Gastroguerriglia

Una riflessione su fine dei tempi e regno del caos a seguito del tortellinogate

Ricordo tutto, come un marchio impresso a fuoco nello spirito. Nell’istante stesso in cui l’Occidente morì, piombando nel caos, ero assorto sul quinto sollevamento di una grande ruota di trattore ‒ fu solo dopo alcuni secondi che, controllando alcune notifiche su Facebook, mi avvidi con orrore di quel che stava accadendo. «Stanno cercando di cancellare la nostra storia, la nostra cultura», pervertendo il patrimonio enogastronomico e penetrando nelle più minute fibre della nostra tradizione millenaria, riducendola in cenere. In quel breve momento di pausa ‒ che ad oggi mi appare dilatarsi all’infinito ‒ tanto io, quanto l’intero mondo, apprendemmo della paradossale e oscena esistenza del «tortellino» al pollo. Per i mille cuccioli di Shub-Niggurat! Qualcuno doveva pur fare qualcosa, agire con determinazione e prontezza e perizia chirurgica. È per questo motivo che ho deciso di mettere da parte, almeno per qualche ora, i freddi manubri d’acciaio, e prendere la questione di petto ‒ di concedermi, per la prima volta nella vita, alla scrittura (alla scrittura di un J’Accuse, addirittura).

Ma cerchiamo di mantenere i nervi saldi, bruh! È innanzitutto necessario dare un contesto storico e filosofico all’intera faccenda. Partiamo dall’inizio: tra i settecento e gli ottocento anni fa, nasce il tortellino, il frutto di una leggendaria pulsione libidinale-ombelicale. Ogni cristiano conosce le origini peccaminose di questa prelibatezza regionale: il prodotto ossessivo, quasi-paranoico, di un concatenamento occhio-serratura-ombelico. Di fronte al tortellino, il buon cristiano sente riecheggiare nel sangue le eco degli antichi culti pagani di Afrodite, ne coglie le segrete implicazioni, nonché le sottili allusioni al «brodo» da cui la dea della lascivia sorse. Ma il tortellino è anche un osculum, una fauce pronta a inghiottire l’osservatore, trascinandolo nel vortice paranoide dal quale è nato, e al tempo stesso un oculus, un occhio che ricambia diabolicamente lo sguardo del Peeping Tom, rammentandogli le sue colpe. (Che Sartre si sia ispirato al lugubre vuoto di questo tenero anello di impasto?). È solo in virtù di un’autocoscienza penitente che, sempre il buon cristiano, decise di farcire la morbida e pallida sfoglia di carne di «porco» ‒ un ripieno tanto allegorico quanto concreto. Ad oggi, il buon cristiano, di fronte a un piatto di tortellini, dovrebbe sentire in gola, a ogni boccone, l’aspro sapore del peccato ‒ se solo vi fosse ancora sulla Terra un cristiano in grado di andare ai ferri conti con i propri peccati, anziché con quelli altrui. 

È per questo motivo che la deposizione della ricetta ufficiale del tortellino, avvenuta nel dicembre 1974, da parte della Dotta Accademia del Tortellino, ha tutto il sapore (scusate il gioco di parole) del dogma sacramentale ‒ non è forse l’amante del «vero» tortellino un peccatore, un cucco, un guardone e, in fin dei conti (parafrasando Pico della Mirandola), un «divin porco»? 

Lewd!

Ora, non fraintendetemi, personalmente non toccherei un tortellino neppure con la punta di una forchetta (7,23 grammi di grassi, dei quali circa 3,6 saturi, e 42 milligrammi di colesterolo per 100 grammi di prodotto!). Senza contare che mai e poi mai ingurgiterei le carni di altri esseri senzienti, come insegnano i più grossi e definiti lifter ellenici (ad esempio, Pitagora, come riferisce Diogene Laerzio in Vite dei Filosofi, VIII, §36; ma anche Empedocle, in D-K, 31, B136: «Onde, uccidendoli e nutrendoci delle loro carni, commetteremo ingiustizia ed empietà, come se uccidessimo dei consanguineo […] Non vedete che vi divorate reciprocamente per la cecità della mente?»; e non fatico a credere che anche il più grosso di tutti, Platone ‒ l’Arnold Schwarznegger dell’antichità ‒ coltivasse un’opinione simile, come riportato nelle Leggi, nel paragrafo nel quale si dibatte della mitica «Età Arcaica»). Al di là delle bieche metafore porcologiche (a colpevole onta di una schiatta di nobili e possenti creature), ciò che, in quell’istante di pausa, mi fece raggelare il sangue, fu la vista di una grande nube di polvere: la nube di tempesta sollevata dallo scalpitare del gregge al richiamo del pastore. Vidi allora, tra i turbini e il frastuono, un demagogo ‒ giacché «sofista» sarebbe un complimento o, meglio, un insulto agli antichi maestri della persuasione retorica ‒ un uomo-scarafaggio, un figlio-del-lievito, ergersi tra le rovine di Babilonia, lanciando merendine come granate sulla folla inerme. 

Dinanzi a un tale agghiacciante spettacolo, compresi a fondo l’etimo del termine «gastronomia» ‒ l’incontro tra il gastér, il ventre, e il nomos, ciò che è privo di tecnica, l’abitudine irriflessa o la mera opinione. Centinaia, anzi migliaia, ma che dico! Centinaia di migliaia di scarafaggi si avventavano, in preda a spasmi ventrali, su un cumulo di tortellini e prodotti raffinati, con quel misto di fame, gola e risentimento che contraddistingue tale specie. Soddisfatto di tal bolgia disumana, il loro signore si ritirava nel buio della sua tana sotterranea.

Che Zos Kia sia lodato! Se vi è qualcosa che mi fa più imbestialire del carnivorismo e della mediocrità, beh, quella cosa sono proprio le merendine. Per un lungo periodo ‒ senza contare l’immensa estensione temporale dell’Età dell’Oro ‒ la storia europea ha coinciso con una crociata contro il grasso superfluo, con un gioco alchemico volto alla gioiosa trasmutazione della massa corporea in massa muscolare, con un eroico tentativo di riconciliare i bicipiti di Apollo con gli addominali di Dioniso. Ne consegue che lanciare merendine sulla popolazione e parlare, come i ventriloqui, attraverso la pancia, sia un atto che dovrebbe essere legalmente equiparato a un attacco terroristico, a un affronto alla storia e alla cultura di un’intera civiltà transnazionale. 

Più di duemila anni fa, Socrate rimproverò al celebre oratore Gorgia di comportarsi come un bruto, ossia come qualcuno che, impiegando le parole come dei pugni o delle armi, fa violenza al prossimo (Gorgia, 449c-461b); e, giacché per un greco antico non vi era alcun «male» nell’esercitare liberamente la propria forza, egli rincarò la dose, equiparando tutti sofisti a dei «pasticceri», a degli imbonitori che finiscono per propinare ai propri clienti leccornie colme di grassi e zuccheri, costruendosi una fiorente clientela. Tuttavia, è solo in quest’epoca dominata da uomini-scarafaggio che il pastore ‒ con le sue corde, recinzioni e catene ‒ e il pasticcere ‒ l’araldo della dissoluzione del corpo e della spirito ‒ possono essere avvistati nella medesima persona. Il demagogo, «colui che guida il gregge», è il maestro assoluto della «psico-nomia», l’arte dell’individuare le abitudini, i riflessi condizionati e i vuoti sinaptici, che consente, al tempo stesso, di creare nuove abitudini, nuovi automatismi e nuove associazioni. Forse il demagogo, in cambio della sua arte, intasca ingenti somme di denaro da chi il pasticcere o il macellaio lo fa per professione, più che per vocazione (riuscite a immaginare un Kindergate? «C’è questa fabbrica di merendine, bruh! Dicono che sia da lì che controllano le menti delle persone…»). 

Chi mai vorrebbe essere un tortellino, un calzone o una merendina ‒ quale creatura potrebbe mai precipitare così in basso?». Forse solo la sfortunata creatura che sei diventato, bruh…

Che si distrugga ogni prodotto raffinato, che si liberino per le strade gli spettri tormentati che popolano gli allevamenti, che si diano alle fiamme i macelli e le fabbriche di spazzatura edibile, che si imbocchi i demagoghi con la loro stessa medicina, che si imbottiscano di polvere da sparo degli insulsi fagotti di impasto, che si torni all’Età dell’oro… Rise up!

Sappiamo bene che tutto ciò è necessario, forse addirittura inevitabile (anaciclosi anyone?) ‒ di certo ben più incalzante di una tassa sullo zucchero. Giganti come Nestlé, che controllano buona parte del mercato dei prodotti raffinati di mezzo mondo; che torturano piante e animali; che depauperano le riserve idriche, che sono, se non all’origine, quanto meno alla sorgente di molti dei mali che oggi affliggono il corpo umano; giganti che ingrassano come vampiri idioti ‒ pasteggiando a piene mani dai cicli di accumulazione del Capitale ‒ passano sotto gamba, come una mandria di elefanti di fronte a Mr. Magoo. È questo il risultato di una cecità protratta, di un’eccessiva permanenza nelle tenebre di Agharti.

Vuole la leggenda che, quando ancora vivevamo sulla superficie terrestre, sia giunto un tempo in cui i demagoghi e i cavalieri d’impresa, avvalendosi di tv, giornali e politicanti bendisposti, riuscirono a concentrare tutta l’attenzione, tutta la coscienza dell’essere umano nelle viscere. Per la prima volta nella storia dell’umanità, vide la luce una coscienza ventrale, un essere umano tutto-pancia, una sorta di tubo digestivo-defecativo ‒ qualcosa di più semplice e ovvio di un cetriolo di mare. E che fame tremenda pervase ciascuno: un sacro desiderio di prodotti tipici e tradizionali, una sacra fame di sangue e suolo…e cosa vi è di più tradizionale della carneficina? Non è forse il «far carne» ben più antico del tortellino ‒ e a esso logicamente precedente? A ciascuno il proprio paese, a ciascuno la propria categoria, a ciascuno le proprie usanze, a ciascuno la propria parrocchia, a ciascuno la propria mortadella, a ciascuno la propria disgustosa melassa, a ciascuno il proprio fiero pasto. Quel tempo, purtroppo, è ancora il nostro tempo, un tempo in cui «l’alimento» ‒ l’oggetto della divina scienza della nutrizione, la fonte obiettiva della forza ‒ è divenuto un’estensione della persona, parte dell’identità individuale e collettiva, ma anche, all’inverso, un modo per negare la personalità, l’individualità e la comunità di piante e animali. «Chi mai vorrebbe essere un tortellino, un calzone o una merendina ‒ quale creatura potrebbe mai precipitare così in basso?». Forse solo la sfortunata creatura che sei diventato, bruh…

Allo stesso modo, i confini nazionali sanciti dagli Stati e dalle istituzioni sono nulla se paragonati alle rotte percorse dagli antichi, via mare e via terra, per migliaia di anni ‒ le stesse rotte che noi stessi percorriamo oggigiorno. L’Europa è come un corpo irrorato da vasi sanguigni, all’interno dei quali scorrono innumerevoli traffici, un organismo attraversato da nervi che ne costituiscono l’infosfera, il pensiero vivente. Nella lista degli alimenti consumati su base quotidiana, un abitante dell’areale mediterraneo di tremila anni fa avrebbe incluso il gombo, i datteri, il bulgur e chissà quant’altro; i culti e le abitudini dei Greci, degli abitanti del Nord Africa, del Medio-Oriente, della Spagna e via dicendo non erano un mistero per nessuno, giacché l’identità impersonale del Mediterraneo si intrecciava all’identità personale degli individui e delle comunità (tenendo sempre bene a mente che è di città-Stato, e non di Stati-nazione, che stiamo parlando). Sfido chiunque, oggi ‒ accecati come siamo dalla spazzatura alimentare e concettuale ‒ a nominare un alimento per ogni porto del Mediterraneo, a danzare ai ritmi africani, spagnoli e greci, a sentire nel profondo dell’animo un’immanenza storica «differente», un’appartenenza più antica e più sottile. La storia, la cultura e l’alimentazione mediterranea sono un patrimonio comune, transnazionale, anonimo, equamente appartenente alla Terra stessa e a tutta la biosfera. Non per niente, l’antica dieta mediterranea è stata l’unica in grado di produrre eroi ed eroine, adoni e ninfe e tutta una serie di altre creature ben più oscene (sebbene mai quanto gli odierni mostri mastica-glutine e succhia-latte). 

Come sempre, la massa delle rane sa solo gracidare e gridare «brekekekex dop, dop, docg, bio, igp, kek kek kek», né mai riconoscerebbe Dioniso, neppure se se lo trovasse davanti (e com’è facile oggi, avendo i giusti agganci, conciare un beone come un dio). 

E tuttavia, a nulla servirebbe riportare alla luce l’antico splendore del Mediterraneo. Questo perché vi sono ancora uomini-scarafaggio e lanciatori di merendine. Cosa resta agli aspiranti atleti e alle aspiranti atlete e, più in generale, a tutti coloro i quali non si accontentano di restare chiusi in casa a consumare sedie ‒ a chi è soffocato dal disgusto per la «giungla di cemento»? A quanto pare non resterebbe altro che iscriversi in palestra, farsi una corsetta in un parco pubblico, o solcare le pacifiche piste ciclabili…

Se solo si disponesse dei mezzi economici per iscriversi in palestra, di parchi pubblici e piste ciclabili. Sia lodato il Caos indivisibile! Sembrerebbe quasi che l’unica soluzione sia offrirsi come volontari per la difesa degli inviolabili confini dello Stato ‒ una complicazione non da poco. E tuttavia, se ci sono così tanti atleti olimpionici tra le forze armate un motivo ci sarà… E, chi lo sa, magari non è ‒ come pensiamo noi teste marce ‒ una volontà generale di mettere a valore il corpo e la salute degli esseri umani o, ancora, il monopolio statale delle massime prestazioni atletiche.

Fintanto che gli uomini e le donne non ricominceranno a vedere dei e spiriti in ogni cosa e in ogni luogo ‒ e soprattutto in se stessi ‒ il mondo intero resterà nelle mani dei demagoghi. 

«Quando uno va dai bravi medici con il male agli occhi, dicono che non è possibile per loro cominciare a curare solo gli occhi, ma sarebbe necessario curare nello stesso tempo anche la testa […]; così anche per quanto riguarda la testa, credere di poterla curare di per sé, a prescindere dal corpo nel suo insieme, sarebbe, essi sostengono, una grossa sciocchezza. In base a questo ragionamento, applicando un regime al corpo nel suo insieme, intraprendono a curare, con il tutto, anche la parte, sino a guarirla» (Platone, Carmide)