teologici del tutto nuova per una letteratura «popolare»; e la scelta narrativa di un antieroe spietato permette l’emergere di una serie di stringenti riflessioni sull’uso del potere e gli strumenti con cui viene conservato. Erede dei terribili ecclesiastici del primo gotico inglese, e virtualmente anche degli inquisitori dei provocatori fasti filmici dei primi anni Settanta, Eymerich mantiene però una concreta autonomia di profilo. Rifiutando lo stereotipo del sadico morboso e mettendo a nudo un orrore più sottile, l’autore esplicita nello spietato e lucidissimo domenicano la complessità psicologica e i paradossi dell’inesorabilità soltanto allusi dal vecchio gotico – laddove lo strumento-moloch dei deprecati papisti perseguitava gli innocenti per diluvi di pagine, ma alla fine annientava i colpevoli. Eymerich è caratterialmente aspro, del tutto privo di scrupoli in nome di ciò che identifica per bene della Chiesa, ma insieme coraggioso e intelligentissimo: ed è insomma maliziosamente naturale parteggiare per lui nei continui scontri con vilain che incarnano le più cieche maschere di brutalità e meschinità (o con “buoni” ingenui, insopportabili o idioti).

Memore della migliore fantascienza (i suoi futuri distopicissimi vedono un assetto geopolitico complesso arricchito di romanzo in romanzo), di un certo fantastico del paradosso e dello stesso gotico, zeppo di ammiccamenti e citazioni letterarie sempre valorizzate nell’intreccio (Poe, Jean Ray, ovviamente Philip K. Dick…), il Ciclo di Eymerich mantiene comunque caratteri liberi da etichettature troppo asfittiche, con connotazioni trasversali e meticce. Se un tema-chiave è quello di particelle subatomiche dette psitroni che spiegherebbero concretissime proiezioni di immagini mentali nel tempo –attivabili anche attraverso pratiche più arcaiche, quali quelle dei vari (autentici) grimori branditi dai negromanti in scena e dottamente glossati da Evangelisti – i romanzi del Ciclo vedono una continua irruzione dell’onirico e dell’allucinatorio. Vi tornano forme e corpi che si modificano o si fondono, poliploidi e triadi femminili; creature titaniche a mezzo tra Goya e Savinio, fluite nella realtà fenomenica dalle febbri dell’immaginario; mondi ctoni di caverne e acque sotterranee che nascondono arcani segreti. Tra morti viventi e cinocefali, golem e Lestrigoni, adoratori di Diana alla Frazer e ogni diverso tipo di devoti «altri», ciò che emerge in primo piano – potremmo insomma osservare sintetizzando – è la potenza dell’immaginario come forza autenticamente attiva nella storia, nella società e nella politica, di cui è necessario tenere conto. 

ANTONIO MORESCO, Gli esordi (1998)
di Lorenzo Alunni

«Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio».

È così che inizia Gli esordi, romanzo di Antonio Moresco. Ed è così che inizia la trilogia dell’Increato, composta da tre volumi, a loro volta di tre parti l’uno.

Benché opere autonome, il secondo e il terzo volume della trilogia dell’Increato – Canti del caos (pubblicato in tre parti: 2001, 2003 e 2009) e Gli increati (2015) – assumono la loro forza e, per certi versi, la piena intelligibilità in alcune delle loro dimensioni e livelli di lettura solo in relazione a questo primo volume, Gli esordi, e dal percorso vertiginoso che da lì prende avvio.

Pubblicato prima da Feltrinelli nel 1998 e poi da Mondadori nel 2011, Gli esordi si divide in tre parti: Scena del silenzioScena della storia e Scena della festa.

La Scena del silenzio si svolge nei primi anni Sessanta. Un ragazzo entra in seminario, e lo fa con un voto di silenzio. Si guarda attorno, assorto. Da una visita nella villa di suoi parenti prende poi avvio una serie di episodi vorticosi in cui emerge la cifra del romanzo e di tutta la trilogia: qualsiasi elemento della quotidianità può far da scintilla scatenante per vicende concepite e raccontate attraverso una forma di visionarietà del tutto peculiare. In quella stessa villa fanno la loro comparsa personaggi, come la Pesca e il Gatto, che saranno centrali per tutta la trilogia.  Riaccompagnato in seminario, il voto di silenzio del protagonista viene rotto dalla risposta che il protagonista dà al priore quando gli chiede se si sente pronto per il sacerdozio.

Nella seconda parte, Scena della storia, il protagonista si è trasformato in militante di un’organizzazione politica radicale, fra comizi in piazze deserte, affissioni notturne, riunioni clandestine e avventure picaresche in una vecchia utilitaria gialla. Arrivato nell’area operativa che gli viene assegnata, il narratore trova la sede dell’organizzazione abbandonata. Parte allora in moto alla ricerca dei militanti i cui indirizzi ha trovato nell’immondizia: risultano tutti indirizzi di palazzi in rovina. Ma il leader di quel gruppo estremista gli chiede lo stesso se non si senta pronto a diventare un «guerriero».

Nella terza parte de Gli esordi, Scena della festa, il protagonista ha deciso di diventare scrittore. Nella sua casa milanese, riceve la visita del messo di un editore rimasto sbalordito dal manoscritto che gli ha inviato. Ma quell’editore si rivelerà qualcuno già incontrato nelle precedenti parti del romanzo. Fra le altre follie, proporrà al protagonista di distruggere il suo manoscritto per renderlo immortale, e in alcune passeggiate e feste succederà anche d’incontrare alcuni grandi della letteratura del passato. E anche questa terza e ultima parte de Gli esordi,  finisce con una domanda rivolta al narratore: pronto o meno? Per sapere se la risposta data verrà mantenuta, ci sarà da immergersi nello stordimento letterario del volume successivo de Gli increati e nella sua struttura autogenerante: Canti del caos.

La storia de Gli esordi si colloca in una «infrarealtà» che non corrisponde né a un piano onirico né a niente che risponda a caratteristiche a loro modo classiche della fantascienza o del distopico. È piuttosto una quotidianità che, attraverso l’incessante riprodursi di nuovi e sempre più ambiziosi filoni narrativi, si dilata organicamente nei livelli spazio-temporali “esplosi” dei volumi successivi della trilogia, fino alla dissoluzione – anche linguistica – del finale de Gli increati e allo stato di percezione estremamente dilatata che Moresco chiede e regala al lettore.

Nel percorso che inizia con Gli esordi, a un certo punto della lettura l’impressione è che da quella narrazione, e dalle sue dimensioni percettive, indietro non si può più tornare. E questo fino a mettere in discussione – per un istante o più – quella stessa realtà che viene accostata, per tentare di capirla sbrigativamente e normalizzarla, alla realtà inventata da Antonio Moresco in questa opera: o forse, più che inventata, scoperta. 

MICHELE MARI, Verderame (2007)
di Vanni Santoni

Per inquadrare questa riflessione, è importante sottolineare come la mia scoperta di Mari sia tardiva: dopo di essa c’è stata una scorpacciata, ed è con la pancia piena, e forse il torpore di chi ha mangiato troppo, che vengo a fare le considerazioni che seguono; inoltre, e soprattutto, tale ritardo è stato cagionato proprio dal non aver incontrato subito quella parte, peraltro maggioritaria, della sua produzione, che proprio al «weird» può essere ricondotta. La scoperta fu tardiva a causa di almeno un paio di rimbalzi: avevo il suo Filologia dell’anfibio, «Contromano» (invero riedizione di un libro già uscito per Bompiani nel ’95) ma nonostante la lingua forbita, in contrapposizione col tema e le figure ivi dipinte, mi faceva pensare a mio padre, poco più vecchio del Mari, quando partiva con le storie del militare – e, sì, anche lì per qualche motivo che oggi sfugge era sempre l’anfibio a far da fulcro simbolico. Presi poi Rosso Floyd, ma fu uno di quei libri acquistati e aperti solo anni dopo, forse perché in quel momento i Pink Floyd mi bastava ascoltarli, e neanche più troppo. Gli ha fatto seguito Roderick Duddle, ma anche quello l’ho letto solo di recente, dato che si riferiva per lo più a scrittori per cui non avevo lo stesso culto di Mari: in effetti, mi allontanò di nuovo da lui.

Questi movimenti però, facendomi schivare i tre libri che, forse, hanno meno legami con l’elemento «weird» presente nel lavoro dell’autore, mi permettono di avere più chiaro, oggi, quest’ultimo. La vera scoperta di Mari avvenne a una cena: qualcuno parlava delle proprie imprese erotiche, momento che non manca mai di imbarazzarmi, così mi alzai e mi misi a spulciare i libri che c’erano nella libreria di quella casa. Mi ammiccò Tutto il ferro della Torre Eiffel. Forse, dopo quei tre rimbalzi, fossi stato in una libreria, non lo avrei neanche preso in mano. Lì però urgeva tuffarsi da qualche parte e mi tuffai in quella Parigi, agevolato dal livello strabiliante che ha la prosa mariana nelle prime pagine.

Il giorno successivo il romanzo fu acquistato e letto, ma mai, neanche di fronte ai tre puntini di Céline dentro a uno scatolino, appoggiati su un letto di bambagia come sfere da meditazione o palline da geisha (così mi apparvero, sebbene «non più grandi di pallini da caccia») ho avuto l’impressione di trovarmi davanti a qualcosa che avesse a che fare col «weird»: si trattava, piuttosto, di un gioco intertestuale molto raffinato, in cui, essendo appunto il testo il «generatore di realtà», risultava ammissibile qualunque oscillazione tra il realismo e il fantastico. Avviene la stessa cosa in Leggenda privata (forse il picco della produzione di Mari, dove elementi già espressi in Tu sanguinosa infanzia trovano compimento superiore), anzi lì i mostri sono solo cornice – il mostro, in quel libro, è un altro, e assolutamente reale. Più strettamente ascrivibile al «weird» è forse il galeone della Stiva e l’abisso, nonostante il carico allegorico e il fatto che le azioni sono sempre raccontate, mediate quindi da un secondo grado di incertezza: è la parola, di nuovo, a prendersi la scena, oltre che governarla, e sono lingua e struttura a comandare, più dei fatti strani che pure il libro riporta.

Si arriva così a Verderame. Qui il truculento e il macabro ci sono; c’è una vena gotica che pare arrivare dritta da Poe (volendo, c’è anche il realismo magico in agguato: gli oggetti e i segni che in Verderame vengono apposti ovunque nel tentativo di arginare l’Alzheimer di Felice, sono imparentati con le etichette utilizzate durante l’epidemia di amnesia di Macondo) è c’è anche un elemento classico del perturbante, il doppio – «Quell’estate avevo tredici anni e mezzo. Adesso che ne ho cinquanta posso dire che da allora non è cambiato niente, perché la doppiezza è sempre stata la mia condizione: mai però sono riuscito ad accertare se la mia scissione sia solo psichica o anche ontologica. Secondo Felice convivevano in me un morto ed un vivo: devo ritenermi un vile se non sono mai voluto andare a fondo alla questione?» – e il carico di mediazione è minore, dato che il fulcro, qui, è un’immaginazione solo indirettamente influenzata dai testi: ce lo prendiamo nel «canone», allora, ma se proprio gli si vuole affibbiare un’etichetta, nella piena consapevolezza del fatto che valgono quel che valgono (et coetera), per Verderame è forse opportuno coniare apposta quella di «intertextual-weird» – o meglio, visto l’autore, quella di «strano intertestuale».