La società servile di massa
Vorrei soffermarmi su un’intuizione che ho solo brevemente abbozzato nel mio libro Entreprecariat e che ho incluso nel capitolo su Fiverr.com, il più grande mercato online dedicato al lavoro freelance. In quella sede ho tratteggiato l’immagine di una società della delega:
«“Quando ti tocca delegare, fallo” scrive Adam Dachis su LifeHacker a proposito di Fiverr. Delegare quando possibile, ovvero quando conviene spendere una modica somma in denaro piuttosto che il proprio tempo prezioso. Delegare compiti tediosi, stressanti o ingrati. Ma quando è così facile, fino a che punto ci si può spingere? […] Sintetizzando crudamente gli effetti della popolarizzazione delle tecnologie digitali, si potrebbero individuare tre “rivoluzioni”. La prima riguarda l’avvento dei personal computer, che ha garantito l’accesso agli strumenti. La seconda, quella del web, ha garantito l’accesso ai canali di distribuzione. Infine, la terza, quella della gig economy (tuttora in corso di svolgimento), garantisce l’accesso alla manodopera. Fiverr, come molti altri mediatori di servizi online, incorpora tutte e tre queste rivoluzioni in quella che si potrebbe definire democratizzazione della delega. La piattaforma stessa ci scherza su, pubblicando su Instagram un meme che ritrae un giovane in pigiama costretto a fare outsourcing di tutti i suoi impiegati poiché abita ancora in casa dei genitori. […] Se tutti delegano, chi fa? In un episodio della serie Silicon Valley alcuni personaggi visitano un supermercato dove non è rimasto nessuno che la spesa la fa per sé, bensì soltanto addetti di varie startup che la spesa la fanno per altri, consegnandola poi a domicilio. Si tratta di un’immagine comica che rischia di non farci ridere. Non è per pigrizia che la società della delega scarica i propri fardelli altrove, ma piuttosto perché è troppo indaffarata. Un nuovo servizio di Amazon sembra confermarlo. Amazon Key controlla elettronicamente la serratura di casa garantendo l’accesso a manodopera di vario tipo quando il proprietario è assente. In vista di una visita imminente dei suoi genitori, la protagonista dello spot introduttivo si fa recapitare un pacco e pulire casa perché è bloccata in ufficio. Da lì, grazie a una telecamera può controllare – o meglio microsorvegliare – gli addetti, assicurandosi che lavorino per bene.»
In Metamorfosi del lavoro, pubblicato per la prima volta nel 1988, il filosofo franco-austriaco André Gorz, sodale di Sartre e Illich nonché fautore di un esistenzialismo di stampo marxiano, non solo preconizzava uno sviluppo simile, ma ne chiariva le dinamiche. Per questo motivo vorrei commentare un illuminante passaggio tratto dall’introduzione del libro, incentrata sul tempo libero generato dai progressi nel campo dell’automazione. Credo che i paralleli con la situazione attuale, e in particolare con l’avvento della gig economy, siano evidenti. I corsivi sono dell’autore mentre i grassetti sono miei.
«La società, secondo [la maggior parte degli autori], continuerà inevitabilmente a scindersi. Questa scissione avrà (e ha già) come causa la ripartizione molto ineguale delle economie di tempo di lavoro: gli uni sempre più numerosi, continueranno a essere espulsi dal campo delle attività economiche o ne saranno tenuti ai margini; gli altri, al contrario, lavoreranno altrettanto, o anche più di oggi e, in ragione delle loro prestazioni o delle loro attitudini, disporranno di redditi e di poteri economici crescenti. Per nulla disposta a privarsi di una parte del suo lavoro e delle sue prerogative e dei poteri legati al suo impiego, questa élite professionale può accrescere il proprio tempo libero soltanto servendosi di terzi che le procurino tempo disponibile. Essa chiederà a terzi di fare in sua vece tutto ciò che può essere fatto da chiunque, in particolare tutto il cosiddetto lavoro di “riproduzione”. Essa acquisterà servizi e attrezzature che permettono di guadagnare tempo anche quando tali servizi e attrezzature richiedano più tempo per essere prodotti di quanto non ne risparmino a un fruitore medio. Essa svilupperà dunque attività che, prive di razionalità economica a livello della società – poiché richiedono più tempo di lavoro a coloro che le svolgono di quanto non ne facciano risparmiare a coloro che ne beneficiano – corrispondono unicamente all’interesse particolare di questa élite che è in grado di acquistare tempo a un prezzo molto inferiore a quello al quale essa può venderlo. Queste attività sono attività da servitore, indipendentemente dallo statuto e dal modo di retribuzione di coloro che le svolgono.»
Gorz descrive una società in crescente polarizzazione, una società duale: da una parte una ristretta élite professionale, dall’altra una moltitudine di servitori. Come agisce la prima? Se ignoriamo per un momento ciò che dichiara l’autore, può risultare sorprendente il fatto che l’élite professionale non voglia ridurre il proprio tempo di lavoro bensì accrescerlo; che pur potendosi permettere di lavorare meno, l’élite decida invece di lavorare di più. Oggigiorno questa intensificazione del tempo di lavoro è sotto gli occhi di tutti, così come lo sono i suoi effetti: burn out, dipendenza dal lavoro, esaurimento, presenteismo ecc. Perché i professionisti si autoimpongono questo flagello?
In primo luogo perché sono mossi da una competizione interna: per continuare a far parte dell’élite il professionista si deve dimostrare migliore degli altri, alzando così l’asticella delle prestazioni e del tempo che queste richiedono. In secondo luogo, l’élite deve far fronte alla concorrenza esterna dell’esercito di riserva costituito dalla moltitudine precaria istruita. Assistiamo allora a un processo di trinceramento: per mantenere il proprio potere, anch’esso precario date le sue lotte intestine, l’élite professionale è costretta a estendere questo potere, colonizzando una quantità sempre maggiore di occasioni lavorative.
Si potrebbe dire che per i professionisti, in seno al tempo di lavoro si insinua un’altra categoria temporale, quella del tempo di riproduzione professionale, ovvero il tempo investito per preservare il proprio ruolo nell’organizzazione diffusa.
Come esempio concreto porto la mia esperienza personale nell’ambito dell’insegnamento. Sia io che i miei colleghi, avendo solo incarichi temporanei e temendo che si esauriscano in futuro, siamo spinti ad accumulare quanti più «lavoretti» possibile, impedendo di fatto l’accesso a chi non è già immesso nel sistema. In tale dinamica, che si configura come winner-take-all, laddove non c’è dubbio che i perdenti siano tali, i vincitori lo sono solo marginalmente: in costante allerta e affetti da FOMO di opportunità.
A chi non rientra nell’élite vengono riservate quelle attività che essa mira a esternalizzare, ovvero il lavoro di riproduzione, ciò «che può essere fatto da chiunque»: lavare i piatti, fare la spesa, pulire la casa ecc. Ma siamo sicuri che il lavoro che può essere fatto da chiunque – e che tradizionalmente è stato svolto dalle donne – corrisponda oggi al mero lavoro di riproduzione?
L’attuale realtà della gig economy esprime una struttura di outsourcing più ampia e variegata: anche la trascrizione manuale dal cartaceo al digitale può essere svolta più o meno da chiunque, così come, ad esempio, l’inserimento dati in un foglio Excel. Lo stesso Gorz parla di «banalizzazione delle competenze». Al pari del lavoro di riproduzione, queste mansioni si delegano sia per evitare il loro tedio intrinseco che per guadagnare tempo, perché oltre un certo limite il tempo libero non basta più e tocca ingegnarsi per «liberarne» ancora. Si potrebbe dire che per i professionisti, in seno al tempo di lavoro si insinua un’altra categoria temporale, quella del tempo di riproduzione professionale, ovvero il tempo investito per preservare il proprio ruolo nell’organizzazione diffusa.
«L’ineguale ripartizione del lavoro della sfera economica e l’ineguale ripartizione del tempo liberato dall’innovazione tecnica, fanno sì che [degli strati privilegiati della popolazione] possano acquistare un supplemento di tempo libero dagli altri, e che questi siano ridotti a mettersi al servizio dei primi. Questa stratificazione della società è diversa dalla stratificazione in classi. A differenza di quest’ultima, essa non riflette le leggi immanenti al funzionamento di un sistema economico le cui esigenze impersonali si impongono tanto ai gestori del capitale, agli amministratori di imprese, quanto ai salariati; per una parte almeno dei prestatori di servizi personali si tratta ora di una sottomissione e di una dipendenza personale nei confronti di coloro che si fanno servire. È la rinascita di una classe servile, che l’industrializzazione, dopo la seconda guerra mondiale, aveva abolito.»
Arriviamo qui a un nodo cruciale. Gorz ci dice che ordinare una pizza a domicilio tramite Deliveroo o ingaggiare un addetto alle pulizie per mezzo di Helpling non vuol dire acquistare un servizio bensì comprare – generalmente a basso costo – il tempo di un altro individuo al fine di liberare il proprio. Il fatto che il lavoro mediato da piattaforma sia strutturato (benché comunque precario e on-demand) non ne cambia la natura. Si tratta, secondo Gorz, di lavoro servile. L’espressione che usa il filosofo rischia di offendere chi questo lavoro lo svolge, ma come vederemo in seguito il mascheramento della qualità servile del lavoro fa parte dell’ideologia del vero centro di potere, quella microélite tecnica che tiene le redini delle piattaforme. Creatori di astrazione li chiama Franco «Bifo» Berardi.
Il lavoro servile mediato da piattaforma è economicamente razionale a livello individuale (in particolare di chi compra) ma non a livello sociale. Costerebbe meno, socialmente parlando, recarsi a piedi presso la pizzeria più vicina o pulirsi casa da soli. L’infrastruttura messa in piedi dalle piattaforme è dispendiosa da vari punti di vista. Innanzitutto quello temporale: come precisa Gorz, il lavoro servile costa più tempo a chi lo svolge che a chi questo lavoro lo delega. Prendiamo il caso dell’addetto alle pulizie che investe, oltre al tempo effettivo di lavoro, anche quello per recarsi nel luogo di lavoro, una quantità ulteriore di tempo che il padrone di casa non avrebbe bisogno di spendere. Vanno considerati poi i consumi di trasporto e quelli di gestione dell’apparato digitale.
La classe servile, ricorda Gorz, non è una vera e propria classe perché a produrla non sono le dinamiche impersonali del sistema economico. Che cos’è dunque? Prendiamo come riferimento la gig economy per provare a inquadrarne più in dettaglio la composizione. Il Sindacato networkers riporta che i mestieri precedenti dei gig worker sono tra i più disparati: «Si va dal muratore al consulente per aziende in remoto, dal pizzaiolo all’ex impiegato di una multinazionale all’estero, dal pasticciere al grafico.» Nel 2019 si sono aggiunti «il sociologo, il lavoro nei call center, il pubblicitario, la babysitter, lo stock trader, il magazziniere, il cameriere, l’operatore socio sanitario, il responsabile marketing e la copywriter.» Non si fatica a immaginare che una percentuale dei gig worker abbia fatto parte o ambisca a far parte dell’élite professionale. I due poli sociali sono porosi. Qualche tempo fa Repubblica intervistava una laureata in architettura che, non essendo pagata dallo studio di ingegneria per cui lavorava, si era impegnata nelle consegne tramite Foodora, compagnia poi venduta a Glovo.
In alto, la microélite della tecnoastrazione; in basso, in lotta fra loro, una cerchia professionale instabile e una classe servile altamente frammentata, tra aspirazioni attutite e paraschiavismo sommerso.
Non va però dimenticato che una parte dell’esercito dei ciclofattorini è composta da migranti che non si interfacciano direttamente con la piattaforma, bensì con degli intermediari che subappaltano gli account dei vari Deliveroo, UberEats, Glovo, Just Eat. Questa manodopera riceve a volte la metà della cifra visualizzata sull’app. In tal senso la classe servile si confronta con il paraschiavismo del caporalato digitale.
Possiamo a questo punto riformulare le categorie gorziane: in alto, la microélite della tecnoastrazione; in basso, in lotta fra loro, una cerchia professionale instabile e una classe servile altamente frammentata, tra aspirazioni attutite e paraschiavismo sommerso. In realtà, lo stesso Gorz fa riferimento all’instabilità della cerchia professionale, in quanto considera i suoi membri «lavoratori illimitatamente intercambiabili».
«Governi conservatori e persino sindacati legittimano e favoriscono questa formidabile regressione sociale col pretesto che essa permette di «creare posti di lavoro», o addirittura che i servitori aumentano il tempo che i loro padroni possono dedicare ad attività altamente produttive, dal punto di vista economico. Come se gli esecutori dei «lavoretti» non fossero anch’essi capaci di svolgere attività produttive o creative; come se coloro che si fanno servire fossero esperti e creatori insostituibili lungo tutto l’arco della loro giornata; come se non fosse l’idea stessa che si fanno della loro funzione e dei loro diritti a sottrarre le possibilità di inserimento economico e di integrazione sociale ai giovani chiamati a portar loro i cornetti caldi, il giornale e la pizza a domicilio; come se, infine, la differenziazione delle mansioni economiche esigesse un grado di specializzazione tale che la società debba necessariamente stratificarsi in una massa di esecutori da una parte, e dall’altra in una classe di tecnici chiamati a prendere le decisioni, insostituibili, sovraccarichi di lavoro, che hanno bisogno, per adempiere al loro compito di un nugolo di aiutanti al servizio della loro persona.»
Gorz si scaglia contro l’idea secondo cui quelli che lui già chiama lavoretti siano socialmente utili, a suo parere falsa, così come lo è la retorica della creazione di posti di lavoro. Il riferimento del filosofo ai giovani fa pensare all’impianto propagandistico della gig economy: ci viene detto che i lavoretti sono dinamici, divertenti, in qualche modo adatti a una forza-lavoro giovanile, ma sappiamo che in realtà non è così. Secondo il Sindacato networkers « gig worker italiani sono principalmente uomini (73,6%) e sono perlopiù giovani (18-34 anni, 53%) ma con una quota in crescita di over 50 (16%) rispetto ai risultati del 2017. Cresce, seppur di poco la fascia di età 35-50 anni: rappresentano il 31% dei rispondenti.» Gorz spiega inoltre che l’élite professionale si sforza di produrre e promuovere la propria necessità e insostituibilità, allo scopo di perpetuarsi. Fa, insomma, ciò che ogni gruppo dominante aspira a fare: egemonia.
Riprendendo la nostra categorizzazione tripartita, possiamo dire che la microélite della tecnoastrazione produce sia la narrazione che la autolegittima (il digitale che «rende il mondo un posto migliore»), sia quella trasmessa dalle piattaforme di gig economy, che non fanno altro che fondere le due categorie gorziane originali, travestendo di professionalismo la classe servile. Le piattaforme fanno del gig worker un imprenditore: autonomo, padrone del suo tempo (solo in apparenza) e del suo corpo, sul quale grava il rischio carnale d’impresa, che si misura non tanto in perdita di capitali quanto in incidenti sul lavoro e disturbi psichici e fisici. Tale camuffamento va oltre la retorica. Come spiega Lorenzo De Lellis su Jacobin, «i lavoratori che operano all’interno di queste piattaforme vengono sempre inquadrati come collaboratori autonomi, in modo da eliminare gli oneri contrattuali e previdenziali a carico delle aziende.» Non solo: come si evince da mercati online per freelancer come Fiverr, anche chi compra il lavoro, questa specie di micro-manager ad interim, viene raffigurato come un imprenditore libero, iperoccupato, ultrafocalizzato sulla sua missione.
Nel suo Counterproductive (2019) Melissa Gregg descrive il trauma che deriva della «morte della segretaria», ovvero la semi-estinzione di quel tropo cinematografico leggendario del manager inseguito da una torma di assistenti donna che con l’agendina in pugno si occupano di tutto ciò che egli ritiene secondario, di tutto ciò che può essere svolto da chiunque non sia lui. Fiverr ci ricorda che il lavoro della segretaria così inteso non è scomparso bensì si è democratizzato, frammentato e specializzato mentre il suo costo si è abbassato drasticamente.
Intanto la cerchia professionale instabile fa quel che può per restare dov’è, ovvero prova a convincere se stessa e gli altri che il traballante posto nel mondo che temporaneamente occupa sia legittimo. A differenza della microélite, che recita la sua profezia autoavverante da una posizione egemone, la cerchia professionale lo fa dal ciglio del burrone. La prima è conservatrice, la seconda è reazionaria.
I creatori part time abitano i ranghi della classe servile a fasi alterne: giornalisti che lavorano al bar nei weekend, studenti che sbarcano il lunario facendo traduzioni online, artisti che fanno i babysitter.
Gorz critica aspramente la divisione tra una casta di creatori insostituibili e una massa di servitori perenni. Ponendo lo sguardo sul ceto medio impoverito vediamo che le cose non stanno proprio così: i creatori part time abitano i ranghi della classe servile a fasi alterne: giornalisti che lavorano al bar nei weekend, studenti che sbarcano il lunario facendo traduzioni online, artisti che fanno i babysitter, e via dicendo. Inoltre essi stessi, appena possono, attingono ai servizi alla persona (per esempio una cena a domicilio) per guardagnare più tempo di riproduzione professionale.
Abbiamo detto che il tempo sociale investito nei servizi alla persona non arricchisce la società; che dire allora del lavoro dei creatori part time? Piuttosto che scoperchiare l’annosa questione del lavoro produttivo e improduttivo, mi limito qui a citare Raffaele Alberto Ventura che, nel recensire La società signorile di massa di Luca Ricolfi, descrive così la dimensione tragica di questi signori-creatori: «la nostra classe media è improduttiva anche quando lavora».
«Certo, l’esistenza di una classe servile è meno evidente oggi di quanto non lo sia stata nelle epoche in cui le classi agiate mantenevano in pianta stabile una numerosa servitù: questa, nei censimenti britannici (alla voce «domestici e servitori personali»), tra il 1851 e il 1911 rappresentava il 14 per cento della popolazione attiva. Oggi i servizi alle persone sono in gran parte socializzati o industrializzati: la maggioranza dei servitori è occupata in imprese di servizi che noleggiano ai privati la manodopera che sfruttano (una manodopera precaria, occupata a tempo parziale, pagata a prestazione). Ma ciò nulla toglie al fatto che si tratta di un lavoro da servitori, vale a dire di un lavoro che coloro che guadagnano bene trasferiscono, per il proprio vantaggio personale e senza aumento di produttività sociale, su coloro per i quali non c’è lavoro nell’economia.»
Le imprese di cui parla Gorz sono state parzialmente sostituite dalle piattaforme, facendo del lavoratore atomizzato un’impresa di sé, favorendo la prototipazione rapida di carriere, singolarizzando i rapporti col cliente tramite interfaccia. La cerchia professionale instabile si è in qualche modo fusa con la classe servile, che prova a professionalizzarsi esternalizzando internamente parte di ciò che a essa è stato delegato. Entrambe «guadagnano bene» solo di rado. Che forma ha questo processo? La configurazione piramidale proposta da Gorz è fin troppo rassicurante. Le traiettorie verticali, orizzontali e diagonali dell’outsourcing ad personam dissipano il tempo sociale lasciando l’impronta indecifrabile della soggezione.
Presentazione preparata in occasione dell’evento Benzina sul Fuoco, curato dalla Scuola Open Source e tenutosi presso Spazio Murat, Bari, il 19 dicembre 2019. L’autore ringrazia gli scambisti per il loro #.