Cos’è la theory fiction?
Da tempo al centro di dibattito all’estero grazie a titoli come il pionieristico Cyclonopedia di Reza Negarestani (già nel 2010 descritto da Jeff VanderMeer come «il miglior romanzo horror di cui non avete ancora sentito parlare») e ad apposite collane come la recente K-Pulp dell’editore inglese Urbanomic, la cosiddetta theory fiction si è guadagnata qualche attenzione anche in Italia con la pubblicazione ravvicinata di due libri come Remoria di Valerio Mattioli e la traduzione italiana di uno dei capostipiti del genere, Ballardismo Applicato di Simon Sellars (che ha originariamente battezzato la stessa K-Pulp di cui sopra). Che cos’è la theory fiction, qual è la sua storia e come sia diventata un genere di culto è ciò che proverò a raccontare in questo articolo. Per scriverlo sono partito ponendo a Google, la cosa più simile a una divinità della conoscenza con cui possiamo avere a che fare oggi, una semplice domanda : «what is theory fiction?».
Il risultato non è stato incoraggiante. La sintesi delle parole «theory» e «fiction» rimandava soprattutto a risultati che avevano a che fare con la «theory of fiction», un campo di studi tangente alla filosofia e alla teoria della letteratura – abbastanza lontano da quello di cui mi ero messo alla ricerca. Per fortuna, senza neppure scavare troppo a fondo, Google mi ha restituito qualcosa di utile, un punto di partenza. Si tratta di un post apparso il 3 novembre del 2018 sul blog di Gregory Marks, dottorando in letteratura e critica culturale, intitolato A Theory-Fiction Reading List: ovvero un primo tentativo di definire e sistematizzare il campo della theory fiction, fornendone una bibliografia ragionata e divisa per categorie.
La prima di esse è la cosiddetta poetic theory, ovvero una teoria che mette in primo piano il proprio artificio («Theory which foregrounds its artifice»), comprendente testi di Bataille, Adorno, Virilio, ma anche il Thomas Ligotti di La cospirazione contro la razza umana. Segue la narrative theory, teoria raccontata in forma narrativa («Theory told through narrative form»), che va dal Lucrezio di De Rerum Natura al Michel Serres di Biogea. Ci sono poi la cybernetic theory fiction, ovvero theory fiction come forma di «hype culturale» («Theory-fiction as cultural hype»: dentro Nick Land, Mark Fisher e tutto il giro CCRU), e la sci-phi, caratterizzata da un tasso di finzione «bassa» – fantascienza e simili – e un alto tasso teorico («Low fiction, high theory»: tra gli esempi, Ursula K. Le Guin, Ballard, Burroughs, ma anche il De Maria di Le venti giornate di Torino). Chiudono la lista le tre forme di theoretical fiction, la finzione come teoria («Fiction as theory»: Joyce, Beckett, Borges…), l’autofinzione come teoria («Self-writing as theory»: dalle Confessioni di Agostino al Preciado di Testo Tossico) e la poesia e il teatro come teoria («Poetry & plays as theory», da William Blake a Sarah Kane).
In generale, tra le opere citate da Marks si va – oltre agli immancabili Negarestani e Sellars – dal Mille Piani di Deleuze e Guattari a Così parlò Zarathustra di Nietzsche, da L’arcobaleno della gravità di Pynchon a Neuromante di Gibson, da Le città invisibili di Calvino a Gli anelli di Saturno di Sebald: testi molto diversi tra loro, la cui specificità è uno stile che ibrida finzione e riflessione teorica fino a dissolverne le specificità in una forma di sintesi. Non tanto un genere, spiega Simon Sellars in un’intervista pubblicata nel settembre del 2018 su The Quietus, quanto un’attitudine. Un’attitudine che appare al termine di un processo per cui, di fronte al caos inesplicabile del mondo moderno, la teoria perde qualsiasi capacità di spiegazione e la sua forma canonica si perde, si spezza e reagisce deformandosi o colando attraverso altri generi di scrittura.
Come esaurire la complessità di un fenomeno senza essere costretti a sezionarlo, a separarne le componenti perdendo qualsiasi possibilità di uno sguardo d’insieme? Mi sembra sia questa la domanda operativa che si pongono tutti gli autori di theory fiction quando si accingono a progettare un testo: così Reza Nagarestani arriva a concepire il Medio Oriente come un’entità senziente, viva e che si svela progressivamente negli appunti di uno dei personaggi che costituisce una delle voci narranti del testo; oppure Valerio Mattioli, che in Remoria ricostruisce la genesi e le metamorfosi delle borgate romane come una cospirazione demoniaca di cui l’autore tiene traccia alternando, di volta in volta, il diario personale alla riflessione teorica alla ricostruzione delle voci dei protagonisti della sua storia; o ancora, potremmo citare il cantiere del TAV che prende vita negli inserti di finzione che punteggiano Un viaggio che non promettiamo breve di Wu Ming 1. Tutti esempi di scritture che affrontano fenomeni stratificati, sfaccettati, a più dimensioni e lo fanno trovando una sintesi tra differenti forme di scrittura che vengono «montate» tra loro senza per questo rinunciare alle loro specificità. Prende così forma un’idea di scrittura che pare alla ricerca di un modo per esprimere una certa postura nei confronti delle configurazioni assunte dal mondo e dalla realtà che ci circonda.
Linee di fuga
Nelle prime pagine del Trattato di nomadologia: la macchina da guerra contenuto in Mille Piani, Deleuze e Guattari dedicano alcuni passaggi al gotico, uno stile caratterizzato «da una volontà di costruire chiese più lunghe e alte di quelle romaniche. Sempre più lontano, sempre più in alto… Ma la differenza non è semplicemente quantitativa, indica un cambiamento qualitativo […] È come se il gotico conquistasse uno spazio liscio»: uno spazio in cui prolifera una scienza nomade, con una peculiare forma di divisione del lavoro, a cui lo Stato reagisce tracciando «la distinzione suprema dell’intellettuale e del manuale, del teorico e del pratico, ricalcata sulla differenza governanti-governati […] Lo Stato non conferisce alcun potere agli intellettuali o ideatori, ne fa al contrario un organo strettamente dipendente, che possiede una propria autonomia solo in sogno, ma che è tuttavia in grado di privare di ogni potenza coloro che si limitano ormai a riprodurre o a eseguire».
Se proviamo a leggere la frattura tra teoria e finzione alla luce di questo passaggio e la codifichiamo perciò come una distanza tra la facoltà di ideazione e quella di produzione o riproduzione, funzionale alla divisione del lavoro imposta dallo Stato alle scienze nomadi, forse il fatto che l’emergere della theory fiction come un rilevante fenomeno culturale contemporaneo sia legato a doppio filo con le vicende della Cybernetic Culture Research Unit (CCRU), appare meno casuale di quanto si potrebbe pensare a prima vista. Non soltanto perché uno dei suoi principali animatori, l’allora professore di filosofia Nick Land, viene indicato come l’inventore del genere, ma anche perché molti degli autori di theory fiction riconosciuti oggi – da Mark Fisher a Reza Negarestani, da Sadie Plant a Kodwo Eshun – hanno legato una parte del loro percorso a questo collettivo di ricerca sorto intorno all’università di Warwick a metà degli anni Novanta. Il carattere sperimentale e non ortodosso delle pratiche di ricerca seguite dalla CCRU ne ha fatto ben presto una realtà tangente all’università e al mondo accademico, tanto è vero che le carriere di alcuni dei suoi membri hanno seguito traiettorie molto particolari, declinando in modi peculiari il loro rapporto con l’istituzione universitaria. Un percorso in cui l’approccio alla scrittura ha finito per assumere un valore simbolico rispetto al posizionamento assunto da questi intellettuali nei confronti dell’accademia, oltre ad aver rappresentato uno dei tanti modi sperimentati per portare l’esercizio del pensiero oltre l’attività interpretativa consentita dalle routine accademiche, verso una vera pratica della filosofia.
Prendo come esemplare il caso di Mark Fisher. Filosofo e critico culturale morto suicida nel 2017, durante la sua carriera Fisher non ha mai limitato la sua azione al solo ambito accademico e ha affiancato alla sua attività di scrittore e giornalista per giornali e riviste un’intensa produzione digitale, ospitata per anni in un blog, k-punk, di cui Repeater Books ha di recente curato una ponderosa raccolta pubblicata in questi giorni in Italia da minimum fax. Politica, attivismo, precarietà, salute mentale, modernismo, hauntology sono solo alcuni dei temi affrontati su k-punk. Li accomuna uno stile che alla riflessione teorica mescola il carattere diaristico e personale proprio della forma blog. Alla profondità della riflessione dell’accademico, Fisher affianca quella personale della scrittura del sé, in forme che si avvicinano a quelle della cosiddetta autofiction.
Tra le pagine di k-punk, in un’ideale genealogia della theory fiction, si scorge l’apertura di un interstizio tra il mondo «ideativo» dell’accademia, strettamente dipendente dallo Stato e interno alla sua logica di divisione del lavoro, e l’esercizio della scrittura come forma di autorappresentazione che tende verso la creazione di un universo finzionale del sé. La scrittura di Fisher lavora così, come una sintesi tra riflessione e pratica. È all’interno di questo spazio residuale che Fisher (e con lui molti altri) si colloca per andare alla ricerca di una forma di scrittura capace di operare una dissoluzione dell’opposizione stessa tra teoria e finzione. Una forma di scrittura adeguata alla complessità del tempo in cui viviamo. Ma qual è, esattamente, questo tempo e come si configura?
È ancora Mark Fisher a indicarci la strada quando, sulla scorta di Baudrillard, nota che il divenire finzione della teoria è necessariamente accompagnato dal divenire reale della finzione. Iperstizione dunque.
Linee di fuga II
Mi chiedo: che rapporto abbiamo con la realtà? Mi rispondo che viviamo in un’epoca in cui le relazioni sono mediate da interfacce costruite ad arte per strutturare i nostri comportamenti e rappresentate in grafi che tracciano i collegamenti tra noi e le istanze (persone, cose o fatti) con cui interagiamo. La proliferazione dei simulacri teorizzata dal postmodernismo è diventata l’orizzonte principale della nostra esperienza del mondo e i social network hanno accelerato a tal punto le dinamiche di costruzione dell’identità personale e autorappresentazione del sé da eliminare del tutto ogni tempo residuo, ogni possibile latenza. Eliminato il tempo per l’elaborazione, tutto scivola sulla superficie delle piattaforme e prende la forma di un flusso incessante di dati in riconfigurazione continua. È su di esso che si opera la cattura. Infinite micronarrative in competizione costante tra loro per conquistare la nostra attenzione dominano il panorama, striandolo a un livello di personalizzazione talmente preciso da poter ritagliare per ognuno di noi una realtà perfettamente accordata col profilo di noi stessi che consegnamo volontariamente all’apparato di produzione, accumulo ed elaborazione. Nel dibattito sulla natura fattuale delle dinamiche che orientano le nostre decisioni non è tanto importante essere in grado di determinare cosa è vero e cosa non lo è in termini assoluti, quanto cominciare a riconoscere come cambiano le articolazioni tra i piani che compongono il nostro orizzonte di esistenza.
È ancora Mark Fisher a indicarci la strada quando, sulla scorta di Baudrillard, nota che il divenire finzione della teoria è necessariamente accompagnato dal divenire reale della finzione. Iperstizione dunque. Un doppio movimento che dissolve l’opposizione tra la teoria come modellizzazione e l’invenzione finzionale come creazione di mondi. È in questo senso che la theory fiction si mostra come il tentativo di elaborare una forma di scrittura capace di essere all’altezza delle sfide poste da un mondo in cui la forma computazionale del pensiero è diventata la forma culturale egemonica. Sciogliere la riflessione teorica nella finzione significa dunque operare sulla realtà per indirizzarla verso una direzione desiderata, voluta.
In questo passaggio la riflessione teorica delira. Attraversa nuove forme di scrittura del sé che recuperano la latenza persa nell’immediatezza delle relazioni social. Si installa sull’infrastruttura digitale, sfruttandone la natura multimediale e ipertestuale per dare vita a collegamenti tra forme culturali molto diverse tra loro. La natura ibrida della theory fiction quindi va oltre l’opposizione che la costituisce per investire anche la distanza tra materie e forme d’espressione. La realtà che nasce dalla finzione mano a mano che la teoria le cola attraverso non si limita dunque alla produzione di testi o prodotti culturali a base testuale, interessa anche forme visive, musicali, plastiche o performative. La theory fiction diventa così la forma d’espressione privilegiata del tempo in cui viviamo, quella che meglio riesce a interpretare la complessità del mondo che ci circonda e a trasformarla nel movimento reale che modifica lo stato di cose presente.