La nostra New Sincerity è lo Shitposting

Quando il diritto a essere stupidi diventa una forma di resistenza alla mutazione politico-antropologica in corso. O almeno ci prova.

Nel 1993 David Foster Wallace scrive l’ormai stracitato saggio E Unibus Pluram: Television and U.S. Fiction, una lunga riflessione sulla televisione, l’ironia e gli scrittori che, per una serie di motivi che ora cercheremo di spiegare, è ancora attuale, urgente e per molti versi profetica. Sebbene all’interno del saggio non compaia mai la locuzione «New Sincerity», questo concetto è comunemente legato alla sua figura, non solo per le tesi lì espresse ma perché tutta la sua opera narrativa altro non è che il tentativo di mettere in pratica questo programma. Quale programma? Uscire dalla condizione postmoderna intesa in primo luogo come ironica, disillusa, cinica e arida.

La prima cosa che ci dovrebbe stupire è il tempo trascorso. Convenzionalmente, la condizione postmoderna viene dapprima fotografata dall’omonimo libro di Lyotard del 1979, e David Foster Wallace scrive nel 1993 con l’intenzione di ritrarre una situazione a lui contemporanea. Possibile che nel 2018 stiamo ancora punto e a capo?

È possibile, e anche evidente, a tutti gli osservatori che hanno seguito l’evoluzione dei linguaggi online negli ultimi anni. I meme, e tutte le forme espressive ad essi legati, hanno riposto al centro del dibattito culturale il problema dell’ironia. Soprattutto quando, da gergo comune a una piccola sottocultura giovanile della fine degli anni zero, si sono espansi in tutta la sfera discorsiva entrando di peso nella politica e nel marketing. Oggi, come notava Wallace nel 1993 esaminando lo spot di un brand automobilistico che sfotteva gli spot automobilistici, i brand si ridicolizzano da soli, in una serie di occhiolini ironici costellati da meme e da taglienti battute sull’attualità.

La mia idea è che non bisogna capire se e quando sia finita l’età postmoderna, ma riconoscere che la questione che questa cornice concettuale ha sollevato, nei suoi tratti generali, accompagna in realtà ogni generazione che, come Sisifo, deve ricominciare da capo e risolvere da sola gli stessi problemi, trovando risposte interne alla cultura che si trova ad abitare. D’altronde, le prime testimonianze del disagio provocato dal discorso ironico, cinico e disilluso ci vengono da un’antica polis greca. Socrate doveva combattere dei maestri a pagamento in grado di sostenere tutto e il contrario di tutto, Wallace aveva di fronte la televisione commerciale che risucchiava l’anima dei suoi colleghi scrittori, noi abbiamo i meme, che portano al governo Donald Trump e ci vendono le onoranze funebri in mezzo alle risate.

Come la New Sincerity letteraria era una risposta dialettica alla dittatura del postmoderno, e sarebbe stata incomprensibile senza la conoscenza di tale premessa, così lo shitposting è la reazione a un certo modo di stare sui social.

La risposta che questa generazione ha trovato al dilagare dell’ironia e del cinismo negli ambienti virtuali si chiama shitposting. Una tesi che suona bizzarra, innanzitutto perché la definizione che probabilmente avrete letto dello shitposting ha poco a che vedere con la natura profonda del fenomeno.

Nel 2017 «Shitposting» è stata eletta parola dell’anno dalla American Dialect Society ma quando i media mainstream cercano di spiegare le nuove tendenze digitali finiscono per appiattire le differenze e ricondurre ogni prassi al già noto. Succede quando parlano dei meme come dei generici contenuti virali o quando si riduce la complessità psicologica del trolling, che è un’attitudine al discorso da veri trickster, alla mera aggressività verbale che troviamo in lungo e in largo su internet. E infatti a sentire la American Dialect Society, lo shitposting sembra l’ennesima versione del caos infantile e aggressivo che abita la rete: «shitpost: Posting of worthless or irrelevant online content intended to derail a conversation or to provoke others.» ovvero «Postare contenuti irrilevanti con l’intenzione di deragliare una conversazione o provocare gli altri».

Ma l’intenzione provocatoria è del tutto non necessaria all’essenza dello shitposting che si qualifica soprattutto come stile e attitudine. Si è nello shitposting nel momento in cui si violano tutta una serie di regole implicite alla comunicazione social, che non hanno a che vedere tanto con l’aggressività quanto con la modalità del discorso. Proprio come la New Sincerity letteraria era una risposta dialettica alla dittatura del postmoderno, e sarebbe stata incomprensibile senza la conoscenza di tale premessa, così lo shitposting è la reazione a un certo modo di stare sui social. Infatti, lo shitposting non sono soltanto meme e immagini, anzi, i contenuti visivi rischiano di sviarci. Nella comunità di memers, lo shitposting fa spesso tutt’uno con una prassi più precisa, che dello shitposting è una categoria, tecnicamente chiamata textposting.

Textposting vuol dire scrivere sui social in un modo che destabilizza e incrina le aspettative interne del social medesimo. Il textposting è nemico tanto dell’intervento serio sull’attualità o della satira politica, quanto della battutina costruita a puntino intorno a un aneddoto di vita vissuta. Il textposting somiglia al flusso di coscienza, al diario privato, all’osservazione casuale, alla confessione inopportuna, alla parabola surreale, alla chiacchierata tra amici. Il textposting è la casa di tutti i discorsi preliminarmente esclusi dal social network dei quali è un riflesso, un’emergenza incontenibile, forse un superamento. In questo senso, lo shitposting, sia esso testuale o visuale, appare in primo luogo come una certo grado di intensità.

Quando qualche anno fa entrai nella scena competitiva di Super Smash Bros, conobbi un buon numero di adolescenti, parte di una generazione di dieci anni più piccola con la quale non avevo avuto contatto, né dal vivo, né su internet. Fu stupefacente osservare le loro abitudini social, a me che conoscevo solo quelle dei miei coetanei, ormai tutti manager della propria immagine, che curavano i loro profili come fossero dei brand. Sul facebook di questi ragazzi, ragazzi nerd, ragazzi che presumibilmente passavano ingenti quantità del loro immenso tempo libero davanti pc e smartphone, si davano solo due possibilità: profili deserti, abbandonati da un utente che era invece attivissimo in una galassia di gruppi privati, vissuti come i forum della vecchia generazione; oppure profili di shitposting, che partorivano decine di contenuti al giorno, verbali o visuali, e che raccoglievano poche manciate di like ciascuno.

Talvolta la stessa persona alternava le due modalità a seconda dei periodi, e capii che tutti gli aspetti, i pochi like, la diserzione del profilo, il postare compulsivo e senza cura, erano collegati. Ero davanti a una generazione cresciuta dentro i social che, schiacciata dal peso psicologico di dover performare ogni giorno la propria personalità in formazione davanti a una collettività di pari, aveva scelto una strategia di resistenza, una guerriglia. «È solo shitposting, non mi giudicare, non mi valutare» dice il singolo contenuto; «Sto scrivendo a cazzo, quando e come mi pare, ecco perché ho pochi like» dice il flusso continuo di interventi.

La cascata ininterrotta di post distrugge l’ansia da prestazione, dissemina e disintegra il palco su cui tutta la mia generazione sale titubante alle 10.00, alle 14.00 o alle 18.00, quando l’algoritmo ti premia, cercando di prendere quanti più consensi possibili, regolando la serotonina della giornata a seconda dei risultati. Una volta smontato quel palco, si apre la strada a tutta quella serie di contenuti che elencavamo e che stonerebbero come «post della giornata». Se nel textposting cambia proprio la natura del contenuto, anche nella condivisione di video o immagini c’è un’attitudine differente. Per fare un esempio, il like-slave della mia generazione, quando trova un meme che gli piace, salva l’immagine, la ricarica, scrive una caption che lo colleghi all’attualità o alla sua vita già preliminarmente raccontata da uno storytelling maniacale e la posta nell’orario migliore. Lo shitposter condivide direttamente dalla pagina, senza dire un cazzo, e posta pure alle tre di notte se si sta rotolando nel letto insonne.

In seguito ho notato attività shitposter anche in gente della mia età, spesso molto consapevoli del valore stranamente terapeutico di questa prassi. Una delle persone più belle che conosco, una madre di trent’anni che vive a Berlino, lavora per una testata fichissima che non si può dire e anima un collettivo di meme e internet artists unico in europa, parla apertamente della sua dipendenza da social e shitposta di continuo, inonda i suoi canali di contenuti, che ricevono poche interazioni ciascuno ma tante nel loro complesso, distribuendo il peso del riconoscimento su miriadi di punti diversi, come i muri portanti di un edificio.

Lo shitposting, anche quando produce contenuti ironici, ha dimesso l’io, è anzi il rumore di una ferocissima battaglia per annullarlo, per conquistare il diritto di parlare senza calcoli, senza astuzie, senza artifici.

Dalla prospettiva del fruitore, lo shitposting è in accordo con la prima ideologia della rete, quella che vi vedeva un villaggio globale di voci che si diffondevano orizzontalmente con uno spirito collettivista basato sulla condivisione. I moderni social network lo hanno trasformato in una massa di piccole celebrità, ciascuna con la propria reputazione da incrementare. Il noto motto di Andy Warhol era vero e falso allo stesso tempo, profetico nel suo intuire che la fama sarebbe stata il centro pulsionale dell’uomo occidentale, ma ovviamente incapace di prevederne le modalità: non 15 minuti ciascuno sopra un medium tradizionale, top-down, come la radio o la televisione, ma una vita intera sul proprio piccolo canale, a gestire le proprie conoscenze come fossero un pubblico da impressionare.

Se ci siamo allontanati dall’ironia per analizzare il disastro psichico-relazionale in cui è caduto il mondo moderno, è perché l’ironia stessa, una volta individualizzata in una vita concreta, è solo uno dei tanti modi di mettere in scena una personalità, di non apparire stupidi, di ricevere il plauso del prossimo. O almeno questo era ciò di cui parlava Wallace quando si augurava l’avvento di una generazione di scrittori sinceri: scrittori che non hanno paura del ridicolo. Lo shitposting, anche quando produce contenuti ironici, ha dimesso l’io, è anzi il rumore di una ferocissima battaglia per annullarlo, per conquistare il diritto di parlare senza calcoli, senza astuzie, senza artifici, il diritto di essere anche stupidi.

Siamo testimoni e vittime di una mutazione antropologica che fa impallidire quella causata  dalla televisione e maledetta da Pasolini. Intensificarne gli effetti, accelerarne i sintomi fino a che diventino parte della nostra fisiologia è la strada scelta da alcuni per combatterla. Dal canto mio non ci sono ancora riuscito, ma adesso so’ pure mezzo ubbbriaco e me sò rotto quindi ciao.