La Lombardia ha fatto anche cose buone
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Da anni ormai, sulla cima del Pirellone, nidificano dei falchi pellegrini.
Sono state montate due telecamere che in primavera mostrano le uova schiudersi, i pulli cambiare tinta nel tempo, i genitori portargli merli e piccioni per sfamarli. È successo anche quest’anno, in piena pandemia. Per settimane i falchetti hanno mangiato le proteine della carne cruda, sintetizzando le trecce di tendini e artigli; più in basso, gli alberi infioravano e nessuno li vedeva, la verdura fresca aumentava di prezzo, i dirigenti entravano e uscivano dalle Mercedes.
Immaginarsi il volo dei falchi adulti non è una curiosità ma un impulso. Con della fortuna si può vederli lanciarsi in volo nella webcam; con molta fortuna può capitare di vedere con l’occhio nudo il corpo nero staccarsi dal pendio del grattacielo, lato sudovest, e planare nel cielo di Milano. Alle otto di sera, qualche minuto dopo. Per qualche ragione animale, preferiscono planare intorno alla torre Diamante e al complesso Solaria, verso Porta Nuova, ignorando la fascia settentrionale, Gioia e Sondrio. Cos’hanno visto in questi mesi, i falchi pellegrini; hanno visto poco traffico e poi sempre di più, i figli per manina, le bici a cottimo. Hanno planato sul palazzo della Regione più colpita, dove degli anziani si filmano con il cellulare mentre si incastrano nelle mascherine di carta e parlano il dialetto dei capi, sgridando i cittadini bambini che non vogliono lavorare, non vogliono stare a casa, non vogliono entrare nei negozi…
Altra stella di questi due mesi: il ventisettesimo piano del Pirellone sempre illuminato, di notte e, impercettibilmente, di giorno. Lato sud. Mi piace pensare, ed è probabile, che qualcuno prima dell’8 marzo si fosse dimenticato di spegnere le luci. Ora si accende e si spegne, come le altre, ma per settimane e settimane quel mezzo piano illuminato ha tenuto compagnia a una fetta di milione di abitanti; immagino; chi guarda il Pirellone la notte, dopotutto? Forse in molti, in mancanza d’altre luci?
Altre luci, altre immagini: ogni volta che tornavo a casa con il cibo, riemergendo dalla fossa del supermercato della stazione, in fondo al nastro che mi riportava all’aria aperta la vista veniva interrotta da una di quelle bolle di vetro dove si installano i negozi temporanei, come quello di Victoria’s Secret. Salendo immobile mi si presentava sempre la stessa scena: Barbara Palvin e Josephine Skriver che ridendo si abbracciano o perdono l’equilibrio su un letto, filmate nel mondo di prima, dove si rideva e ci si abbracciava senza pensare al gesto, così, come respirare.
Le loro risatine meccaniche sono entrate nelle invariabili della quarantena: una, due volte a settimana, per mesi, si ripetevano nella simulazione di desideri e giochi in quello strano mondo ante covid, di viralissimi cuscini d’oca, trapunte collettive. Infestavano come fantasmi il silenzio della stazione, la gigantesca casa fascista, rotto soltanto dagli annunci registrati dei treni che partivano vuoti.
Come i falchi e la verdura, è risaputo, Palvin e Skriver sono composte di cellule, sviluppatesi lungo i piani prospettici degli zigomi a cuspide; la genetica ha seguito le direttrici più fotogeniche, verso le vite strette nel vetro e nell’acciaio della vetrina, dove i millenni di selezione naturale possono finalmente vendere i profumi di Victoria’s Secret come Bombshell, la bomba.
Sulla vetrina, a sud, si riflette il solito profilo del Pirellone, dove nella Vita agra Tognazzi voleva sganciare la sua. Parlando di bombe: tra il Pirellone e il palazzo della Regione c’è poi un’altra torre, si chiama Torre Galfa. Dopo anni di abbandono, dopo la breve occupazione di Macao del 2012, Unipol l’ha convertita a vocazione mista – hotel di lusso, «fitness center», sale eventi. Il grattacielo risale agli anni Cinquanta e testimonia, ancora oggi, il potere di chi l’ha voluto. Attilio Monti era il padrone della SAROM, una società che all’epoca raffinava ogni anno 3,25 milioni di tonnellate di greggio per conto di Shell e British Petroleum; l’attività era nata dal nulla vent’anni prima, grazie a una lunga amicizia con Italo Balbo, tra i comandanti della marcia su Roma, poi sottosegretario all’economia nazionale e, tra le altre cose, futuro governatore della Libia.
Qualche anno dopo, tra i documenti rinvenuti nella cassetta di sicurezza di Giovanni Ventura, uno dei neofascisti responsabili della bomba di Piazza Fontana, si nascondeva un’informativa dei nostri servizi segreti militari (all’epoca si chiamavano SID):
Il rapporto KSD/VI M n. 0281, datato 4 maggio 1969, riferisce che «ambienti politici ed economici italiani, appoggiati anche da ambienti stranieri (fra cui sicuramente americani) hanno deciso la sostituzione del centro-sinistra in Italia con una formula sostanzialmente centrista». Tra i passi per raggiungere quest’obiettivo sarebbe contemplata un’«eventuale ondata di attentati terroristici, per convincere l’opinione pubblica della pericolosità di mantenere l’apertura a sinistra (gruppi industriali del Nord Italia finanzierebbero gruppetti isolati di neofascisti per far esplodere alcune bombe)». Il successivo rapporto del 16 maggio ribadisce il concetto, identifica gli ambienti industriali «principalmente con il gruppo Monti». (Fonte: Benedetta Tobagi)
Di come il petrolio e il terrorismo costruiscano le città, abbiamo già parlato qui: ogni passeggiata tritura storia, biologia e architettura.
Abito nel cosiddetto Centro Direzionale. Ogni sera dalla cucina vedo l’apice di Torre Galfa, la torre del petrolio e dell’Ordine Nuovo, illuminata nel tricolore. Quando di mattina connetto il portatile al router, nella lista delle reti succede che appaia «CONSIGLIO REGIONALE». Il condominio è lambito dalla stessa fibra ottica da cui ogni giorno si scambiano centinaia, migliaia di email dove vengono decisi i contorni della vita a venire, almeno per questa città, che si veste da capitale morale, e di questa Regione, che è il centro economico della nazione. Forse CONSIGLIO REGIONALE ha smistato anche l’email diretta ad Angelo Giupponi (responsabile dell’Articolazione aziendale territoriale del 118, che nei primi giorni della catastrofe di Bergamo invitava la Regione a incaricarsi di misure più severe per tamponare l’emergenza), quell’email di risposta che diceva «sono tre giorni che non dormiamo, non vogliamo leggere le tue stronzate».
Ma la Lombardia, è bene ricordarlo, ha fatto anche cose buone. A Milano, per esempio, è nato Gadda; grazie alla Brianza, trasfigurata nel Maradagal sudamericano, è stato scritto uno dei libri più importanti della nostra letteratura, La cognizione del dolore.
Il tessuto della collettività, un po’ dappertutto forse, nel mondo, e nel Maradagal più che altrove, conosce una felice attitudine a smemorarsi, almeno di quando in quando, del fine imperativo cui sottostà il diuturno lavoro delle cellule. Si smàgliano allora, nella compattezza del tessuto, i caritatevoli strappi della eccezione. La finalità etica e la carnale benevolenza verso la creatura umana danno contrastanti richiami.
A una certa età Gadda diventa una lettura faticosa, perché si lavora troppo, e siamo sempre connessi al router; è faticosa, soprattutto, perché è una storia sofferta. C’è un raro passaggio del romanzo però dove Gadda fingendo ci invita alla speranza:
Tuttavia, persisteva nell’opinione che anche un naufrago, a voler davvero, lo si può ripescar fuori dai flutti, dalla ululante notte: il tessuto sociale interviene allora al soccorso: e agisce contro la cianosi del singolo col vigor non mai spento della carità; opera come una respirazione d’artificio, che ridona al prostrato, dopo il soffio azzurro della speranza, il rosso calore della vita.
Si entra nel mondo della finzione, tra le bombe di una volta e le pubblicità spettrali, e capita di chiedersi: il tessuto sociale è più resistente di astrazioni come lombardie, aliquote e agognate ripartenze?