Quale futuro per il caccapostaggio
Negli ultimi due anni la diffusione del concetto di meme presso il grande pubblico ha fatto passi da gigante; conosciuto fino a non troppo tempo fa soltanto dagli adepti e dai creatori, oggi riverbera nelle sue forme più elementari dalle pagine ufficiali di esponenti politici di spicco, come quella del Ministro degli Interni Matteo Salvini e la più audace Giorgia Meloni (o Meloni-chan). Come in Italia ha ricordato Alessandro Lolli nel suo La guerra dei meme, il termine meme nasce dal greco mimema, «imitare». Il concetto è stato introdotto nel discorso culturale nel 1976 dal biologo evoluzionista Richard Dawkins, nel suo The Selfish Gene, per spiegare i sistemi di trasmissione dell’informazione attraverso un parallelo col metodo di diffusione dei geni. I meme sarebbero quindi pezzi di informazione replicabili che vengono trasmessi da una persona all’altra tramite imitazione, e nel passaggio possono arricchirsi di ulteriori significati, evolversi o finire nel macero della selezione naturale. Possono essere comportamenti, ideologie, competenze, o una semplice frase che si diffonde all’interno di una determinata cultura o sottocultura; allontanandoci dall’accezione più comunemente accettata nella cultura mainstream contemporanea (il classico immagine+didascalia), possiamo quindi definire meme citare uno spezzone di Aldo, Giovanni e Giacomo durante una scalata («Non posso né scendere né salire!»), o fare partire Never gonna give you up di Rick Astley alla richiesta di tutt’altra colonna sonora. È meme commentare le uscite qualunquiste con un «Signora mia!», sono meme i video dei Minion che danzano accompagnati da didascalie luccicanti. Tutto è memabile. Tutto.
Il meme è diventato un argomento di cui si può disquisire a tavola con la propria madre, salvo doverlo spiegare a una zia più anziana e meno internet-centrica. Ha un arco di vita assai variabile: può risorgere quando ormai è fritto, oppure quando a qualcuno viene voglia di ribaltarne il significato. Comunicazioni semplicissime dall’interno di uno stretto gruppo di iniziati sempre sul pezzo, criptiche e autoreferenziali al momento della creazione, possono raggiungere un pubblico enorme e stratificato se condivise al momento giusto sul social giusto; per un certo periodo, su reddit si sono messi a pubblicare meme privi di didascalie, interpretabili soltanto da utenti esperti, il cui contenuto semiotico va ricercato nella stessa assenza della didascalia, nella celebrazione della comunità ristretta in grado di riconoscerlo. Esistono miriadi di subreddit incentrati su argomenti improbabili (bere l’acqua della vasca, i trabucchi come arma d’assedio suprema in sfregio alla catapulta, utenti che fingono di essere robot che fingono di essere utenti) comunità virtuali in cui la produzione di meme è già in partenza fortemente autoreferenziale, e i contenuti non possono essere esportati, perché non sopravviverebbero in un ambiente che ne ignora la chiave di lettura specializzata. E mentre il meme esiste e resiste, gli si affianca una forma di comunicazione ancora più elementare: lo shitposting testuale o textposting.
Parola digitale dell’anno nel 2017 – come a dire vent’anni fa nell’età di internet – secondo l’American Dialect Society, lo shitposting vanta diversi significati anche all’interno della stessa comunità online, che si sovrappongono l’un l’altro in un cumulo confuso di interpretazioni. Può consistere nel modo in cui si sceglie più o meno consapevolmente di inquinare una comunicazione con abbondanza di contenuti irrilevanti e fastidiosi, e qui interseca il termine «floddare»; viene tuttora associato a un uso del meme illetterato ed eccessivo, ma se ne sta emancipando, guadagnando sempre maggiore diffusione come ricettacolo semantico a se stante. Nel caso specifico, stiamo parlando di testi di breve o brevissima lunghezza che ignorano le norme logico-sintattiche, la cui intenzione non è veicolare un messaggio specifico, quanto sfregiare il buonsenso linguistico, fare sfoggio di un uso spietato del linguaggio fino a farne un contenitore malmesso e sputazzato che non contiene un vero e proprio significato ma coincide col significato. Lo shitposting – in italiano sveltamente tradotto con caccapostaggio – è la dimostrazione pratica dell’inefficacia delle parole come forma di comunicazione. Il suo senso sta esattamente nel non senso, nel suo approccio arbitrario e nichilista al linguaggio. Lo shitpost è una comunicazione che non è andata a buon fine in quanto il messaggio è volutamente incoerente.
Facciamo un bel po’ di passi indietro e andiamo a leggere l’articolo di Sam Greeszes Shitposting is an art, if history is any indication, che appena qualche mese fa avanzava un’analogia tra lo shitposting e le avanguardie artistiche del secolo scorso. Il dadaismo, scrive Greeszes, si è nutrito di un contesto storico ben preciso in cui la forte ingiustizia sociale si incrociava con lo sfregio dei diritti umani, nel pieno della Grande Guerra. Il dadaismo nasce ufficialmente a Zurigo nel 1916, quando il poeta e regista teatrale Hugo Ball prende la parola durante una serata al Cabaret Voltaire e declama il primo Manifesto del Dadaismo, che due anni più tardi verrà rivisto e ripubblicato da Tristan Tzara nella sua forma più famosa, in cui si asseriva che «La spontaneità è dadaista. L’arte è una cosa privata. L’artista lo fa per se stesso. L’artista, il poeta, apprezza il veleno della massa che si condensa nel caporeparto di questa industria. È felice quando si sente ingiuriato: una prova della sua incoerenza».
Dada fu un movimento artistico basato sulla contrapposizione a qualunque norma sociale, politica e soprattutto compositiva. Tutto può essere arte, basta che ci siano spontaneità e un intento di fare arte. La decisione di quello che possa o non possa definirsi arte è intima, privata, dell’artista o di chi assiste all’opera, la critica viene completamente spogliata del suo ruolo di identificazione e santificazione della materia artistica. Negli stessi anni della pubblicazione del Manifesto del Dadaismo, Marcel Duchamp eleva ora un orinatoio capovolto, ora una ruota di bicicletta a opere d’arte, ancora oggi tra le sue produzioni artistiche più emblematiche – e tuttora controverse per il grande pubblico che, tornando a citare il più famoso trio comico italiano, reagisce di fronte alla Fontana come Giovanni che tiene in mano il Garpez e protesta «Il mio falegname con 30.000 la fa meglio».
Secondo Greeszes, l’analogia tra shitposting e avanguardie artistiche del Novecento sta nella spregiudicatezza della messa in atto, nell’accezione secondo la quale tutto ciò che si può fare è fattibile senza costrizioni modali, nel rifiuto di un qualsiasi studio prescrittivo o di intromissione dall’esterno. Nel dadaismo l’unico interlocutore legittimo è l’arte. Collegare lo spirito di spontanea prorompenza dell’atto artistico del dadaismo allo shitposting viene per certi versi automatico: eppure c’è qualcosa che non torna in questa facile analogia; nella pratica dello shitposting non esiste un’entità suprema – l’Arte – a cui rendere conto e che faccia da tramite tra opera e artista o tra opera e pubblico, né un nemico a cui opporre uno strenuo rifiuto – l’Accademia. Anzi: l’Accademia non viene proprio presa in considerazione come interlocutore, non per mancanza di rispetto, ma perché lo shitposter sembra restio a riconoscere una dignità «artistica» alla propria produzione.
Paradossalmente, la discussione sul significato del fare shitposting – e meme in generale – latita nei luoghi in cui lo shitposting è prodotto e fruito, per accendersi proprio negli ambienti accademici. Il moderatore della pagina di shitposting Memes Sublimes? non si capacitava, pochi mesi fa, del fatto che l’avessero chiamato a tenere una lezione proprio sullo shitposting all’Università Statale di Milano; all’inizio sembrava non volere neanche andare: hanno dovuto convincerlo i follower della pagina. La ritrosia non aveva l’aria di una forma di protesta, ma di incongruenza contestuale: che ci va a fare uno shitposter nel tempio del sapere?
«Il pane: una lotta continua tra l’uomo e la farina
una lotta notturna in cui l’uomo non può usare ne calci ne gomitate ma può tentare di accecare l’impasto con dei pugni a mano aperta»
Così scrive il mod della suddetta pagina il 27 maggio. È intuitivo che il messaggio esplicito non sia che un pretesto per usare la lingua nella voluta composizione di un malinteso semantico, una significazione deragliata. C’è da dubitare fortemente che il moderatore della pagina volesse lamentarsi della sua battaglia contro il pane come nemico archetipico, e direi che possiamo stabilire con certezza che sappia che l’impasto non si può accecare, e che i pugni «a mano aperta» si chiamano schiaffi. L’argomento di discussione non ha importanza, dalle pagine di shitposting non ci si aspetta testi coerenti e coesi di cui si possa fare una precisa analisi. Cosa vuole dire il moderatore che ha compitato il testo? Che il testo non conta; conta l’intrinseco non senso.
Gli shitposter abituano il proprio pubblico ad aspettarsi un certo tono, un certo modo, ma è impossibile fare pronostici sugli argomenti trattati, perché non sono gli argomenti il punto focale della comunicazione. Si può creare, al più, un personaggio da cui aspettarsi un certo tipo di discorso, un’istanza attanziale che rimanga costante e coerente nel tempo. È il caso limite dello Sgargabonzi, pagina-maschera creata da Alessandro Gori. Minimum fax ha pubblicato nel 2018 l’antologia Jocelyn uccide ancora, i cui racconti più o meno improbabili – coesione e coerenza non sono evidentemente i primi criteri considerati in fase creativa – si alternano in una raffinata forma di shitposting su carta. Vengono presi di mira e ingiuriati personaggi più o meno noti del mondo dello spettacolo, dell’editoria, pure nomi sacri pescati dalla storia, – in un riuscitissimo racconto da Jocelyn uccide ancora, Anna Frank racconta con toni leggiadri di come ha consegnato il padre alle SS.
Va da sé che dagli attacchi sulla pagina dello Sgargabonzi non si scatenano polemiche intestine con le personalità accusate di atti assurdi e aberranti, né le suddette accuse vengono seguite da recriminazioni di innocenza, – l’improbabilità delle aberrazioni di cui è tacciato Christian Raimo, per fare un nome, lo mette già al sicuro da ogni plausibile sospetto. Lo shitposter non ha un nemico nell’oggetto esplicito delle sue arrovellate ingiurie, così come non lo ritrova nell’accademia. Se proprio volessimo designare una nemesi, comune a tutto il sottobosco dei memers, sarebbe ancora una volta il normie, termine con cui si indica il simulacro della persona qualunque che non sa fare meme né riesce a fruirne nel giusto spirito; ma si tratta di una nemesi astratta, un’istanza interiorizzata.
Assieme alle pagine più note della galassia shit/textposting, quali – oltre alla già citata Memes Sublimes? – le varie Merdapostaggio, Cinefirns, Pagliare hhhhpostijng, negli ultimi anni sono spuntate su Facebook diverse pagine di shitposting locale; simili a subreddit i cui affiliati sono accomunati non da un interesse altamente specializzato – e di scarsa o scarsissima utilità – ma dalla residenza in un determinato comune, ne riprendono le mitologie e gli stereotipi, giocando con estetiche vaporwave, anime o 8bit, e declinano al dialetto meme stranoti. È il caso di Bresha Gang 030, Turin Low Quality Memes, Padov/a/ Shitposting, Bologna Disagio. Diversamente dalle pagine di shitposting personali, tengono un piede ancorato alla realtà della città di riferimento, rifacendosi nell’avvicendarsi dei post a una sottocultura locale data per scontata, fatta di personaggi iconici e modi di dire.
In questa peculiare tendenza, possiamo osservare la natura osservatrice dello shitposting; privo di uno statuto come di un manifesto attuativo, non si contrappone a nulla – se non a una modalità di comunicazione chiara e propositiva – e pare essere mosso da uno spirito di contemplazione, più che di protesta. Lo shitposter prende atto del non senso che ci circonda e lo riproduce nella sua letteratura, farsesca fin dall’assenza di un filo narrativo propriamente detto, e di quel non senso non discute. Si limita a osservarlo, magari a compiacersene – e a ripostarlo.