Pensare gli anni Venti
2019 was the year in which mass culture finally realised that millennials – my generation – are no longer children; that some of us will soon be forty. We’re over, we’re cancelled, it’s already done. The average millennial is balding now; he has a daughter that he can’t stop posting about on social media (yes! dip your child into the endless stream of digital images! submerge her! nothing could possibly go wrong!), he gets nostalgic about Disney or Pokémon; he’s a defeated sadsack loser, and history has already passed him. They are genderless cyborgs, downloading new identities from an internet that now bleeds directly into their flesh.
Sam Kriss, «Teenage Bloodbath: the 2010s in review»
Ora che il fiume è sfociato nell’oceano
Si sa che nel pensiero critico non c’è spazio per una deriva apocalittica, da fine della storia. Il pensiero critico nasce come pensiero della storia, e nella storia trova la sua sfera di pertinenza. L’evoluzione non è oggetto del pensiero critico, né il pensiero critico conosce l’evoluzione.
Per questa ragione il pensiero critico è morto, e non interessa più a nessuno, salvo un piccolo numero di accademici che si ripetono attoniti vecchie analisi che non colgono quasi più niente della realtà che ha abbandonato il fiume della dialettica sfociando nel mare impassibile dell’evoluzione.
Gli altri, che non sono critici né accademici, si affollano davanti agli altari di qualche chiesa, o ingollano antidepressivi, o più efficacemente si gettano dal decimo piano.
La potenza smisurata dell’evoluzione non sa che farsene della critica, non sa che farsene dell’etica, non sa che farsene dell’umanità.
D’altronde, ancor prima che il pensiero critico, è la critica stessa, come facoltà cognitiva, che è andata a farsi fottere. La critica, facoltà del discernere tra vero e falso, tra buono e malvagio, richiede il tempo necessario per l’elaborazione degli enunciati, per la valutazione degli eventi.
La critica era strettamente legata alla modalità alfabetica della comunicazione, alla modalità sequenziale dell’esposizione. E come previde McLuhan nel 1964, quando alla tecnologia comunicativa sequenziale della scrittura succede la tecnologia simultanea dell’elettronica, al pensiero critico succede il pensiero mitologico.
Eccoci nell’universo del pensiero mitologico, occupato da gigantesche macchine di distruzione, impassibili, indifferenti al dolore e al piacere, indifferenti allo sdegno morale e alla rabbia politica. L’evoluzione procede senza tormentarsi con la coscienza, come un animale preistorico che torna con i suoi zamponi grandi come montagne, incendi giganteschi come un continente, folle attonite con la mascherina verde, e l’Antartico che si scongela rapidamente allagando le coste sulle quali vivono seicento milioni di abitanti. La critica (arte della misura) non è attrezzata per queste smisuratezze.
A cosa serve pensare
Diversamente da quel che Heidegger dice in Was Heisst Denken?, direi che pensare non ha molto a che fare con l’essere. Nella sfera del divenire storico, pensare significava rendere dicibile e quindi abitabile il mondo. Uscito dalla sfera della storia e della critica, il divenire del mondo si è fatto indipendente dal nostro pensare; ciononostante ci tocca ora pensare gli anni Venti del XXI secolo, il decennio in cui siamo entrati, perché se pure il pensiero non governa più il flusso, può suggerirci una maniera per nuotare.
Sam Kriss sostiene che il decennio passato ha cancellato il tempo e forse ha ragione, metaforicamente. Ma io non intendo qui essere metaforico, e la mia tesi è che il prossimo decennio è destinato a cancellare la stessa coscienza dell’essere del mondo, dunque il mondo tout court. A meno che accada l’imprevedibile (Keynes avverte che l’inevitabile non si verifica, perché quello che accade è l’imprevedibile). L’imprevedibile sarebbe un presidente socialista negli Stati Uniti d’America: Sanders potrebbe cambiare la storia del mondo perché con lui la generazione millennial che fin qui è stata vittima silente e passiva entrerebbe nella storia come protagonista salvifica. Ma perché questo accada non si dovrebbe sconfiggere solo il nazismo suprematista di Trump, ma soprattutto il nazismo finanziario di Bloomberg. E temo che Bloomberg, come già Hillary, eliminando Sanders, consegnerà la vittoria a Trump.
Ma presto si vedrà.
Il nuovo decennio è stato annunciato da una convulsione del corpo planetario: la rivolta vulcanica ma incoerente che nell’autunno del 2019 ha mobilitato milioni di persone da Santiago a Hong Kong a Parigi a Beirut scontrandosi con varie forme di potere tutte ugualmente granitiche.
Alla convulsione è subito succeduto il barocco trionfo della morte: l’eliminazione dell’assassino Soleimani da parte dell’assassino Trump, e l’incontro dell’assassino Trump con l’assassino Netanyahu per avviare a soluzione finale il popolo palestinese.
Il decennio è stato annunciato dall’incendio interminabile delle foreste australiane, dall’affollarsi di migliaia di persone in fuga sulla spiaggia che scende giù all’oceano: l’ultima spiaggia. Su una spiaggia davanti all’oceano con le fiamme alle spalle: qui noi siamo. Tutti.
Il suicidio è la sola via d’uscita
Cosa fa Ricky dopo l’ultima scena?
Sorry we missed you è certamente il più disperato, il più angoscioso dei film di Ken Loach. È la storia della discesa nell’inferno interminabile della precarietà di una famiglia di proletari inglesi. È un film sullo schiavismo che ha preso il posto del lavoro salariato: sfruttamento assoluto, tortura quotidiana, deserto angoscioso della metropoli, competizione aggressiva che devasta fin l’ultimo segmento di relazione umana, miseria interminabile.
La madre è badante a ore; Ricky, il padre, fa il trasportatore per un’azienda di consegne a domicilio; i due figli sono travolti dalla devastazione psichica precaria, la comunicazione mediata dal cellulare che squilla continuamente per ricevere ordini e per implorare aiuto, e nessun futuro immaginabile se non la ripetizione infinita di questo inferno.
A un certo punto del film il padre, dopo essere aggredito durante il lavoro da un gruppo di rapinatori, torna a casa ferito con la faccia gonfia e due costole rotte, telefona al boss che si chiama Malone che lo minaccia di una multa se non andrà a lavorare domani. La mattina presto, dolorante con garze e fasce insanguinate, Ricky sale sul suo furgone e corre lungo le strade verso il magazzino in cui lo attende Malone, l’aguzzino caporeparto che lucra sul suo lavoro e comanda senza ascoltar ragioni.
Il film finisce così, e non sappiamo cosa accadrà quando Ricky arriverà, in quelle condizioni. Lavorerà per tutta la giornata? Crollerà? Cosa farà il protagonista del film di Ken Loach dopo l’ultima scena?
Una risposta io ce l’avrei. Ricky raggiunge il magazzino dell’azienda PDF (Parcels Delivered Fast) spingendo sull’acceleratore a tutta velocità, sfonda la porta e si precipita nel locale dirigendosi verso l’ufficio dove lo attende Malone, il boss. Il furgone sfonda la porta a centoventi all’ora e schiaccia il boss contro il muro riducendo in poltiglia il suo corpo massiccio, stritolandogli le ossa una ad una, e ammazzando al tempo stesso il guidatore.
È soltanto la mia immaginazione, è solo quel che io desideravo vedere, ma che Ken Loach non ha mostrato né forse immaginato. Il suicidio è la sola via d’uscita: questa è la sola conclusione del film e anche della vita che viviamo. Nella migliori delle ipotesi possiamo essere shahīd, martiri suicidi ma senza vergini ad aspettarci in paradiso – perché non c’è nessun paradiso, soltanto l’inferno in cui viviamo.
Nessuna guerra fredda all’orizzonte
Entriamo brancolando nel terzo decennio del secolo, e cerchiamo di comprendere le linee generali dell’evoluzione del mondo dopo che la «globalizzazione neoliberale» è stata aggredita da Trump, e ora rischia di affondare definitivamente in seguito alla pandemia virale.
Alcuni sembrano convenire sul fatto che siamo entrati in una nuova guerra fredda che opporrebbe gli Stati Uniti alla Cina. Competizione economica sullo sfondo di un processo di riarmo, e di perfezionamento tecnologico della guerra virtuale.
Naturalmente vi è del vero in questa considerazione (su cui per esempio insiste Federico Rampini nei suoi libri recenti), ma credo che per due ragioni l’analogia con la guerra fredda non funzioni.
Il confronto sovietico-americano degli anni Cinquanta-Ottanta era fondato su un forte controllo bipolare dei conflitti del mondo. Stati Uniti e Unione Sovietica avevano la potenza militare e l’autorevolezza politica necessaria per controllare, reprimere, incanalare le trasformazioni geopolitiche locali, e contenere i conflitti sociali entro un quadro geopolitico sostanzialmente rigido.
Niente a che vedere con il contesto attuale: la linea di demarcazione tra egemonia cinese ed egemonia americana – pur sovrastando il gioco globale nell’economia, nella tecnologia, nell’equilibrio geopolitico – non ha i caratteri della bipolarità perfetta dell’epoca sovietica. Gli attori geopolitici si sono moltiplicati caoticamente, molti di loro possiedono armamenti nucleari, e la logica bipolare non controlla la dinamica dei loro progetti conflittuali.
In secondo luogo, l’equilibrio del terrore degli anni Cinquanta-Ottanta si fondava su progetti ideologici coerenti, e i conflitti locali si svolgevano lungo linee ricomponibili (il campo socialista e le democrazie occidentali). Oggi il quadro mondiale si frammenta lungo linee identitarie irriducibili a un disegno unitario. La sola vera linea di frattura unificante è quella che oppone il Nord del mondo demograficamente ed economicamente declinante, e il Sud del mondo in esplosione demografica.
E questo tema merita di essere approfondito.
Nel prossimo decennio il declino della popolazione dell’emisfero Nord potrebbe trasformarsi in crollo precipitoso. Il blocco sociale ed etnico che corrisponde al Nord colonialista – l’Europa, l’America, il Giappone – non accetta il proprio declino, e reagisce con un movimento etno-nazionalista che riattualizza l’ossessione fascista della difesa della razza bianca minacciata dalla grande sostituzione, e trasforma il mondo bianco in una fortezza assediata. Aleggia il fantasma del passato coloniale, l’assoluto non detto del discorso politico occidentale.
Il cielo della guerra fredda era sovrastato da due confliggenti disegni universali: democrazia e libero mercato, versus socialismo e stato totalitario. Questo produceva una rigidità tendenzialmente paranoica dei due insiemi culturali.
Il cielo del XXI secolo è attraversato da innumerevoli flussi di identificazione precaria, incoerente, tendenzialmente psicotica. La soggettivazione collettiva si aggrappa aggressivamente alla razza, all’etnia, alla nazione, alla fede religiosa, all’identità sessuale.
Il contesto che si va delineando, lungi dal presentare i rassicuranti noti contorni di una guerra fredda, ha – a mio modesto parere – i caratteri della guerra civile globale.
Il trionfo della morte
La democrazia liberale è l’incubatrice della presente forma compiuta del nazismo, che trova il suo luogo d’elezione negli Stati Uniti, entità fondata sul genocidio, la deportazione e lo schiavismo, la cui società costitutivamente razzista oggi sprofonda nella demenza senile.
Il decennio ’20 si sta inaugurando con il definitivo trionfo di Trump. Sul piano internazionale, l’eliminazione del generale iraniano Soleimani ha suscitato scandalo nei democratici (come se il Partito democratico fosse mai stato rispettoso del diritto internazionale) e ha suscitato un’ondata di rabbioso dolore nelle masse iraniane. Ma, per la gioia degli elettori americani, ha dimostrato che il regime sciita è impotente, e che la sua unica possibile risposta è un’azione suicida, e nel caso iraniano l’esito suicida è assolutamente probabile, visto che il ritorno del Mahdi – il dodicesimo imam scomparso – avverrà solo quando il suo popolo si sarà sacrificato.
Il trionfo di Trump è poi divenuto travolgente con la conclusione del processo di impeachment, ed è destinato a culminare a novembre con la vittoria elettorale che sancirà definitivamente la fine della democrazia liberale nel mondo. Difficilmente questo secondo trionfo di Trump potrà essere contrastato dalla potenza finanziaria di Bloomberg, perché la maggioranza dei giovani elettori è con Sanders, e difficilmente si lascerà convincere a votare per un candidato più odioso di quanto sia lo stesso Trump. Ormai gli elettori giovani hanno imparato che i fascisti sono orribili, d’accordo, ma il ricatto della sinistra neoliberale («o noi o il fascismo») non lo è meno.
La vittoria di Trump consoliderebbe su scala globale un fenomeno di cui il nazismo hitleriano fu anticipazione immatura.
Il maggiore teorico dell’etnonazionalismo del XXI secolo è autore di un testo intitolato Manifesto per l’indipendenza europea, non meno idiota e non meno efficace del Mein Kampf. Costui si chiama Andreas Breivik, si fece pubblicità uccidendo 77 persone disarmate e per lo più minorenni l’11 marzo del 2011. Nel suo abominevole scritto spiega che l’errore di Hitler fu l’identificazione degli ebrei come nemico principale della razza superiore, mentre essi sono alleati nella lotta mortale contro gli islamici e le altre razze inferiori. Si tratta della teoria che oggi anima la politica della Casa Bianca e l’alleanza tra Cristianesimo evangelico ultrareazionario e sionismo, nella prospettiva dell’apocalisse imminente. Questa alleanza mira a creare le condizioni culturali e militari per lo sterminio razziale nella fase dell’incombente catastrofe ambientale.
Il discorso suprematista contemporaneo (nella formulazione di Trump e Bolsonaro, ad esempio) non si fonda sulla negazione del cambiamento climatico, come può sembrare, ma su un ragionamento più realistico: otto miliardi di persone non possono convivere sul pianeta Terra nelle condizioni della devastazione ambientale. Si tratta quindi di creare le condizioni tecniche per la sopravvivenza di una parte del genere umano, e quindi di eliminare l’altra parte. Nessun teorico giornalista o politico della destra mondiale si esprime in simili termini, naturalmente. Ma questo è il senso non tanto nascosto del discorso suprematista contemporaneo, che governa ormai quasi tutti i paesi del Nord del mondo.
Il paradosso demografico (invecchiamento del Nord contro espansione della popolazione indiana, islamica e africana) ha come conseguenza logica una migrazione gigantesca che i suprematisti definiscono «grande sostituzione». Anche se la cosiddetta grande sostituzione non è l’effetto di un malefico complotto di Soros come delirano i paranoici, non si può negare il delinearsi naturale di questa tendenza, come fa la sinistra antirazzista che non osa pensare che il solo modo di affrontarla è una strategia di redistribuzione della ricchezza per bilanciare gli effetti del colonialismo. In questo vuoto strategico il suprematismo ragiona sempre più apertamente in termini di soluzione finale: respingimento delle migrazioni, eliminazione di una parte maggioritaria della popolazione mondiale.
Su queste premesse mostruose, letteralmente inimmaginabili, il discorso neoreazionario si fonda e trova una prospettiva di razionalità, per quanto ripugnante. L’inconscio planetario si sintonizza su un contenuto finora rimosso: l’impossibilità della convivenza di miliardi di abitanti nelle condizioni del cambiamento climatico e della stagnazione di lungo periodo.
Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale si svolse una battaglia culturale e politica gigantesca: il movimento operaio e studentesco ne fu protagonista, ma non riuscì a elaborare una strategia di redistribuzione frugale e di di fuoriuscita dal modello di crescita. Perciò il movimento fu sconfitto e la controrivoluzione nichilista thatcheriana preparò il ritorno del nazismo, questa volta in versione matura.
Il nazismo hitleriano fu solo un’orrenda premonizione: il capitalismo infatti non aveva ancora maturato la prospettiva dell’estinzione che oggi si delinea chiaramente, e non si erano costituite le condizioni tecniche del controllo assoluto.
Nel libro Black Earth, The Holocaust as History and as Warning, Timothy Snyder sostiene che il totalitarismo politico diviene accettabile per la maggioranza della popolazione quando l’alternativa è la precipitazione di condizioni ambientali insostenibili, e il genocidio diviene accettabile quando appare come la sola possibilità di evitare l’estinzione per la propria famiglia o per la propria nazione.
Per pensare gli anni Venti occorre avere il coraggio di pensare l’imminenza dell’orrore.
Nel discorso hitleriano c’era tragica serietà della tradizione, della famiglia, della comunità e della nazione. Nel nazismo 2.0, la tragedia si volatilizza per lasciare spazio alla commedia cinica.
Funky nazi
L’etnonazionalismo che trionfa a livello globale è il segno di una disperazione che si esprime in un linguaggio dell’assurdo.
Alla migrazione che preme alle frontiere e costringe i predatori a trincerarsi dietro muri fisici e mentali sempre più alti e sempre più fragili, l’etnonazionalismo bianco, incapace di assumersi la responsabilità del colonialismo e di pagarne il prezzo, oppone il proprio primato con l’apocalittica logica di sterminio. Assediata al suo interno dalla demenza senile e dalla depressione, la cultura dominatrice distrugge in sé ogni traccia umana per non soccombere alla sua stessa intima fragilità.
Il cinismo diviene allora il registro etico e linguistico prevalente.
Che vuol dire cinismo sul piano linguistico ed etico?
Il cinismo ha qualcosa a che fare con l’ironia: con essa condivide la sospensione del rapporto tra enunciazione e verità. Nonostante l’analogia retorica, però, tra cinismo e ironia c’è una divergenza etica radicale: l’ironia sospende il rapporto tra enunciazione e verità per alludere alla pluralità dei mondi possibili, mentre il cinismo sospende quel rapporto perché non vuol rinunciare al privilegio implicito nella conservazione dell’esistente.
Penso alla straordinaria esibizione di cinismo dell’intero ceto politico repubblicano di fronte alla messa in stato di accusa e all’impeachment di Trump. Nessuno poteva negare che il presidente avesse compiuto un’azione immorale, illegale, vergognosa. Nessuno l’ha negato. Ma la difesa del potere bianco non può cedere di fronte a tali piccolezze, tanto più che negli ultimi settant’anni la politica estera americana è un’ininterrotta successione di atti immorali, illegali, vergognosi. Ogni affermazione del presidente e dei suoi tirapiedi è dunque stata fondata, fino al grottesco, su una sistematica sospensione della verità. Chiunque dicesse la verità è stato minacciato, aggredito, ridicolizzato e alla fine licenziato (come è accaduto per un militare e per un ambasciatore che avevano semplicemente detto la verità sulle telefonate ricattatorie di Trump a Zelenski).
Si è trattato di una straordinaria rappresentazione comica perché tutti, fino al più sprovveduto degli spettatori, sapevano che ogni parola del presidente era falsa. Ma l’aggressività conferiva forza di verità al falso più evidente. La politica di tutta classe dirigente bianca occidentale – senza distinzione tra destra e sinistra – era perfettamente sintetizzata in quella sovversione cinica dell’enunciare.
C’è qui un’evoluzione dello stile nazista: nel discorso hitleriano c’era tragica serietà della tradizione, della famiglia, della comunità e della nazione. Nel nazismo 2.0, la tragedia si volatilizza per lasciare spazio alla commedia cinica. La famiglia, la tradizione, la comunità, la nazione non sono altro che finzioni che hanno perduto ogni relazione con il vissuto. Il trumpismo contemporaneo esalta la comunità con cinismo barocco, ma sa che non c’è più alcun senso di comunità nel tardocapitalismo globale. Esalta i valori della nazione, ma sa bene che il potere è totalmente deterritorializzato.
Per questo il meme ironico prende il posto della retorica tragica: nel meme non c’è coerenza né serietà, perché la sua potenza si fonda sull’over-inclusività semantica, cioè sul fatto che ogni segno può significare ogni cosa e il suo contrario. Pura volontà di potenza senza alcuna fede nella verità dell’enunciato.
Cinquant’anni di pervasione mediatica e pubblicitaria ininterrotta hanno creato le condizioni di questa erosione del rapporto tra enunciato e verità. La pubblicità ha distrutto ogni coerenza dell’enunciazione, espandendo a dismisura lo spettro semantico di ogni segno, fino a includere in ogni interpretazione il contrario di quel che ogni segno significa.
L’interpretazione si è fatta esercizio di puro potere senza coerenza.
Nello slang afroamericano, si usa il termine «funky» per intendere l’eccesso di eccitazione, la rottura di ogni inibizione semantica e di ogni coerenza etica.
Funky è la disconnessione del linguaggio da qualsiasi rapporto con la coerenza, e l’arbitrarietà scatenata del flusso semiotico.
Funky-Nazi è la tempesta di merda che la ragione politica non è in grado di comprendere e men che mai di arginare.
Piccola nota sulla democrazia
Se Bernie Sanders vince le prossime elezioni americane mi converto alla fede democratica. La cosa è assai improbabile, e penso che sarà confermata la mia convinzione che la parola «democrazia», valore assoluto e indiscutibile del discorso contemporaneo, non significa niente. L’ascesa di Bloomberg ne è prova spudorata. In quanto metodo utile per rappresentare la volontà del popolo, la democrazia non funziona più – se mai ha funzionato: la formazione dell’opinione non è effetto della libera critica dell’intelletto sociale, in quanto il processo tecnico di produzione della mente collettiva è totalmente espropriato dalle grandi corporazioni che dominano nell’infosfera. Inoltre la volontà espressa dalla maggioranza non ha più alcuna efficacia, perché gli automatismi tecno-finanziari decidono in maniera inesorabile dell’allocazione delle risorse e di tutto il resto.
Il metodo della democrazia rappresentativa ha consegnato il potere ad Adolf Hitler e a Donald Trump, per tacere di Rodrigo Duterte, Narendra Modi e una lista interminabile di altri criminali. L’anno 2020 vedrà il confronto tra il Nazi-Funk trumpiano e l’ultra-potere finanziario di Bloomberg. Naturalmente tutto può accadere, ma direi che il Nazi-Funk ne uscirà vincitore, e non posso dire che sia l’ipotesi peggiore.
L’inconscio si è nutrito dell’umiliazione degli uomini di fronte all’ultrapotenza della macchina tecno-finanziaria. E gli impotenti umiliati hanno un solo sogno: la vendetta. E la vendetta non vuol sentir ragioni: si esprime contro coloro che l’odio collettivo sente come responsabili dell’impoverimento sociale e della privatizzazione di tutto – il ceto politico del centrosinistra che ha imposto la violenza neoliberale e ora merita solo di scomparire.
Nazi-Funk è il nome della vendetta.
Nessuno crede davvero che il cambiamento climatico non esista. Ma la maggioranza pensa che non c’è più niente da fare per fermare l’apocalisse, quindi la sola cosa ragionevole è bunkerizzarsi, e sterminare chi si avvicina al bunker.
Di che estinzione stiamo parlando?
L’estinzione è entrata nella sfera percettiva del genere umano nel secondo decennio di questo secolo: la parola impronunciabile è stata pronunciata. Non la ragione politica ma l’inconscio percepisce questa possibilità, questo approssimarsi della fine.
Se incrociamo le previsioni di incremento demografico del sud del pianeta con la riduzione degli spazi abitabili dovuta alla catastrofe ecologica (zone costiere allagate, zone continentali che superano le temperature tollerabili, zone devastate dall’inquinamento tossico) ci rendiamo conto del fatto che grandi migrazioni sono inevitabili. Le grandi migrazioni alimentano guerre, internamento di massa dei poveri da parte dei meno poveri, e sterminio. È quello che già accade nella frontiera mediterranea e in molte altre frontiere della Terra.
Nonostante i patetici appelli («il tempo stringe, restano solo dieci anni…») la catastrofe ecologica non è più reversibile, e neppure contenibile: questo spiega la crescita delle forze politiche che negano il problema. Vince le elezioni soltanto chi si impegna a continuare la devastazione e chi persegue la crescita innanzitutto: crescita vuol dire devastazione, e la parola «sostenibile» è accompagnata da un sorrisetto sardonico.
In Italia, per vincere le elezioni in Emilia Romagna, il candidato democratico ha preteso che il governo nazionale cancellasse una proposta di legge che voleva istituire una tassa sulla plastica con la motivazione che il packaging di plastica è concentrato in Emilia.
Non esistono deniers: nessuno crede davvero che il cambiamento climatico non esista. Ma la maggioranza pensa che non c’è più niente da fare per fermare l’apocalisse, quindi la sola cosa ragionevole è bunkerizzarsi, e sterminare chi si avvicina al bunker.
Da quando al vertice di Rio de Janeiro del 1992 George Bush senior dichiarò che «il tenore di vita degli americani non è negoziabile», è stata chiara l’alternativa: o l’umanità si libera del popolo americano o il popolo americano si libera del genere umano. La vittoria di Trump segna il momento in cui il popolo americano prepara l’eliminazione del genere umano perché gli americani possano mantenere il loro tenore di vita. Al momento pare che questa prospettiva prevalga. La nazione più assassina di tutti i tempi (la cui storia di genocidio, deportazione e schiavismo fa impallidire il Terzo Reich) è pronta all’Olocausto dell’umanità non americana. America First in ultima analisi significa questo.
A meno che qualcuno non decida di scatenare l’ecatombe finale cominciando proprio con gli americani, dal momento che diversi paesi (la Corea del Nord per esempio, e naturalmente la Cina) posseggono la forza necessaria per incenerire metà della popolazione americana.
Il suicidio è la mostruosa prospettiva che va delineandosi per l’umanità del XXI secolo. Da che punto di vista dovremmo dolercene?
Temo che il futuro contenga una possibilità più dolorosa di quanto possa essere l’estinzione biologica del genere umano. Il genere umano è abbastanza resistente per sopravvivere al cambiamento climatico, alla guerra globale e al bombardamento atomico. Forse il genere umano sopravviverà.
E anche la civiltà è destinata a sopravvivere, trasferita nella sfera automatica della rete connettiva globale. Separata dagli umani, oggettivata nella tecnica, la civiltà potrà riprodurre ed espandere le sue concatenazioni astratte.
Quel che non sopravviverà a mio parere è l’equilibrio fragile della civiltà umana, della civiltà in quanto umana.
Una civiltà inumana, e popolazioni umane senza civiltà: questa mi pare la prospettiva più probabile per il secolo XXI. Gli anni Venti mostreranno se c’è una possibilità di sfuggire a questa separazione dell’umano dalla potenza civile della tecnica, se la civiltà può sopravvivere come civiltà umana. E forse il novembre 2020 sarà la prima decisiva prova: either Bernie president or endgame.
Etica dell’estinzione
Pensare gli anni Venti significa interpretare le tendenze che agiscono nella condizione presente, ma non solo. Significa anche elaborare le linee di un’etica dell’estinguersi.
Un’etica del divenire nulla.
L’etica moderna si volle propedeutica al vivere bene. Ora occorre tornare a concepire l’etica come propedeutica al morire bene. Non (solo) nel senso stoico del meditare individualmente sulla morte degna, ma anche nel senso di elaborare una coscienza collettiva dell’orizzonte di estinzione della civiltà umana.