La convulsione

Senza leadership né progetto comune, le rivolte del 2019 condividono una consapevolezza: l’assenza di un avvenire vivibile. Col caos alle porte e in vista della catastrofe finale, è ora di riattivare il futuro distrutto dall’assolutismo capitalista

Autunno 2019, una convulsione scuote il mondo degli umani. Da Hong Kong a Bogotà, da Barcellona a Beirut a Quito a Baghdad a Teheran si moltiplicano rivolte le cui dinamiche differenti, persino divergenti, paiono (per il momento?) irriducibili a un unico processo, mentre sullo sfondo bruciano le foreste in California, in Siberia, in Australia, in Amazzonia, e l’acqua allaga Venezia.

Per quanto diverse e perfino opposte siano le motivazioni, gli obiettivi, le ideologie di queste rivolte, il contesto che genera la convulsione è comune: la devastazione prodotta dall’assolutismo capitalista nel corpo vivo del pianeta, nel sistema cognitivo umano, nel ritmo psichico collettivo. 

Cos’è una convulsione?

In termini clinici le convulsioni sono una serie di movimenti involontari, bruschi ed incontrollati, della muscolatura volontaria. Le convulsioni sono scatenate da un’improvvisa disorganizzazione dell’attività elettrica del cervello, e si manifestano in forma di spasmi corporei. Il corpo collettivo si ribella ma non riesce (per il momento?) a trovare un cervello comune, un piano comune di immaginazione, di programma, di strategia; non riesce a dar vita a un processo di soggettivazione cosciente e collettiva.

Secondo Wikipedia: «In caso di convulsione non bisogna bloccare la persona nel tentativo di ostacolarne i movimenti. Lasciare che l’episodio faccia il suo corso. Cercare di trattenere od ostacolare il soggetto può essere causa di fratture o strappi muscolari. Allontanare gli oggetti appuntiti o spigolosi con i quali il soggetto potrebbe ferirsi; spostare il soggetto stesso, se è in vicinanza di scale, porte a vetri o altri pericoli. Contrariamente a quanto molti credono, non si deve inserire all’interno della bocca del soggetto alcun oggetto (un cucchiaio o un fazzoletto), neanche per cercare di separare i denti o per evitare che si morda la lingua. Allentare gli indumenti stretti. Contrariamente a quanto alcuni ritengono, dare da bere al soggetto o gettargli acqua fredda in faccia non fermano la crisi, anzi possono procurargli soffocamento. Non si deve, quindi in alcun modo, interferire con l’evento».

Forse in queste parole ci sta un suggerimento per i tempi che ci aspettano. Si deve accompagnare la convulsione con la comprensione, ma non si deve pretendere di frenarla o governarla; solo si devono compiere azioni che aiutino il risvegliarsi della coscienza, perché la coscienza è la sola cura per gli attacchi di convulsione. Si tratta di creare un ponte concettuale tra il declino del Nord senescente e l’emergere della popolazione giovane del Sud del mondo. 

L’esplosione

Per quanto sia impossibile intravedere per il momento quali direzioni prenderanno le insurrezioni senza leadership e senza progetto comune di questo autunno ’19, il senso generale della convulsione in corso è riconoscibile, anche se non sempre consapevole: la convulsione segna la fine del ciclo neoliberale, anche se non indica una direzione progettuale alternativa.

Il ciclo neoliberale cominciò nel 1973, quando gli economisti nordamericani di scuola neoliberista usarono un assassino chiamato Pinochet per distruggere l’esperimento democratico di Salvador Allende nell’interesse dell’economia di profitto. Là dove iniziò quel ciclo, oggi potrebbe finire. Nella mareggiata globale di rivolte senza progetto dell’autunno ’19, il Cile sembra essere il luogo in cui più che altrove si manifesta coscienza del contesto storico di lungo periodo, e delle scelte da compiere nell’immediato futuro: riscrivere la costituzione dal basso come carta dei diritti politici e soprattutto come affermazione del primato della società rispetto all’impresa. 

Il liberismo globalitario si affermò nel 1973 grazie alla dittatura militare e alla violenza. Negli anni di Thatcher e di Reagan la controrivoluzione sperimentata in Cile e in Argentina si generalizzò a tutto l’Occidente come violenza economica che travolse ogni difesa della società.

Non dobbiamo dimenticare del resto che la filosofia del neoliberismo si fonda essenzialmente sugli stessi principi su cui si fonda il nazismo hitleriano: selezione naturale, imposizione della legge del più forte nella sfera sociale, eliminazione di ogni differenza tra la società e la giungla. Questa filosofia nazi-liberista si è imposta nel mondo attraverso l’eliminazione delle avanguardie operaie, la ristrutturazione tecnica della produzione, la privatizzazione della scuola, del sistema sanitario, dei trasporti pubblici e l’occupazione privata dei media.

Quarant’anni di violenza nazi-liberista hanno condotto allo smantellamento dell’edificio della democrazia, all’esaurimento delle risorse fisiche del pianeta, all’accelerazione del cambiamento climatico, alla diffusione massiccia di psicopatie aggressive talvolta suicide. Dal Cile, dove questa follia nazi-liberista incominciò, potrebbe iniziare il suo crollo. La sollevazione degli studenti e dei lavoratori cileni ha messo in questione proprio la giunzione tra capitalismo e violenza, tra dittatura e mercato, ha espresso consapevolezza del fatto che il capitalismo è un cadavere del quale dobbiamo liberarci. Ora quella sollevazione deve trasformarsi in processo durevole di autorganizzazione e avviare un processo di redistribuzione della ricchezza sociale. 

L’alternativa all’assolutismo capitalista sta nel superamento dell’ossessione economica della crescita, la redistribuzione delle risorse, la riduzione del tempo di lavoro salariato e l’allargamento del tempo di attività libera, insegnamento, terapia, azione solidale. La sollevazione cilena può aprire questa prospettiva, che potrebbe divenire esemplare, e potrebbe forgiare un linguaggio comune, un ritmo capace di trasformare la convulsione in un processo collettivo cosciente.

Attori della convulsione in corso sono i giovani nati nel nuovo secolo, che si rivoltano senza memoria delle rivolte passate e senza un progetto comune per il futuro.

Il paradosso demografico 

Per comprendere la convulsione in corso è bene considerare la composizione demografica del mondo. 

Una sorta di paradosso demografico si va delineando: Il Nord del mondo è entrato in un processo di senescenza irreversibile, e il cervello bianco reagisce al declino con una rabbiosa reazione etno-nazionalista che diviene maggioritaria anche in parte della popolazione giovane. Nel Sud del mondo la popolazione giovane si espande rapidamente alimentando un’onda migratoria che non è destinata a ridursi, e provoca, negli invasori colonialisti di ieri, un riflesso di paura: gli invasori temono l’invasione.

La mitologia della «grande sostituzione», con cui si alimentano l’etno-nazionalismo e la destra, non va minimizzata: questa paura si fonda sulla percezione di un fenomeno migratorio di lungo periodo. La diseguaglianza prodotta dal colonialismo passato e da quello presente, e le catastrofi ambientali sempre più frequenti spingono una parte della popolazione giovane del Sud a cercare salvezza nel ricco Nord.

La convulsione che è iniziata nell’autunno 2019 va letta anche in relazione a questo paradosso demografico. Il 41% della popolazione globale ha meno di 24 anni. In Africa il 41% della popolazione ha meno di 15 anni. In Asia e in America Latina il 25% della popolazione ha meno di 15 anni. In India ogni mese un milione di persone compiono diciotto anni. Nel mondo islamico, in Medio Oriente e Nord Africa si calcola che ventisette milioni di persone raggiungeranno la maggiore età e si metteranno alla ricerca (disperata) di un salario.

Nei paesi del Nord del mondo la situazione è esattamente rovesciata: in Europa solo il 16% ha meno di 15 anni, mentre il 18% ha più di 65 anni, e fra dieci anni gli ultra-65 saranno un terzo della popolazione (dati tratti da un articolo di Simon Tisdall, Generation Crash pubblicato da The Guardian Weekly del 1 Novembre 2019).

Attori della convulsione in corso sono i giovani nati nel nuovo secolo, che si rivoltano senza memoria delle rivolte passate e senza un progetto comune per il futuro. Ma nella convulsione sono coinvolti anche i vecchi, che godono ancora dei residui della condizione economica conquistata durante gli anni della solidarietà sociale, ma ne vedono l’erosione tendenziale.

Potrà crearsi un ponte tra la generazione anziana, prevalentemente concentrata nel Nord del mondo, e la popolazione giovane che sta esplodendo nel Sud del pianeta? Potrà emergere una convergenza tra i bisogni di popolazioni che invecchiano e si riducono, e popolazioni in crescita demografica impoverite dalla colonizzazione? Oppure il solo rapporto tra queste due sarà la paura dell’invasione migratoria e la volontà di vendetta? 

Una mappa dell’apocalisse

Il mese di ottobre del 2019 è stato caldissimo per la California: le foreste di Sonoma County nel Nord sono state devastate per settimane dal Kincade Fire; migliaia di ordini di evacuazione sono stati eseguiti nell’area di Los Angeles, dove per giorni ha bruciato il Getty Fire; altri fuochi hanno colpito la zona di Santa Ana, e il Copper Fire ha messo in pericolo le abitazioni dell’area di San Diego. 

E però a non essere stato evacuato è stato il Getty Museum, perché la costruzione di pietra e di vetro e le enormi riserve di acqua che circondano il museo hanno garantito che il luogo era sicuro. Allo stesso modo le grandi corporation del digitale di Cupertino, Mountain View e Palo Alto non hanno temuto il fuoco. Mentre il caos si diffonde nel mondo, l’astrazione si libra intatta, e i creatori di astrazione si proteggono dentro cattedrali di cristallo. La prospettiva che si delinea è quella di una separazione tra il caos che invade il mondo vivente e l’automa cognitivo globale.

Forse ci occorre una mappa della catastrofe globale che si sta svolgendo a tutti i livelli della vita sul pianeta: questa mappa dovrebbe considerare non soltanto i diversi piani su cui la catastrofe si delinea, ma anche le interazioni, in larga parte imprevedibili, tra uno strato della catastrofe e un altro.

Il Guardian del 5 Novembre 2019 pubblica un articolo sulla crisi climatica che contiene i grafici relativi alle tendenze preoccupanti (e anche a quelle incoraggianti). La popolazione del pianeta è aumentata da 4 miliardi e mezzo a sette miliardi e mezzo in soli quaranta anni; l’aviazione civile trasportava mezzo miliardo di persone nel 1984: ne ha trasportate quasi 4 miliardi nel 2017. E il consumo di carne è passato da 30 a 45 chili all’anno per ogni persona. Inoltre il diossido di carbonio nell’aria che respiriamo è passato da 300 a 410 particelle per milione tra il 1984 e il 2018, mentre gli eventi estremi sono passati da 200 a 800 nel periodo che sta tra il 1980 e il 2018. Nonostante i summit internazionali e i piani di riduzione delle emissioni, non vi è alcun segno che la tendenza si stia invertendo, al contrario: le emissioni aumentano e vincono le elezioni gente come Trump e Bolsonaro che promettono di non porre alcun limite all’estrazione e al saccheggio.

Secondo Bill McKibble (sul New Yorker) intere zone del continente euroasiatico stanno diventando inabitabili a causa del calore estremo, mentre decine di milioni di persone debbono prepararsi ad abbandonare le zone costiere a causa dell’aumento del livello degli oceani: il cambiamento climatico è causa di enormi migrazioni destinate a provocare un aumento delle tensioni sociali e geopolitiche. Nel libro Black Earth – The Holocaust as History and Warning, Timothy  Snyder spiega che queste sono le condizioni ideali per l’instaurazione di regimi totalitari, che promettono di gestire il panico e invece esasperano la violenza: guerra civile globale.

La grande questione teorica su cui dobbiamo riflettere è quella dell’evoluzione caotica in cui siamo entrati e dal quale l’organismo sociale può uscire in modi diversi.

L’ultima catastrofe

La catastrofe peggiore, quella che rende irreversibili tutte le altre, è l’epidemia psicotica che si sta diffondendo nelle città del mondo: il panico e la depressione provocano una crescente diffusione di reazioni irrazionali, puramente vendicative. E la percezione vaga di incombenti apocalissi spinge un numero crescente di persone (e di regimi politici) verso una forma di etno-nazionalismo che nasconde la disperazione e il cinismo: poiché non è più possibile salvare il pianeta, quel che mi resta da fare è salvare me stesso e la mia famiglia. E per fare questo debbo comprare un SUV più grande, stivare sempre più carne nei frigoriferi del bunker privato, e procurarmi un fucile di precisione che mi permetta di difendere quello che ho, quando arriveranno le orde dei disperati in fuga.

La convulsione si manifesta quando il caos si impadronisce di un organismo individuale o sociale. La grande questione teorica su cui dobbiamo riflettere è quella dell’evoluzione caotica in cui siamo entrati e dal quale l’organismo sociale può uscire in modi diversi. Può uscirne perdendo ogni autonomia e sottomettendosi definitivamente all’automa cognitivo globale, oppure può uscirne caosmoticamente, elaborando forme di coscienza e di orientamento capaci di ricomporre il tempo umano e il ritmo caotico dell’universo circostante. Oppure divenendo nulla, scomparendo, estinguendosi, sciogliendosi nel flusso del samsara.

Nelle rivolte in corso è all’opera una pulsione kamikaze che non possiamo ignorare, se vogliamo trovare vie d’uscita positive. A Hong Kong come a Barcellona, come a Baghdad come a Santiago, sembra agire la consapevolezza dell’assenza di futuro vivibile. Questa consapevolezza ha prodotto fino a ieri un effetto di depressione. Ma ora milioni di giovani si rendono conto del fatto che la rivolta dissolve i fumi depressivi: «No era depresiòn, era el capitalismo».

Quando i fumi depressivi si dissolvono e riprende a pulsare la tensione desiderante collettiva anche il cervello si mette a immaginare possibilità fino a ieri impensate. E si può riattivare il futuro che l’assolutismo capitalista ha distrutto.