Cosa resta dell’accelerazionismo
All’inizio furono Nick Land, l’università di Warwick e la Cybernetic Culture Research Unit/CCRU. Poi arrivarono Nick Srnicek e Alex Williams col loro Manifesto. Da lì, un profluvio di sigle, varianti e diramazioni: c’è chi propugna un acclerazionismo «di destra» (in gergo R/Acc, Right Accelerationism), chi al contrario sostiene l’accelerazionismo «di sinistra» (L/Acc, Left Accelerationism), chi a sua volta invoca un accelerazionismo «apocalittico» o «incondizionato» (U/Acc, Unconditional Accelerationism). Ma al di là dei ristretti circoli della teoria, quale eredità ci sta lasciando la più chiacchierata eresia politica degli ultimi anni? E come si collega agli immaginari e alle prassi di movimenti quali l’afrofuturismo, i nuovi femminismi, e le teorie queer e neoinsurrezionali? Nella conversazione che segue, ne discutono il berserk dell’Italian Weird Theory Claudio Kulesko (CK) e la santa frocia della geenna xenosodomitica Enrico Gullo (EG). Buona lettura!
CK: Mi sembra che, finora, il discorso sul ruolo dell’accelerazionismo nel pensiero contemporaneo abbia essenzialmente orbitato attorno a due differenti categorie: da una parte, l’accelerazionismo avrebbe rappresentato una «rivoluzione» dell’immaginario ‒ un «evento» in grado di innescare nuovi modi di pensare tanto il presente quanto il futuro, o una sorta di laboratorio all’interno del quale produrre costellazioni mitiche in grado di orientare la prassi politica (come pronosticato da Fisher e Berger). Dall’altra, l’accelerazionismo avrebbe dato il meglio di sé in ambito memetico, propagando per lo più la componente estetica di tale immaginario (un fatto di per sé innegabile). Secondo alcuni critici (come Noys e Berti), questa straordinaria efficacia nella propagazione semiotica occulterebbe una vera e propria povertà contenutistica, anche a fronte della mancanza di un’originale elaborazione critica e pratico-pragmatica, nonché una discreta dose di ingenuità.
Per la critica, l’esplosione memetica accelerazionista avrebbe innescato una traiettoria «superstizionale», piuttosto che «iperstizionale», conducendo diversi settori del dibattito politico ed economico alla stagnazione. In breve, l’accelerazionismo sarebbe costitutivamente impotente dal punto di vista filosofico, per non parlare di quello politico. C’è poi una terza critica, anche questa di difficile confutazione, mossa da Reza Negarestani in una recente intervista apparsa su NERO. Si tratta di una constatazione particolarmente interessante: per Negarestani, l’accelerazionismo ‒ e in particolare l’accelerazionismo «primordiale» della CCRU ‒ avrebbe dato inizio a un passaggio di paradigma nello stile letterario. Sarebbe stata proprio questa eccentrica mutazione stilistica a consentire alla letteratura accelerazionista di far scomparire il vuoto di contenuti, nonché l’assenza di rigore e scientificità, sotto tonnellate di giochi di parole e invenzioni spettacolari. In effetti, la critica all’accelerazionismo riecheggia in modo interessante quella al Sessantotto e ai suoi presunti o effettivi «meriti».
EG: Ok, partiamo da questo: non mi ero immaginato una vera differenza tra accelerazionismo come rivoluzione dell’immaginario e accelerazionismo come meme. Ha senso quindi il fatto di non ritrovarmi nella critica di Noys e di cercare una… quarta soluzione? Probabilmente sto cercando come al solito di salvare capra e cavoli, ma mi pare l’unico modo utile per farsene qualcosa di questo dibattito. Mi spiego meglio: non è necessariamente un male che l’accelerazionismo sia un meme, proprio perché questo comporta una propagazione di frammenti di provocazione in grado di innescare nuovi modi di immaginare politicamente il futuro. Come in un gigantesco romanzo di sci-fi politica, viene posto un what if che ipotizza cosa potrebbe succedere se si decidesse di abbracciare «l’accelerazione tecnologica» (che già è un’espressione che mi pare problematica) prodotta nel capitalismo e di usare quindi le sue armi contro se stesso. In linea di principio non siamo troppo distanti da Marx.
C’è un problema che però rimane sempre lì nell’angoletto: la questione non è solo l’appropriazione dei mezzi, ma anche come si organizza il loro uso contro il capitalismo. Non è un caso che Srnicek e Williams, in Inventare il futuro, si ritrovino costretti ad affrontare più il problema dell’organizzazione politica che quello del rapporto con le nuove tecnologie. In questo mi pare che resti cruciale il panorama delineato da Land in Meltdown: d’accordo, ammettiamo che le conoscenze e le innovazioni tecnologiche «accelerino», qualunque cosa significhi; il punto è che se lo fanno è perché sono i processi stessi del capitalismo a farlo (e consentono e richiedono l’innovazione tecnologica). La cosa interessante è che questa narrazione trova effettivamente riscontro nella storia del capitalismo, per esempio se si adotta il modello descrittivo di Arrighi nel Lungo XX secolo: i cicli di accumulazione descritti da Arrighi tendono effettivamente a contrarsi temporalmente, e non è un caso che a così breve distanza dall’inizio del ciclo egemonico statunitense siano già visibili tutti i segnali dell’avvio del ciclo egemonico cinese. Forse andrebbe ripreso il tema delle accelerazioni storiche in Koselleck e nel dibattito storiografico novecentesco. Non mi vorrei soffermare troppo sulla critica di Negarestani, e ho sempre delle brutte sensazioni rispetto alla critica alla vacuità linguistica. Mi ricorda troppo da vicino il dibattito sei-settecentesco sulla retorica (in cui – tagliando con l’accetta – da un processo di separazione dell’inventio dall’elocutio e dalla dispositio, interno alla retorica, si ottiene l’immagine della retorica nella forma cui alludiamo oggi quando parliamo di «vacua retorica», cioè una specie di «arte dell’ornato letterario»: e però Perelman e Olbrechts-Tytecha ci ricordavano, nel Trattato dell’argomentazione, che la retorica è appunto una scienza dell’argomentazione, prima che un artigianato del decoro linguistico).
Dopodiché c’è una differenza sostanziale tra l’accelerazionismo, anche quello della CCRU, e il Sessantotto: contrariamente alla vulgata perorata per decenni anche da sinistra, e grandemente apprezzata dalle aree reazionarie, nel Sessantotto le fabbriche e le università erano occupate davvero, e non si trattò soltanto di portare «l’immaginazione al potere», ma di riconoscere (nuovamente) come «classe» un’articolazione più larga di soggetti che a ben vedere hanno sempre fatto parte dei conflitti di classe nella storia. D’altronde anche questa concentrazione – specialmente italiana – sulla figura dell’operaio di fabbrica (che peraltro è un’astrazione: come in ogni luogo di lavoro mansioni diverse costituiscono profili professionali e soggettivi diversi) è fra le altre cose dovuta (come ormai dovrebbe essere senso comune almeno accademico) alla traduzione reiterata del termine arbeiter con «operaio», anziché con «lavoratore» (in inglese si usa worker, che fra le altre cose ha anche il pregio della neutralità di genere). Forse sottolineare questa cosa avrebbe potuto avere una positiva influenza nel dibattito politico italiano degli ultimi decenni, spuntando una delle principali argomentazioni di vasti settori della sinistra e del centrosinistra legati al principio della centralità dell’occupazione e in particolare alla centralità rivoluzionaria dell’operaio di fabbrica. Tornando a noi: forse è in questo che è stato utile introdurre in Italia dei testi del Left Accelerationism, almeno in termini di smarcamento dal dibattito italiano (che dall’altro versante tendeva quasi a negare l’esistenza stessa della fabbrica e del lavoro manuale). Dall’altro lato però mi pare che la differenza cruciale tra accelerazionismo e Sessantotto sia che mentre il Sessantotto ha avuto prassi a sostanziare e convalidare almeno una parte delle teorie che vi agivano, nell’accelerazionismo di queste prassi non vi è traccia.
CK: D’altra parte, tuttavia, c’è sempre il rischio di sprofondare in una celebrazione della facoltà immaginativa fine a se stessa (basta accorgersi di come, nei vari meme apparsi sui social, l’iperstizione si tramuti, da processo teleonomico fondato su delle tendenze, in una sorta di clone cibernetico del The Secret di Rhonda Byrne). Mi sembra, però, che Negarestani e tutti i vari critici abbiano solo sorvolato il punto. Lo stile retorico, di fatto, come tu fai notare, è sempre inseparabile sia dal metodo che dal contenuto (in quanto componenti di un’unica macchina). Ritengo che al di là della rilevanza memetica, immaginifica e mitopoietica, l’accelerazionismo abbia posto un problema concreto: quello della convergenza di metodologie, discipline e piani di realtà, in una teoria filosofica della complessità particolarmente matura. Non è da sottovalutare il fatto che dalla CCRU sia emersa parte dell’attuale orizzonte del realismo speculativo (Grant), del neo-razionalismo (Negarestani e Brassier), del tecno-utopismo (Fisher) e del neo-pessimismo (Land, nonché alcune suggestioni di Thacker). Questo «campo esperienziale unificato» ha un potenziale notevolmente superiore a quello di certe recenti boutade di Nick Land su tempo, cosmologia ed evoluzione. Se lo stile è circonvoluto e l’immaginario potente e «contagioso», è perché l’accelerazionismo primordiale della CCRU ha provato a fare qualcosa di molto simile a quello che fecero Marx ed Engels: produrre un’analisi diagrammatica ‒ al tempo stesso descrittiva, predittiva e prescrittiva ‒ degli andamenti storici, naturali, tecnologici e socioeconomici del pianeta. L’estrema differenza con la teoria marxiana, tuttavia, sta nell’assenza di un progetto politico unitario su scala globale; non vi è alcuna pretesa di controllo sui processi tecnocapitalisti (un aspetto che sarà poi ereditato da Unconditional Accelerationism).
Se l’accelerazionismo è stato un evento «reale» (non meramente simbolico o immaginario), è in virtù di questa sua capacità di riunire soggettività differenti in una sola prospettiva teorico-pratica di «liberazione totale», senza schiacciare tali agency collettive su una singola figura (il proletariato, la moltitudine, lo stato, l’Unico e così via). In questo senso, l’accelerazionismo ha tentato di combinare e assemblare tra loro teorie e idee provenienti dagli ambiti più disparati (dalle scienze alla filosofia, dalle teorie del complotto all’occultismo) ‒ elaborazioni teoriche non prive, nei loro ambienti di riferimento, di una certa rilevanza ‒ senza per questo divenire una sorta di «partito implicito» (almeno fino ad oggi, col Left Accelerationism). Al contempo, mi sembra che sia riuscito a fare la stessa cosa con le soggettività catturate nelle sue spire ‒‒ difatti, sarebbe più corretto parlare degli accelerazionismi, piuttosto che di un Accelerazionismo.
EG: Anche il concetto di «moltitudine» in Negri e Hardt, però, era un tentativo di ottenere un Uno senza Uno. Il sogno di un nome collettivo senza centro, completamente rizomatico (io sarei per lasciar stare questa storia delle radici delle patate), che nello sciame di un’intelligenza collettiva avrebbe prodotto da sé i semi della distruzione dell’Impero… e in fondo è il problema del mettere in discussione il concetto di «classe», per poi rendersi conto che in buona sostanza, e al di là del piano strettamente comunicativo e linguistico, il tema non solo dell’organizzazione, ma della composizione della classe si ripresenti in termini tutto sommato simili. Cambia il nome (classe, popolo, moltitudine…) ma la questione resta la stessa: devo darmi uno schema orientativo che distingua oppressori e oppressi, tenendo conto che la prima cosa che cerca di fare il Potere (diciamo il potere economico e politico con la P maiuscola, immaginiamocelo più centralizzato possibile) è di tenersi stabile producendo conflitti all’interno de_ oppress_ (e direi che forse questo invece è lo spazio del potere con la «p» minuscola, quello dell’analitica del potere di Foucault che fa tutte quelle cose molto trendy come circolare, stabilire rapporti, istigare percorsi di soggettivazione e soprattutto non presentarsi mai come verticale ma come orizzontale, tra pari). Più avanti torniamo su questo punto. A un certo punto, in ogni caso, degli «accelerazionismi» andrà data una descrizione sistematica e una delimitazione propria: Morton vale davvero come accelerazionista? Thacker? Lo stesso Fisher, tutto sommato, parla sorprendentemente poco di innovazione tecnologica; almeno nei testi che stanno saltando fuori negli ultimi anni manca completamente quel kink landiano, quel rapporto erotico con la tecnologia che porta Land a formulare nozioni come quella di Human Security System.
Un fatto interessante, piuttosto, è esattamente il fatto che i testi che più spesso vengono ricondotti all’accelerazionismo riescono a far emergere una lettura sistemica di contesto, anche attraverso «saperi spuri» – alchemici, demonologici… – ibridati con un paradigma teorico come quello marxista che invece mimava la scienza positiva (ma attenzione, filtrato tramite Deleuze a sua volta letto in UK a inizio anni Novanta, a proposito di radici di patate). Stanno in posizione diagnostica rispetto alla Silicon Valley, e in effetti con un approccio alla sfida lanciata da Cupertino che mi pare diverso sia da quello tutto sommato euforico di certe cose di Michel Serres o di un Francis Fukuyama, sia da quello che definirei neo- o tardo-Debordiano (che qui in Italia ha avuto grandi nomi, da Asor Rosa a Walter Siti a Goffredo Fofi, la trilogia della noia), sia dall’atteggiamento remissivo di un Serge Latouche (del quale comunque qualche aspetto teorico sta implicitamente venendo recuperato non solo nel dibattito sull’antropocene o sul primitivismo, quanto più sull’effettivo pericolo di specie cui ci stiamo esponendo).
Va detta anche un’altra cosa, che in quel momento l’unico rapporto possibile con la rivoluzione informatica, a occhio, sembrava essere la lettura dei processi di comunicazione con strumenti tutto sommato spuntati: non abbiamo ancora iniziato a dirci quanto sono invecchiate le letture del presente come gigantesca semiosfera – penso a quelle di Baudrillard, o di Lotman, o di Enzensberger – o quelle letture umanistiche en travesti come nel caso di Bauman. Permettimi un’altra punzecchiatura: tutti maschi, tra l’altro. Nel frattempo Donna Haraway pubblicava il Manifesto Cyborg, fiorivano le queer theories, e nella CCRU fra i vari soggetti che animavano il dibattito c’era Luciana Parisi. Forse va sottolineato come l’intervento diagnostico della CCRU sia stato tempestivo, quasi precoce, e però impossibilitato alla prassi: difetto della teoria, inattualità della sua formulazione, o limiti della prassi? Mi pare che negli anni Novanta un movimento globale in grado di intervenire sul punto ci sia stato, però. Certo, è stato represso nel sangue a Genova, nel 2001, ma aveva avuto l’intelligenza di martellare sui punti materiali dell’articolazione del capitalismo globale, e di toccarli – magari senza riuscire a sovvertirli – tutti. Dallo stesso brodo di coltura di quel movimento la CCRU aveva tratto diverse pratiche, in effetti, ma basta a metterla nella stessa posizione di Marx ed Engels col movimento operaio internazionale del secondo Ottocento? Faccio un’affermazione che oggi può suonare parodistica: il Manifesto del partito comunista di quel movimento era più No Logo di Naomi Klein che Meltdown, che forse a malapena circolava; in alcuni ambiti più politicizzati che avevano sentito l’esigenza di aprire una nuova fase teorica e pratica era invece Impero di Negri e Hardt…
Probabilmente, ci troviamo in una fase così avanzata dell’espansione culturale dell’accelerazionismo, che vi potrebbe non essere più alcuna possibilità di recupero delle sue virtualità latenti.
CK: Ironicamente, il vecchio detto la «classe non è acqua» sembrerebbe calzare a pennello a questa situazione: si è giocato, per l’appunto, con l’oceano, la marea, le moltitudini indifferenziate… Ma mi pare che non sia questo il caso. Le soggettività marginali ed emarginate alle quali l’accelerazionismo si rivolse negli anni Novanta ricordano molto da vicino il lumpenproletariat evocato da Stirner (la molecola anti-sociale, improduttiva, parassitica e, per certi versi, totalmente «disadattata» dell’ecosistema capitalista). Non è un caso che il R/Acc (l’accelerazionismo «di destra») abbia avuto un forte ascendente su parte di questo bacino di lettori ‒‒ incel, neo-monarchici, fanatici religiosi, gamer e cani sciolti. I problemi della classe, del general intellect e del lavoro cognitivo sono sorti col L/Acc, in qualità di momento auto-riflessivo dell’accelerazionismo. In questo senso L/Acc si presenta come una continuazione più o meno pedissequa della tradizione marxista, mentre l’accelerazionismo della CCRU potrebbe essere definito a buon diritto marxiano, ma in nessun modo marxista (come nel caso di Deleuze e Guattari, appunto). Parlerei, dunque, di una somiglianza formale, o metodologica, con il comunismo «scientifico» di impronta marxiana, non di una commensurabilità storica o culturale – con il vantaggio, poi, che l’accelerazionismo della CCRU era consapevole del fatto che ogni pretesa di scientificità comporta tutta una serie di rapporti di potere (da qui lo stile ironico e «mostruoso»). Si tratta di un approccio dinamico al materialismo ‒ che si è propagato, a sua volta, ai «nuovi materialismi». Se Thacker o Morton possono essere annoverati tra i parenti più prossimi dell’accelerazionismo è per la loro folgorante consapevolezza della catastrofe incombente e, Thacker in particolare, per una feroce critica al pensiero rappresentativo, anche e soprattutto politico. Non possiamo continuare a ritenere del tutto affidabili teorie, previsioni e immagini del mondo; si tratta di una lezione preziosa, della quale l’accelerazionismo dovrebbe far tesoro se desidera recuperare i propri presupposti insurrettivi e sviluppare nuove potenzialità strategiche.
In secondo luogo, purtroppo, si potrebbe facilmente mostrare come i soli meriti reali dell’accelerazionismo, gli unici processi materiali da esso innescati, siano confluiti in una legittimazione ideologica a posteriori delle corporazioni della Silicon Valley (il gemello malvagio del prometeismo socialista). Probabilmente, ci troviamo in una fase così avanzata dell’espansione culturale dell’accelerazionismo, che vi potrebbe non essere più alcuna possibilità di recupero delle sue virtualità latenti. Intendo dire che, a mio parere, le prime produzioni teoriche e artistiche della CCRU e dei suoi componenti, abbiano deviato sensibilmente non solo dall’ideologia tecnocratica e neo-mercantilista, ma soprattutto dall’impresa egemonica dell’accelerazionismo di sinistra (questo Robo-Marx 1.5, dotato di ’68 minuti di autonomia operaia). Le invasioni lemuriane e «sottomarine», l’assalto lesbo-vampirico, i cyber-goth, i cyborg, i mutanti, i licantropi e tante altre figure facenti parte dei miti della CCRU, sono senz’altro mutuate dai movimenti controculturali dal dopoguerra a oggi, ma sono anche ricontestualizzate in un contesto pluralista, intersezionale e insurrettivo. L’afrofuturismo e l’afroaccelerazionismo, con il loro mix di sci-fi, primitivismo alla Zerzan, voodoo, musica elettronica e tecnologia sono dei validi esempi di quest’anima «minoritaria». Una lettura meramente immaginaria, quasi da gioco di ruolo, non fa che svilire e depotenziare queste costruzioni.
Negli scritti della CCRU, del primo e del secondo Land, nonché del suo poco conosciuto alter ego (Metcalf), si possono trovare stralci semi-oracolari di tutta una serie di violente insurrezioni che accompagnano l’accelerazione del tecnocapitale ‒ e la corrispettiva perdita di controllo da parte dell’essere umano. L’aspetto evenemenziale, comunque molto forte, è controbilanciato da un tentativo di interpretare i processi di accumulazione del Capitale a partire dalle sue tendenze e dai suoi orientamenti. E forse è per questo che Shaviro, nel suo No Speed Limit, è riuscito a impiegare in modo credibile la vecchia immagine del «sabotaggio dall’interno»: non si tratterebbe, infatti, di un’invasione che si tramuta in un segreto progetto egemonico, ma di una serie di prassi che agiscono all’interno degli spazi interstiziali prodotti dall’accelerazione.
EG: Direi che L/ACC non sembra ma è una continuazione più o meno pedissequa della tradizione marxiana, e forse mi orienterei per il «più». Ammettiamolo, decisamente non è la più rigorosa e dettagliata delle teorizzazioni o delle analisi socioeconomiche, ma ha il pregio di riuscire contemporaneamente a fare tesoro di alcuni accenti su cui i movimenti e le teorie politiche degli anni Novanta e Duemila avevano puntato l’attenzione e di diagnosticare il fallimento pratico di quei movimenti tentando altre formulazioni. Ma manca un po’ di immaginazione politica, soprattuto sul piano programmatico. Stai a vedere che non è un caso che Not abbia pubblicato nello stesso anno di lancio della collana sia Inventare il futuro sia i tre testi del Comitato Invisibile. Sono due libri che insistono sullo stesso problema e in fondo hanno più o meno lo stesso problema, rovesciato, di rapporto alla tradizione marxista. Io lo continuo a chiamare «il complesso edipocomunista», ma la tengo lì come boutade perché non ho mai avuto né il tempo né la voglia di definire per bene il concetto. Nel caso del Comitato direi che a una grande verve letteraria si associa una completa fuoriuscita dal marxismo proprio in senso anarco-individualista (attraverso la mediazione di Agamben e del concetto di «singolarità qualunque»), ma in ogni caso più utili di molte elaborazioni circolanti a oggi. Va capito cioè cos’è che funziona o attrae di quella teoria.
Per dire: ho visto uscire un articolo su DinamoPress, scritto da un amico, che fra le altre cose lamenta l’heideggerismo del Comitato e vi fa risalire il motivo per cui presentano un capitalismo-mondo senza storia; gli ho voluto ricordare che se lo presentano in quel modo è perché il mondo che descrivono è un non-più-mondo. Non è che non ha storia, ha smesso di averla. Si tratta del rovescio negativo della «fine della storia» di Fukuyama (che ultimamente ha anche ritrattato quella tesi), e tutto sommato è coerente con l’idea che questo capitalismo non si possa distruggere ma si possa solo aspettare che finisca di distruggersi, ed eventualmente provare a dare una mano pratica al processo. Allo stesso tempo quella guerriglia generalizzata di lumpenproletariat e poeti della casse mi sembra l’esatto negativo di quel 99% che si invocava fino a qualche anno fa, forse anche il rovescio dello stesso concetto di moltitudine. Il risultato mi pare identico (identicamente fallimentare, intendo): magari hanno la botta di culo in cui la lettura si assembla bene con le prassi in quella fase e ha degli effetti di verità, poi a un certo punto ti rendi conto del valore più evocativo e performativo che analitico di questi concetti.
Torniamo alla CCRU invece. Mi sentirei di dire che, per quanto inclusive, le pratiche della CCRU riproponessero da un lato tutto sommato una politica per poche persone (ma molto variegate), senza nemmeno fare lo sforzo di rendere performativa l’apparizione moltitudinaria del soggetto politico postulato, e dall’altro e conseguentemente presenta un po’ gli stessi problemi a cui provano a rispondere L/ACC da un lato (moto autoriflessivo dell’accelerazionismo, dicevi) e il Comitato Invisibile dall’altro. Qui io mi vivo una contraddizione enorme, che sto provando a superare ma la lascio sul piatto intanto: da frocia sono completamente immersa nella rinnovata forza delle identity politics, che difendo anche piuttosto a spada tratta, e di conseguenza capisco molto bene la necessità di sottolineare la proliferazione di soggettività eterodosse all’interno della CCRU (che però all’epoca forse funzionavano meno in termini di identità da rappresentare e più in termini di linee di fuga dall’identità). Per lo stesso motivo capisco il tentativo del Comitato Invisibile, quello di Negri, quello di Butler ne L’alleanza dei corpi, e naturalmente tutte le elaborazioni postcoloniali, da Spivak in poi, femministe, queer… dall’altro lato però mi rendo conto che questa strategia di parlare ognun per sé, incavat_ nel proprio posizionamento, accanto alla forza deflagrante della verità politica incarnata porti con sé molte difficoltà a individuare le crepe più sfruttabili nel quadro sistemico. Ho la sensazione che non basti a formulare una politica più inclusiva e un maggiore protagonismo non solo di soggettività razzializzate o genderizzate. Non credo sia questo il contesto per affrontare il tema. Quindi mi limito a sottolineare che, però, la dimensione delle identity politics ha spesso questa incredibile capacità di sottrarsi ad alcune anchilosate questioni terminologiche e a indicare delle vie di fuga pratiche ed efficaci. Ed è vero, credo che su questo piano funzioni anche dentro gli accelerazionismi.
Hai menzionato l’afrofuturismo, ma prendi Xenofemminismo di Helen Hester. Riesce a dare davvero una traduzione pratica e fruibile al tentativo di formulare uno xenofemminismo come paradigma teorico, che peraltro attinge da una tradizione teorica in parte indipendente dall’accelerazionismo (il fatto di scegliere Firestone come nume tutelare parla chiaro; e d’altronde quello che spesso non appare in questo dibattito è non solo il contributo degli inevitabili Foucault e Deleuze, ma il contributo alla denaturalizzazione dei propri posizionamenti che viene dai femminismi, dalle teorie omosessuali, dalle elaborazioni black, postcoloniali, e via dicendo). In questa restituzione anche di prassi, fra l’altro, intercetta delle pratiche che erano già dell’hacking, e mi verrebbe da dire che è stata la CCRU ad appropriarsene, prima che se ne appropriasse il L/ACC; esattamente come i rituali demonologici connessi all’uso di sostanze, o l’ibrido BDSM/techno, erano già nelle controculture. Ma mi limiterei appunto a indicare queste come prassi degli accelerazionismi; tutto sommato forse al contributo sul piano dell’immaginario può essere interessante aggiungere «pratiche controculturali di reinvenzione del tempo libero rimesse a sistema in un nuovo frame interpretativo». A pensarci, più o meno sullo stesso livello di importanza di una parte delle pratiche dei loro corrispettivi movimentisti (o folkie, come li chiamerebbero i L/ACC). Ma se ci poniamo al livello di organizzazione di una società futura, o anche sul livello dell’organizzazione di un movimento di opposizione – globale o non – mi verrebbe da dire che forse c’è un problema strutturale al paradigma: a fare una rapida carrellata, il Dark Enlightenment non ha bisogno di organizzare una società futura perché le sue pratiche coincidono con le procedure del capitalismo; l’U/ACC nemmeno, perché per definizione non è una filosofia della prassi e si limita a osservare la trasformazione; il L/ACC invece non ha proprio sviluppato proprie pratiche e organizzazioni, e son d’accordo che è la parte più debole di questa galassia.
Se ci pensi, Srnicek e Williams montano su un pandemonio teorico per poi dire, in fin dei conti, che bisogna rifare il partito: mi pare la montagna che partorisce un topolino, o può darsi che io sia troppo all’antica con quest’idea che per quello bastava andarsi a riprendere Gramsci o Lenin a un prezzo decente. Poi certo, reinventare la forma partito per metterla al servizio di rivendicazioni che stavano anche nei movimenti sociali può anche essere letta come una mossa teorica e pratica necessaria, ma non erano certo i primi a formularla. La cosa più preoccupante è che sembra che non stia riuscendo a metterla in atto nessuno (si veda alla voce Labour, Podemos, France Insoumise, Syriza…).
CK: Vero! Ma con la CCRU siamo negli anni Novanta e, probabilmente, si tratta di uno dei primissimi tentativi di raccordare la frammentarietà di tutte queste esperienze ‒ spesso anticipandone diverse. Sulla questione partitica sono d’accordo con te, proprio perché L/Acc, a un certo punto, ha scelto di portare avanti un programma di impronta socialdemocratica, anziché pienamente rivoluzionario. In questo senso, l’idea attribuibile a Fisher e Goodman/Kode9, secondo la quale sarebbe possibile una resistenza meramente controculturale (attraverso la musica, la psichedelia, la scrittura, la reinterpretazione delle scienze e dalla tecnica o, appunto, la farmacologia), si scontra con l’evidenza fattuale della violenza che queste sacche di resistenza subiscono da parte dello Stato e dei fascisti.
L’hacking (di qualunque tipo), tuttavia, è un valido esempio di come queste «falle» create dall’accelerazione tecnocapitalista siano capaci di offrire consistenti spazi d’autonomia. L’accelerazionismo di destra e il movimento Dark Enlightenment, d’altra parte, hanno portato questa elaborazione a livelli tanto spaventosi quanto interessanti: la «democratizzazione del rischio X», elaborata da Land negli ultimi anni, ad esempio, prevede che anche le piccole comunità siano in grado di mettere sotto scacco dei potenziali aggressori, attraverso armi nucleari o batteriologiche a basso costo. Nei miti della CCRU, inoltre, la rivolta cybergoth prevedeva la «contaminazione» informatica dei programmi di sviluppo dell’intelligenza artificiale, così da contribuire attivamente alla creazione di una «malevolent AI» in grado di annientare la rete cibernetica di dominio – qualcosa di molto simile a ciò che, successivamente, è stato Stuxnet.
Grungy Accelerationism di Berger, invece, guardava più alle pratiche controculturali statunitensi (fatte di occupazioni di interi quartieri, autogestiti e di una fitta rete di mercati neri e grigi); non a caso si tratta di uno dei principali punti sollevati da U/Acc. Da una parte abbiamo delle pratiche di resistenza meramente economica («anti-pratica», forse anche in un senso iper-marxiano, che intende la prassi politica come parte della sovrastruttura), dall’altra una frammentazione protofascista (o, meglio, microfascista), altamente militarizzata. Credo che i territori inesplorati giacciano proprio a metà strada tra questi due campi base e credo, anche, che valga la pena esplorare questo immenso cono d’ombra. Come notavano Monacelli e Filippi tempo fa, a riguardo del Comitato Invisibile, si tratta di sperimentare un’uscita radicale dalla rappresentazione politica o, per dirla con R/Acc (che a sua volta saccheggia l’opera di Hirschman), di un exit senza voice. Un processo antitetico a quello della forma partito, incentrato su pratiche già esistenti. Sono proprio queste pratiche attuali (autogestione, mercati autorganizzati, formazione indipendente, forum e blog e così via) a includere nel discorso chi è posto fuori dalla gabbia dorata dell’accademia, o dal dibattito puramente intellettuale. Gli accelerazionisti che stanno tentando di interfacciarsi ottimisticamente con partiti e sindacati (ossia quelli ormai ribattezzatisi futuristi o tecnoutopisti) stanno per essere investiti da una catastrofe ecologica e sociale senza precedenti nella storia umana.
EG: Non ho chiaro se stiamo parlando dell’Italia, degli USA, dell’UK o di altrove; intanto spero davvero che in Italia nessun_ si dichiari «accelerazionista». Mi era capitato di parlare con un ragazzo a una presentazione di Xenofemminismo a Bologna. Io come al solito ero intervenuto per sottolineare che di quel libro ci interessano tre cose: che faccia un ottimo bignami di abolizionismo del genere, che suggerisca pratiche di hacking tutto sommato abbastanza a portata di mano, e che ci regali un altro bellissimo meme. Insomma, nonostante questo il ragazzo in questione è venuto a chiedermi se il collettivo Exploit di Pisa fosse «un collettivo accelerazionista». Ecco, no. Non credo possano esistere «collettivi accelerazionisti», più o meno per i motivi di cui sopra. Se poi qualcun_ nei dintorni della gerarchia sindacale e di partito, dopo decenni che gli si prova a spiegare la questione del reddito, ha ricevuto la fulminazione sulla via di Damasco, per me è solo la dimostrazione che persino la scrittura tutto sommato sciatta del L/ACC funziona meglio della maggior parte della teorizzazione politica avvenuta negli ultimi vent’anni in Italia. E in fin dei conti non mi stupisce, visto che da quarant’anni portiamo avanti questo dibattito sul Lungo Sessantotto che per carità, avevamo ragione, le bombe messe dai fascisti e pagate dai padroni, la repressione, i servizi… ma a che serve? Cosa è rimasto di quella storia lì, a parte il dibattito in sé, tutto sommato molto sterile e tra protagonisti dell’epoca che discutono fra loro?
Va detto anche il rovescio di questa cosa, comunque: che non solo non credo possano esistere «collettivi accelerazionisti» fuori dall’ambito delle arti, dello spettacolo, degli happening, eccetera (compresi i loro corrispettivi controculturali e anticapitalisti), ma che anche mi pare decisamente fuori portata la teoria del complotto che ha iniziato a serpeggiare da un po’ per la quale esisterebbero «gli accelerazionisti» che con i meme stanno impedendo a tutt_ di fare movimento blaterando di piena automazione. La parte vera di questa faccenda è che i meme non faranno la rivoluzione, e che tocca rimboccarsi le maniche. Ma è proprio per questo che sostengo che «l’accelerazionismo è un meme» o che «l’accelerazionismo non esiste»: per quanto mi riguarda va benissimo tenersi lo stimolo teorico (anche perché a livello pop attira indubbiamente l’attenzione), mi va benissimo tenermi quell’estetica e provare a giocarci, mi dà degli ottimi suggerimenti su come ripensare il mio tempo libero autorganizzato collettivamente, ma oltre quello non so che farmene. A meno che, appunto, non si torni a parlare di hacking.
Ci arriviamo. Da un lato hai il R/ACC che per definizione non mi compete, del L/ACC ne hai parlato perfettamente tu stesso, e da U/ACC mi arrivano queste ipotesi di exit senza voice, tutto il lessico della destituenza… come hai sottolineato, in fin dei conti la stessa ricetta del Comitato Invisibile, sul piano discorsivo. Sul piano delle prassi, più o meno le stesse ricette che hanno da decenni i movimenti sociali, forse da secoli (le occupazioni delle terre…). Allora, a questo punto dobbiamo dirci una cosa molto chiara. Una cosa sulla quale i L/ACC, e intendo in particolare ancora Srnicek e Williams, hanno ragione pur avendo formulato malissimo la critica, è che tutte queste pratiche funzionano e sono efficaci ma non bastano. Servono delle forme di organizzazione che le mettano in connessione. Quelle che abbiamo sono evidentemente insufficienti, o non ci ritroveremmo nell’attuale congiuntura politica. Mi pare che non funzioni più quest’idea, se mai ha funzionato, per la quale le forme di organizzazione orizzontale siano spontanee, fattiche, in qualche misura già date. Non dico che non esiste organizzazione che non sia calata dall’alto, dico che non tutte le forme di organizzazione sono efficaci e che non tutte le organizzazioni efficaci nascono spontaneamente.
Se il punto di Berger è sostanzialmente riscontrare lo scacco perenne delle pratiche di autorganizzazione (dello scambio, dell’abitare, eccetera) per sostenere che non si può fare niente e che possiamo soltanto stare ai margini difendendo le piccole isole di autonomia in cui stiamo e aspettare la catastrofe, non ci sto. Perché è chiaro che il Capitalismo è lanciato a molla verso l’estinzione quasi totale della specie umana e di buona parte delle specie del pianeta. Apprezzo l’onestà di ammettere che la potenza di quell’organizzazione spontanea non è efficace quanto quella del Capitale, né quanto quella degli Stati o delle organizzazioni parastatali transnazionali. Dopodiché se è così e non può che essere così, anzi addirittura è meglio che rimanga così perché organizzarsi è fascista, io semplicemente non sono d’accordo, perché significa solo lasciare il Capitale tirato a molla verso l’estinzione della specie umana. In questo – ma ne faccio proprio una grezza analisi politica, non teorica – mi pare che rimangano soltanto le stesse cose di Land: il funzionamento a feedback positivo del capitalismo porterà inevitabilmente alla formazione distopica di un general intellect interspecie che si solleverà – si è già sollevata – dalla dialettica intraspecie, per diventare un’altra forma di vita, tendenzialmente autonoma, che corrisponde alla totalità dei rapporti socioeconomici e che mira alla propria estinzione.
Ma se questo è il dato di fatto, allora perché vuoi fare comunque la fatica di opporti? Ma perché mai? A questo punto me ne sto a casa, mica è una giostra. Almeno smettiamo di chiamarla teoria politica… Io credo invece che la prassi politica qualcosa da dire e fare ce l’abbia ancora. Anche perché, come mi ricordano alcun_ compagn_ anarchic_, la verità è che nella catastrofe ecologica i ricchi se la passano da nababbi e corrono ai ripari. Pensa a Peter Thiel e ai suoi investimenti nel Pacifico… tutto il resto dell’umanità invece muore di inquinamento; non ci toccherà nemmeno un’eutanasia (nel senso etimologico di «bella morte»). Ecco, questa è la cosa che vorrei evitare degli accelerazionismi: l’ottimismo da un lato, e il pessimismo dall’altro, che vengono continuamente convertiti in fatalismo.
CK: Spero proprio che non si stia parlando dell’Italia, guarda. Purtroppo in USA e in UK l’entusiasmo per la piena automazione si sta trasformando in una corsa elettorale (in stile in parte neolib, con l’UBI di Yang, e in parte socialista, con il tristissimo Acid Corbynism e il supporto dei neoprometeisti americani a Sanders). Mi viene in mente una recente critica di Culp, pubblicata su uno degli ultimi numeri di LaDeleuziana, nella quale analizza brevemente ‒ ma in modo molto pertinente ‒ l’accelerazionismo «a grandi linee», soffermandosi poi su L/Acc. In questo scritto, Culp invoca (comprensibilmente) la necessità di una «macchina da guerra partigiana», ossia di una proliferazione di gruppi di saboteur e assaltatori in opposizione all’accelerazione capitalista e socialista (un’accelerazione che sarà più che ipoteticamente securitaria). Si tratta, come dicevo, di un’idea paradossalmente presente nell’accelerazionismo della CCRU: i miti del collasso, dello schianto e dell’incidente, divenuti delle sorta di macchiette o di luoghi comuni (post-heideggeriani), hanno in realtà ancora molto da dire. Al di là del jargon deleuziano, si potrebbe dire che a ogni «cattura», ossia a ogni presa di un certo mezzo di produzione, dovrebbe corrispondere una mutazione di quel mezzo e del suo contesto, nonché la distruzione di del dispositivo di oppressione precedente (la farmaco-chimica, come evidenzia Preciado, è insostenibile nella sua forma dominante; necessita di un riorientamento radicale, simile a quello operato dall’antipsichiatria sulla psichiatria istituzionale). Al contempo, l’accelerazionismo mostra come a ogni istante di crisi, attuale o meramente potenziale, nei cicli di accumulazione di capitale, debba corrispondere un assalto profondo. Nella sua versione afrofuturista, poi, emerge chiaramente come il principale errore di L/Acc, e del tecno-utopismo in generale, consista nel credere che le tecnologie vadano bene così come sono (un esempio classico è quello del calendario, la cui scansione riflette, sostiene e giustifica una certa divisione del lavoro, nonché una certa tecnologia di dominio).
Mi sembra, a questo proposito, che l’accelerazionismo contemporaneo soffra di uno spiccato etnocentrismo: a quali tecnologie e a quale tempo fa riferimento, se non a quelli occidentali? In assenza di queste componenti, e in presenza di questa riduttiva miopia antropologica, concordo nell’affermare (in tutta serietà e in modo assolutamente non provocatorio) che l’accelerazionismo non esiste se non in forma memetica, letteraria e di immaginario. Il punto sarebbe riuscire a superare la modellazione deterministica – alternativamente troppo ottimista o troppo pessimista – che ha finora caratterizzato l’accelerazionismo, in favore di un’analisi situata e pluralistica, nonché dell’elaborazione di pratiche (anche sperimentali, perché no) di conflitto materiale. Non che il piano dell’immaginario o quello culturale non siano congruenti con un certo materialismo, ma mi sembra attestato che si tratta di interventi palesemente insufficienti a incidere sui processi in atto. Per ora abbiamo unicamente a che fare con un potente strumento di analisi impiegato poco e male.
EG: Ecco, sul fatto che la CCRU sia stato uno dei primi tentativi di rifare da collettore – intenzionale, orientato, consapevole – devo darti ragione. E mi pare che con Culp e con Preciado si riesca a portare a casa qualcosa di questo dibattito interno agli accelerazionismi. Mi sembra che in qualche modo risuoni con le parti più interessanti del dibattito e delle pratiche movimentiste. Fra l’altro è curioso quante volte sia saltato fuori Preciado nella nostra chiacchierata preliminare, e ripeto: non credo sia un caso che siano le elaborazioni variamente assegnate alle queer theories, ai gender studies, ai postcolonial studies o a campi relativi alle identity politics a riportarci coi piedi per terra, con i dovuti accorgimenti. Il punto è che davvero l’urgenza di «fare prassi» e anche di teorizzarla non può che venire da chi ne ha bisogno.
Io mi rifarei un giretto nei luoghi di sfruttamento, dalle fabbriche ai call center ai magazzini. Fra l’altro ci si troverà un sacco di gente già organizzata, e talvolta proprio nei termini di sabotaggio auspicati da Culp. E il punto mi pare proprio che non si può usare la tecnologia «così per com’è». Ci vuole l’intelligenza e la cattiveria della soggettività colta nel suo soggiogamento, la cattiveria di chi conosce il proprio aguzzino… C’era un video in questi giorni che ha girato molto su facebook: militanti di Hong Kong che proiettano laser per compromettere i dispositivi di riconoscimento facciale usati dal governo cinese. Ecco, se devo immaginarmi una prassi accelerazionista, direi me la immaginerei così. Collettiva, intelligente, tecnologicamente avanzata. E forse andrebbe capito meglio cosa sta succedendo in Cina, perché a me non pare casuale che quest’idea sia saltata fuori esattamente lì, proprio adesso, nel momento in cui la Cina sta platealmente diventando il nuovo soggetto egemone nel ciclo di accumulazione.
Detto questo son d’accordo, serve un’analisi contemporaneamente situata e sistemica, sperando di non cedere ad alcuni soliti automatismi. Per esempio: il discorso di Preciado funziona perché sottolinea il ruolo della riproduzione e della sottrazione alla riproduzione nel capitalismo, e individua gli strumenti e le pratiche utili a sabotare questo ruolo; ma non arriverei a interpretare la centralità attuale del tema demografico e della riproduzione (che mi pare evidentissimo anche dai discorsi dell’estrema destra, dalla alt-right coi suoi «ethnostate» ai ProVita con la loro ingiunzione a figliare) come «nuova epoca» del capitalismo. Per quanto mi riguarda si tratta quindi anche di non commettere lo stesso errore fatto con il lavoro cognitivo come nuova epoca del capitalismo, o con la lettura dello stesso segno della fase di finanziarizzazione, o di tutte le altre semplificazioni che più o meno consapevolmente erano state messe in campo e avevano avuto conseguenze rilevanti anche nella composizione e nell’organizzazione dei movimenti di classe.