Filosofia per body builders

In difesa di Narciso, per riscoprire la Grande Salute e l’arte della liberazione totale

Quei pochissimi che mi conoscono ‒ o che di me hanno una seppur vaga memoria adolescenziale ‒ sanno che il mio obiettivo è, da sempre, dar vita a una scrittura muscolare, a un discorso nietzschianamente capace di «filosofare con il martello». Malauguratamente, in questi ultimi giorni, sono di ritorno da un esilio trentennale, risalente all’era antidiluviana della mia prima pubblicazione, The Search for Absolute Fitness (1991). Dico «malauguratamente» giacché mai avrei osato sporcare ancora una volta il mio spirito con la scrittura, se non fosse stato per la condizione estremamente gravosa nella quale oggi versa l’Occidente. In questo lungo periodo di tempo, ho risolutamente disprezzato la scrittura e in particolar modo la scrittura virtuale ‒ dedicandomi unicamente al bodybuilding e alla lettura ‒ ben conscio, tuttavia, che, un giorno, sarebbe giunto ancora una volta il momento di tornare sul campo di battaglia, per affrontare nuovi nemici. 

Mai ho avvertito con tale urgenza il desiderio di tornare a una scrittura impersonale e sferzante. Un ritorno che, d’altronde, ho percepito come necessario, essendo stato stimolato da una serie di gravi affronti alla millenaria cultura mediterranea ‒ l’unica erede di una linea di sangue che affonda le proprie radici nell’età dell’oro, epoca della mitica Shangri-La. E se Shangri-La, in tibetano, significa «passo montano», è perché è giunta ancora una volta l’ora di valicare le vette, infondendo nuova linfa vitale in ogni uomo e in ogni donna liberi. 

La liberazione totale è la volontà di quest’epoca, il nostro destino e il nostro cammino. Il cielo è l’unico limite di questo furibondo assalto ‒ quale tragica ironia, per un pianeta intrappolato all’interno delle sue stesse viscere cavernose. 

Nel corso di alcune recenti letture, ho avuto modo di osservare il decadimento e il progressivo sfaldamento dell’arte etica. Pur ritrovandomi in accordo con il moderno paradigma pragmato-antropologico ‒ sintetizzabile a grandi linee nel motto: «l’etica non è null’altro che ciò che si fa» ‒ ho ancora oggi grandi problemi, a discapito dell’età avanzata, a scrollarmi di dosso il mio retaggio greco e, in particolar modo, quello slavo. Sebbene i grandi maestri del passato ci abbiano insegnato che l’etica non deve essere in alcun modo becera morale pretesca, né mero formalismo in salsa universale, essa dovrà pur presentare un qualche contenuto positivo. 

Tale contenuto positivo corrisponde, all’interno di una cultura fiorente, al «bene». Tal bene, a sua volta, non indica un bene astratto ‒ un bene «a venire» o un bene «superiore» ‒ ma ciò che «fa bene»: una «grande salute», in grado di dischiudere le potenzialità latenti del cosmo e dell’individuo, e di fortificarne i caratteri attivi, attraverso un sottile gioco di eccessi esplosivi e ritenzioni strategiche. Tale principio fu denominato da Nietzsche «Volontà di Potenza», ed è il medesimo principio che guida l’educazione classica, la strategia militare, la disciplina esoterica, il Dao della meditazione e l’allenamento fisico. 

Fu mentre riflettevo intensamente su questo semplice assioma di matrice classica ‒ assorto come un Atlante su manubri e bilancieri ‒ che, nel giro di qualche anno, il mondo attorno a me decise che l’etica sarebbe dovuta essere morale («fai al prossimo tuo etc, etc…») o, peggio ancora, mediocritas, moderazione, equilibrio, morigeratezza. Se l’essere umano non è che una corda tesa tra la scimmia e l’oltreuomo, allora il filosofo etico contemporaneo è un equilibrista, un maestro dello stallo, dell’asta e della rete. Come l’equilibrista, prima o poi, l’etico si sfracellerà al suolo, mancando tragicomicamente la sua rete protettiva. Ridestandomi dallo stato di torpore onirico nel quale ero caduto, mi accorsi che l’etico, il moralista e il politico avevano stretto una sordida alleanza, ideata, per Zos!, al fine di condannare il corpo e la sua sublime rappresentazione artistica. 

La guerra di trincea dell’equilibrista era divenuta, al tempo stesso, una guerra umbratile, una guerra dell’adombramento del corpo, fondata sulla regolazione delle immagini e su una rigida disciplina tessile. Il corpo nudo fu proclamato corpo osceno, corpo-senza-mente, cadavere bestiale ‒ e nessuno ebbe di che obiettare; il corpo vestito, il corpo nascosto, il corpo-con-cravatta (ridicolo residuo tribale), fu giudicato «buono»: un corpo infiocchettato da un bel cappio, già pronto per la forca. E nessuno ebbe di che obiettare. 

Tra tutti i soldati di questa guerra stazionaria, uno tra tutti ha attirato la mia attenzione: Simon Blackburn, filosofo inglese e autore del recente Mirror, mirror: The uses and abuses of self-love (tradotto in italiano con il titolo Specchio delle mie Brame. Pregi e Difetti del Narcisismo, Carbonio 2019), un’opera che riassume, e per certi versi rilancia, tutta la produzione etico-estetica occidentale dell’ultimo secolo. Ho perciò deciso di affrontare Blackburn in un corpo a corpo, selezionando e commentando, con estremo pregiudizio, alcuni ingranaggi della sua macchina da guerra letteraria.

Cominciamo dal più sprezzante e insignificante giudizio espresso all’interno di questo libro, inaugurato da una narrazione al tempo stesso estremamente banale ed estremamente classica: il mito di Narciso. «Narciso», scrive Blackburn, «era una figura ridicola e dannata, che simboleggiava la natura altrettanto ridicola e dannata dell’amore di sé» (pag. 60). Come la maggior parte degli europei ben sa, Narciso è il meraviglioso protagonista di un celebre mito greco: un giovane che, avendo rifiutato ogni spasimante ‒ dal delicato Aminia, alla ninfa Eco ‒ e avendo negato e tradito la componente erotica della vita umana, venne condannato dagli dei a struggersi e a consumarsi nel proprio riflesso, sedotto dalla sua stessa, irraggiungibile bellezza. Che si possa trovare di che ridere e di che consolarsi, che si possa addirittura rinvenire del «patetico», nella morte di Narciso ‒ un fanciullo innocente, ingannato e condotto alla follia dalla vendetta divina ‒ è sintomo di una miseria spirituale che sconfina nella povertà assoluta.

Narciso non è in alcun modo una figura ridicola, tanto meno comica, ma un personaggio tragico, un eroe che risplende per purezza e risoluzione. Vi è molto di più in questa storia di una semplice ingiunzione a rispettare scrupolosamente il no nut november, rifiutando ogni tentazione della carne. Di fatto, tramutandosi nel fiore che oggi porta il suo nome, Narciso è destinato dagli dei a disperdersi in quello che Freud denominò «narcisismo primario»: un amore di sé e un egoismo illimitato che contraddistinguono, in primo luogo, il mondo naturale (o, meglio, il mondo inumano, non antropomorfo): una dimensione grezza e incosciente quanto la psiche dell’infante freudiano ‒ un mondo selvatico, che nulla sa né di sé né della morale umana, nel quale «la rosa fiorisce senza un perché»

Nel mito greco, la trasmutazione vegetale ‒ ossia l’assorbimento nello strato meramente «desiderante» e incosciente del cosmo ‒ non rappresenta una punizione, nel senso più comunemente accettato oggigiorno, ma il più elevato dei riconoscimenti.

Nella violenta sentenza di Blackburn riecheggiano secoli e secoli di etica moderna, avvolti da un viscido strato di superficialità e connotati da un’assoluta incapacità di leggere tra le pieghe del mito. Per Zeus! Questo si che mi fa infuriare!

Bisogna tenere bene a mente che, nel mito greco, la trasmutazione vegetale ‒ ossia l’assorbimento nello strato meramente «desiderante» e incosciente del cosmo ‒ non rappresenta una punizione, nel senso più comunemente accettato oggigiorno, ma il più elevato dei riconoscimenti, un vero e proprio dono da parte degli dei, un avvenimento universale e al tempo stesso universalizzante, capace di fare da contrappeso alle ingiurie del destino. L’eroe, che sia un uomo, un dio o un animale, riceve, nell’istante stesso della sua morte, un solenne tributo: una costellazione, una stella, una pianta o un altra entità similmente «impersonale» verrà battezzata con il suo stesso nome ‒ un evento che fa sì che l’oggetto in questione riceva le medesime proprietà etiche ed estetiche del defunto. 

In un certo senso, il valore dell’eroe si tramuta in valore condiviso, in una serie di qualità delle quali l’Essere stesso conserverà eterna memoria.

Sarà proprio questo fraintendimento, questa cecità essenziale, a dare inizio a una lunga catena di «malintesi» ‒ ambiguamente interpretabili come fiotti di veleno e risentimento diretti alla bellezza, all’orgoglio e alla salubrità del corpo. La critica di Blackburn, d’ora in poi, non farà che estendere la condanna di Narciso a ogni corpo, a ogni chioma, a ogni fibra muscolare ipertrofica. Ecco il filosofo come trickster o, meglio, come complice del crimine divino. Guardatelo, guardate come è tronfio e pieno di sé, mentre spinge la testa di Narciso sott’acqua. Ahilui! Non ci resta che compiangerlo: il linguaggio del corpo gli è ignoto, mentre quello delle lettere e delle parole ‒ delle formicole che percorrono le pagine ‒ gli appare chiaro ed evidente. Tuttavia, è proprio qui che egli commette la sua più grave fallacia, giacché il discorso stesso pare sottrarglisi, ritraendosi al suo sguardo lascivo e tradendolo laddove meno se lo aspetterebbe. 

Ma procediamo verso un nuovo frammento, senz’altro capace di rischiarare il senso delle mie parole, le quali potrebbero altrimenti apparire eccessive: «La modella, come la star di Hollywood, ai nostri occhi è su un piedistallo, in parte perché è su un piedistallo anche ai suoi stessi occhi (in questo capitolo parlo come se interpreti e clienti di queste pubblicità fossero soltanto donne. Ma naturalmente il discorso vale anche per gli uomini. Anzi, i modelli delle pubblicità di intimo maschile, per esempio, esibiscono quasi sempre un narcisismo disgustoso». (pag. 61, corsivo mio)

Cosa ci sarebbe di «disgustoso» nel mostrarsi, nel guardarsi allo specchio, nel mettersi in posa, nell’esibire il proprio corpo ‒ questo corpo che è origine e sorgente di ogni esperienza? Non si tratta forse di qualcosa che solo chi non si è mai mostrato, chi non ha mai esibito il proprio corpo e il proprio spirito, potrebbe avere il coraggio di affermare? Quanta menzogna, quanto risentimento, quanta vigliaccheria in questo minuscolo brandello di testo. Mi accorgo solo ora che non vi è modo di inculcare nelle zucche di certi soggetti il profondo significato della «posa» ‒ nonché l’antico legame che intercorre tra la scultura, la fotografia, il cinema e il corpo  effettua tali pose. 

Più avanti, lo stesso Blackburn è costretto ad ammettere, tra le righe, il totale fallimento della sua «etica delle virtù» (anzi di tutta l’etica della virtù, così stimata dagli anglosassoni, gli autoproclamatisi neoellenici). Tale ammissione fa capolino all’atto di rimarcare l’ovvio: «[La/Il modella/o] riesce a sorridere glaciale, tra sé e sé, per il piacere di essere ciò che è» (pag. 61). Ma vi è forse qualcosa di più semplice, immediato e totalizzante di questa sensazione? Qualcosa che sia, in maggior misura, capace di farci sentire pienamente vivi? Quante volte, durante il giorno, accade che il kairos ci baci sulla fronte, facendoci dono di questa divina euforia ‒ gelida come il marmo e calda come un raggio di sole? Ben poche, purtroppo, miei dudi.

Questi novelli Adoni e queste novelle Afroditi, tuttavia, non conservano la stoica e granitica moderazione della scultura classica; si tratta, piuttosto, di creature ascese (o, meglio, discese) a un piano demoniaco ‒ mimic ipertrofici, raggelanti Meduse.

Se c’è qualcosa che i francesi mi hanno insegnato, è che il modello e la modella (sia statuari che fotografici e videografici), dovrebbero esser definiti in quanto «soggetti sprezzanti», ossia proprio in quanto soggetti intenti a osservare dall’alto in basso ‒ dalla vetta di un piedistallo, tanto materiale quanto estetico e spirituale ‒ il loro stesso osservatore. La loro peculiarità sta, di fatto, in un’enigmatica impermeabilità al giudizio etico-estetico: non si può in alcun modo affermare che siano «belli» nel più comune senso di questa parola (sarebbe a dire che non sono belli come una bella ragazza, né belli come un quadro o un film); d’altra parte, non è neppure possibile affermare che essi siano in qualche modo «brutti». È proprio il loro «essere-in-posa», lo stare su un piedistallo, a configurarli come soggetti sprezzanti, irraggiungibili dal giudizio dei mortali, avvolti (come nota Peter Sloterdijk nel suo Devi Cambiare la Tua Vita) in un’aura sacrale, essa stessa corrispondente a un giudizio ultraterreno, diretto stavolta all’osservatore. 

Questi novelli Adoni e queste novelle Afroditi, tuttavia, non conservano la stoica e granitica moderazione della scultura classica; si tratta, piuttosto, di creature ascese (o, meglio, discese) a un piano demoniaco ‒ mimic ipertrofici, raggelanti Meduse, furiose baccanti anoressiche e sublimi dionee antropomorfe. In tali esseri, al contempo inumani e sovrumani, si ravvisa un’istintiva affinità con il sublime e, di conseguenza, una certa parentela con la scena primaria del mondo non umano. Dal sentimento del sublime tali creature mutuerebbero la facoltà di spazzare via l’osservatore con uno sguardo, o con un gesto misurato, fagocitandone l’ego e smembrandone l’identità costituita; a sua volta, tale capacità promanerebbe dal desiderio che esse sono in grado di suscitare nello spettatore. Queste creature non corrispondono tanto a Narciso, quanto al suo riflesso trascendente ‒ una trascendenza feroce e vorace, più affine alla dispersione di sé, o all’autodistruzione, che alla mera ascesi. 

Così come l’atleta greco si annientava nell’estasi contemplativa della perfezione scultorea, allo stesso modo lo spettatore moderno depone il proprio Io, ammettendo la propria sconfitta dinanzi al trono della bellezza e della seduzione. Avendo abbandonato il bronzo, il marmo e il granito, la bellezza ha deciso di abitare le effimere regioni del corpo, dell’immagine fugace, dei dati e dei flussi informatici. Non vi è perciò alcun motivo di rimpiangere la gloria del vecchio Fidia: la potenza fluisce e transita, dislocandosi costantemente ‒ questo è il primo principio della grande salute. 

Oltre a essere creature «mostruose» e terribilmente pericolose, il modello e la modella sono, al tempo stesso, soggetti totalmente innocenti, quasi virginali. L’impossibilità del giudizio da parte dell’osservatore si accompagna, infatti, a una paradossale impossibilità di sessualizzare l’oggetto del desiderio. È facile accorgersi di come la sessualizzazione della modella o del modello, della «stella» o del personaggio pop, si accompagni ogni volta a un’intollerabile volgarizzazione, a quella che parrebbe presentarsi come una vera e propria profanazione. Tale è il senso di vertiginosa nausea che proviamo dinanzi ai deep fake prodotti dalla rete. 

Negli ultimi decenni, l’immagine «iperreale» ‒ l’oggetto seducente e mortifero ‒ riprodotto sugli schermi, nei film, nei video musicali e in particolar modo nelle pubblicità, capace di negare l’imperfetta e limitata vitalità del suo omologo reale, si è tramutata nella nemesi del critico culturale e del moralista (riuscendo a unire nel medesimo, aberrante coro indignato, filosofi radicali quali Debord e Baudrillard, tetri Savonarola e fanatici anti-degrado). Ben pochi ‒ a parte, forse, i fantomatici «accelerazionisti» ‒ si sono spinti così in là da giungere ad abbracciare l’oggetto estatico, accompagnandolo alla ricerca di una verità mondana e immanente. «Vieni mio caro biscotto del mulino, testiamo la purezza dei tuoi ingredienti e la consistenza dei tuoi valori nutrizionali», dice il pensatore della scommessa e del pericolo, «raggiungimi, apollineo indossatore di pregiato intimo maschile, disperdiamo la nube di raffazzonature digitali che ammanta i tuoi glutei; è “o te o me”, solo uno verrà proclamato vincitore, mentre l’altro brucerà tra le fiamme del disprezzo e dell’oblio». 

 

Una statua di Narciso in tipica posa da bodybuilder

Il gioco atletico sta tutto nell’etica della prova e dell’agone ‒ un’etica che si proietta al di là del bene e del male, al di là di ogni giudizio. Tale concetto, per quanto semplice, è difficile da digerire, almeno quanto il dannato biscotto del mulino, e in particolar modo quando si è stati educati fin dalle fasce alla remissione e alla vigliaccheria.

Scrive Blackburn: «Acquistando il prodotto – è questa la sussurrata promessa – possiamo superare le nostre reciproche dipendenze quotidiane e ascendere insieme a sovrani e dèi a un luogo superiore, dove anche noi possiamo permetterci di ignorare il gregge sottostante». (pag. 61) Questo, invero, significa guardare il dito anziché la luna. Si tratta di una truffaldina operazione di scambio semiotico (il cosiddetto «pacco», trasposto nel reame della filosofia), curiosamente corrispondente all’obiettivo stesso del marketing: il corpo statuario è difatti il medium, l’operatore simbolico, capace, in virtù di un mero accostamento estetico, di trasferire le proprie qualità sovrumane alla merce. Solo il mediocre, il pecorone del gregge, potrebbe cadere in un simile tranello ‒ come il marketing suppone che debba accadere, d’altronde. 

All’inverso, nel vedere un corpo statuario offrirsi alla sublime dinamicità del gesto (la posa), il pensatore classico non vedrebbe un corpo osceno, carnalmente erotizzato, né, d’altra parte, vedrebbe la merce; egli rammenterebbe altresì la lezione della dolce Diotima: l’ammirazione erotica per un corpo sublime è il primo gradino di una scala che conduce all’erotizzazione dell’«idea» di quel corpo. Quel corpo non è un pezzo di carne ‒ un corpo che è al tempo stesso un cadavere, o la vittima di una «piccola morte» ‒ esso è l’immagine sensibile della grande salute, di ciò che bramo al di sopra di ogni altra cosa.

Dalla sua ignobile posizione di spettatore passivo e, nel medesimo istante, di soggetto passivo divenuto spettatore, il cucco moralista lamenta la perdita della reciprocità, del rapporto e delle relazioni umane ‒ sopraffatte dall’economia delle immagini e dall’imperio dell’immagine estatica. Ciò che egli non può in alcun modo sopportare è che il soggetto estatizzato ed estetizzato ‒ il soggetto tramutatosi in oggetto del desiderio, in qualcosa di totalmente inumano ‒ non abbia null’altro da offrire se non la la morte: la morte di quel soggetto larvale, così inferiore e così incompiuto, che è lo spettatore. Lo sprone del soggetto sprezzante è a divenire in prima persona un’opera d’arte, abiurando ogni passività.

Vale la pena di rammentare l’analista del potere per eccellenza, il quale non mancò di evidenziare gli aspetti erotici e auto-erotici della cura di sé: «La ginnastica, l’esercizio, il bodybuilding, il nudismo, la glorificazione delle beltà corporee. Tutto ciò appartiene al cammino che conduce al desiderio nei confronti del proprio corpo». (Michel Foucault, Power/Knoweledge: Selected Interviews, Colin Gordon 1980, pag. 56, traduzione mia.)

In un momento di abbacinante cineseria, Blackburn ci rammenta che «nei momenti di lucidità, senza dubbio dubitiamo di noi stessi quanto basta per non essere sicuri di valere» (pag. 61). È proprio questo, a mio parere, il più grande e più tragico errore di quest’epoca di viltà. A quanti compromessi siamo scesi? Quanto ci siamo sviliti? Ci siamo abbassati al punto da toccare terra con le ginocchia. Quanto tempo abbiamo perso a curare i guadagni dei nostri padroni, anziché il nostro corpo, il nostro piacere e la nostra salute? «Devi cambiare la tua vita!», scriveva un celebre poeta:

il torso
[…] arde come un candelabro
dove il suo sguardo, solo indietro volto,
resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti
la curva del suo petto e lungo il rivolgere
lieve dei lombi scorrere un sorriso
 fino a quel centro dove l’uomo genera.

La bassezza del gregge degli schiavi traspare chiaramente dal seguente passo, schiumante di rancore: «L’altezzosità della modella la protegge dal bisogno di compromessi e servilismi, dal bisogno di fare la simpatica con gli altri, o di dipendere dalla loro buona opinione. Non è neanche che abbia pietà di noi in quanto inferiori. È piuttosto che non riesce a concepire l’idea di essere difettosi, dipendenti e insicuri come noi». (pag. 62)

Non piangermi addosso, bruh, mi secchi la pelle… 

 

È a questo punto di svolta che l’indagine di Blackburn finisce per estendersi alla politica e all’arte del buon governo, come ci si aspetterebbe da ogni etica contemporanea, di ampio respiro sociale. «Viviamo in una società», dopotutto. È in quest’ambito che il narcisismo si fa orgoglio o, per dirla con il filosofo, hyubris: volontà di far a meno degli altri, di essere liberi nell’azione e nella parola. Il consiglio dello stoico, in questo caso, è: «mantieni il giusto mezzo ‒ non ampliare le tue abilità e la tua forza, bruh, sei un arrogante, bruh, ci fai piangere se fai così…vuoi davvero farci piangere?».

Questo insostenibile e incessante rant è tutto quel che resta del libro dal momento in cui Blackburn, facendo eco a un altro noto pensatore liberale, Bertrand Russell, prende in esame l’individuo etico ideale descritto da Aristotele nell’Etica Nicomachea: «L’uomo magnanimo accetterà onori solo dai grandi, ma disdegnerà quelli dei più comuni mortali; stimerà poco il potere e le ricchezze, ma pure qualcosa li stimerà, e il risultato è che potrebbe apparire arrogante. Non è amante dei pericoli, ma “li affronta per una grande causa, e ogni volta che li affronta non risparmia la propria vita, poiché non crede che sia preziosa ad ogni costo”. Fa del bene, ma si vergogna di riceverne. È inattivo e indolente, tranne quando ottiene qualche grande onore. È aperto e diretto, poiché segretezza ed evasività sono i trucchi di chi ha paura, e lui è libero dalla paura. Non è sottoposto a nessuno e non permette a nessuno, se non a un amico, di determinare il corso della sua vita. Non fa pettegolezzi; non si cura delle minuzie; e infine, dice Aristotele con gravità, si muove lentamente, ha una voce profonda e un modo di parlare calmo, “perché prende poche cose sul serio, non ha alcuna fretta e, siccome nulla considera grande, non alza mai i toni”». (pag. 134-135)

Per i due filosofi anglosassoni, un tale individuo, anziché apparire in ogni senso degno di stima ‒ ossia come una forma di vita auspicabile per chiunque ‒ non sarebbe altro che un «vanesio», un «pallone gonfiato» e un essere «insopportabile». In sostanza, tale individuo concettuale porterebbe su di sé lo stigma della «nobiltà di carattere» o, peggio ancora, di una nobiltà «di sangue» ‒ risultando penosamente non trasponibile nella nostra attuale società «egalitaria e democratica» (motivo per il quale ritengo che questo sia, in assoluto, uno dei momenti più divertenti e più ricchi di malintesi di tutto il libro). «La “nobiltà” non ha grande spazio nel linguaggio o nella società contemporanei», dice Blackburn, per poi domandarsi: «Se trasponiamo questo ideale nel nostro mondo, che cosa ne resta?». Sorprendentemente, la risposta lascia intendere che vi sia ancora un raggio di luce tra il marciume spirituale del mondo moderno: «Forse più di quello che ci aspetteremmo. Innanzitutto, questo ideale esige vera virtù. Esige anche una consapevolezza di tale virtù, o un certo grado di autocoscienza» (pag. 135-136, corsivo mio). È qui che siamo costretti a riconoscere a questo filosofo etico un grande sforzo di onestà intellettuale. 

«Le persone che si distinguono, come dice Aristotele, danno più importanza all’opinione dei loro pari che al plauso di chi non sa distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è. Sanno chi merita di essere ascoltato. E per arrivare dove sono, devono avere un occhio o un orecchio fine, capace di cogliere non solo i rari successi, ma anche moltissimi fallimenti. Tutto ciò implica fiducia in se stessi, ma non vanità.» (pag. 137)

 

Giungiamo infine al nocciolo della questione. Ciò che, in sostanza, il mio avversario elettivo ha perso di vista, è che la hyubris non consiste nel desiderio (cosciente, precosciente o dir si voglia) di elevarsi al di sopra degli altri ‒ attraverso la cura di sé, o per mezzo della ricerca spasmodica della libertà individuale. Tale agonismo, di fatto, è l’essenza stessa della socialità umana: un eterno circolo, nel quale la sfida e la cooperazione si alternano e si sovrappongono. Essa non si ritrova neppure negli antichi temi cristiani del «giudizio divino» o della «punizione divina», giacché non vi è nulla di morale nel sentimento tragico. La hyubris è, in breve, il desiderio di tuffarsi a capofitto nell’oceano delle delle sfide che lanciamo alla natura, alla legge e alla società ‒ un oceano «primario», nel quale nuotano i terrificanti squali delle conseguenze. L’eroe tragico non è fatto per essere giudicato, ma per essere ammirato e accompagnato rispettosamente verso la morte. Non vi è nulla di intenzionale né di volontario in questo desiderio, l’eroe tragico fa quel che dev’essere fatto. 

Quel che, oggigiorno, più colpisce dei politici e dei politicanti che funestano il mondo non è la megalomania, o la smania di popolarità, né la ricerca ossessiva del consenso, ma, all’inverso, l’aura di mediocrità, la loro agghiacciante bruttura e la palese mancanza di stile, eleganza e intelligenza.

Tuttavia, è proprio dal pensiero cristiano che Blackburn attinge per dar forma alla sua versione della hyubris ‒ né si potrebbe fargliene una colpa, giacché ciascuno di noi è stato inoculato con il verme. Scrive il filosofo etico: «L’orgoglio, nel pensiero cristiano, è spesso associato a un’illusoria fiducia nell’autosufficienza, il tentativo di considerarsi dotati della stessa indipendenza dal mondo e dagli altri che è propria solo di Dio […] Dimenticare questo concetto è all’origine di ogni male» (pag. 83). Dato il malinteso tra narcisismo, orgoglio e vanagloria, ne consegue che, in ambito politico, «l’incompetenza hyubristica», che Blackburn denuncia all’interno del libro, non sia fondamentalmente legata al narcisismo e all’espressione visibile di una perfezione, ma ‒ assai più banalmente – a una reale ed effettiva incompetenza. Quel che, oggigiorno, più colpisce dei politici e dei politicanti che funestano il mondo non è la megalomania, o la smania di popolarità, né la ricerca ossessiva del consenso, ma, all’inverso, l’aura di mediocrità, la loro agghiacciante bruttura e la palese mancanza di stile, eleganza e intelligenza. In fin dei conti, persino un auto-proclamato dandy quale Micheal Anton (uno dei più stretti collaboratori di Trump), non è che un banale burocrate malvestito, l’ennesimo colletto bianco dall’aspetto vagamente robotico. 

Se questi personaggi sono dove sono il merito è anche della stoltezza e della debolezza di chi ce li ha messi. Al contrario di quanto dice Blackburn, il male causato dagli individui inferiori è causato, a monte, proprio dalle nature ancor più basse e spregevoli che ne hanno permesso l’ascesa. Se la moltitudo è causa del proprio mal, che pianga se stessa. Per dirla con il Kant della Metafisica dei Costumi, citato, a un certo punto, dallo stesso Blackburn: «Chi si riduce a verme non può poi lamentarsi se viene calpestato» (pag. 126).

Eppure, a volte, il verme cessa momentaneamente di scavare, per strepitare e urlare, proprio come fa Blackburn, in preda a una straziante fitta di panico: «Come fanno quelle persone a guardarsi allo specchio, a camminare per strada? Non hanno alcuna decenza, per non dire alcuna empatia nei confronti di coloro che hanno derubato e che continuano a derubare?» (pag. 111). Così si interroga Blackburn, esterrefatto, dopo aver preso in esame alcuni interessanti dati riguardanti la ricchezza, nonché la percezione della ricchezza, da parte delle più facoltose fasce della popolazione occidentale. 

«Cosa li farà vergognare?», ci domandiamo anche noi. «Cosa farà rizzar loro i peli dietro la schiena? La moderazione? Un buffetto sulla guancia?». È lo stesso Blackburn a rendersi conto di ciò, chiosando con grande lucidità: «le persone in generale diventano simili ai loro politici, uomini senza luce interiore, uomini senza qualità» (pag. 194). È questa la condizione dalla quale l’etica della grande salute ci scuote con vigore.

Aria, aria fresca!… Qui si confonde il rame con l’oro più puro. Dobbiamo rammentare l’antica arte della liberazione totale, ricostruire in noi l’idea di un corpo umano, animale e vegetale sacro, totale e tendente alla divinizzazione. «Ogni individuo vale» (pag. 121), ammette Blackburn. Da parte nostra, tuttavia, ciascun individuo non vale in sé e per sé ‒ quasi vi fosse un comandamento che ingiunga di amare il prossimo tuo come te stesso! Dalla prospettiva della grande salute, il valore di un individuo, di un gruppo o di una comunità, è commisurato agli sforzi che egli mette concretamente in atto per aumentarlo ‒ un valore che non è mai astratto o simbolico, ma calcolato soppesando la potenza e l’efficacia dell’espressione individuale, nonché i benefici affettivi, esistenziali, intellettuali, economici e politici che promanano da tale espressione. Riusciranno i nuovi dei e le nuove dee a imprimere a tale valore le caratteristiche dell’Essere? In accordo con Aristotele, possiamo concludere che, ieri come oggi, ciò che contraddistingue l’essere superiore è la magnanimità e non la mera moderazione.