Appetite for Extinction
Questa è Chernobyl: darsi fuoco e osservare in uno specchio antico la mutazione che le fiamme infliggono al nostro corpo attraverso un’immagine riflessa.
La nuova miniserie HBO sul disastro nucleare avvenuto in Russia nel 1986 è stata accolta dal pubblico e dalla critica in modo prevalentemente positivo. L’opera scritta da Craig Mazin e diretta da Johan Renck ha le sue lacune: a tratti può sembrare una propaganda antisovietica, e c’è chi sostiene che la tanto acclamata accuratezza storica sia in realtà parziale. La storia viene narrata da più punti di vista: quello principale viene affidato a Valery Legasov, il chimico che ha presieduto ai lavori di indagine e «contenimento» degli effetti catastrofici dello scoppio del quarto reattore e della fusione del nucleo. Ad affiancarlo ci sono Ulana Khomyuk, fisica nucleare, e Boris Shcherbina, vicedirettore del Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica. Mentre il secondo è un personaggio reale, la prima è una creazione narrativa, che rappresenta tutte le persone provenienti dagli ambienti scientifici che collaborarono con Legasov nei suoi lavori. Come ogni storia che si rispetti, Chernobyl ha i suoi antieroi: Anatoly Dyatlov, vice ingegnere capo della centrale nucleare e supervisore del test che ha portato all’esplosione, Viktor Bryukhanov, direttore in carica della centrale e Nikolai Fomin, ingegnere capo. Questa calcolata semplificazione è annunciata da subito nella voce di Legasov, il quale nei primi minuti della prima puntata sta registrando su un magnetofono la sua versione dei fatti, affermando che l’attribuzione delle singole responsabilità in una vicenda intricata come quella di Chernobyl è un compito difficile e rischioso.
Lo scontro fra ambiente scientifico, burocrazia di stato e servizi segreti ha un vincitore morale: il discorso della chimica e della fisica diventa una vera e propria parresia che si oppone al conformismo e alla corruzione del governo e al tentativo di censura e manipolazione del KGB. E poi ci sono i corpi, come ci fa notare Giuseppe Genna in un recente articolo – soprattutto quello di Vasily Ignatenko, uno dei pompieri che viene convocato per placare le fiamme poche ore dopo l’incidente, che viene contaminato e muore completamente sfigurato. Mentre le radiazioni gli sciolgono l’epidermide e gli organi interni trova anche la forza di scherzare con la giovane moglie incinta.
Deep adaptation e gestione del terrore
Anche senza spingere troppo sulla sovrainterpretazione, è abbastanza chiaro che questa serie funziona come una specie di monito verso la catastrofe climatica che stiamo vivendo. In particolare, la contrapposizione fra volontà di verità del discorso scientifico e volontà di potere della prassi politica torna, in forma mutata, nell’epoca dell’Antropocene. Si prenda ad esempio un articolo molto discusso di Jem Bendell, professore di Sustainability Leadership presso l’Università di Cumbria. Il testo si chiama Deep Adaptation: A Map for Navigating Climate Tragedy ed è stato scritto nel corso di un anno sabbatico (2017-2018) e pubblicato a luglio dell’anno scorso. L’articolo ha avuto una diffusione non ufficiale, perchè è stato inizialmente giudicato troppo pessimista dalle procedure di peer-review. Oltre a fornire la consueta sintesi della ricerca accademica sul climate change e sulle policies internazionali (in particolare quelle dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC), Bendell si concentra su due elementi fondamentali: le procedure di minimizzazione (ovvero di censura) dei dati più allarmanti e il disinteresse diffuso per lo studio della relazione fra cambiamento climatico e collasso sociale. La non-linearità del cambiamento climatico funziona come un acceleratore del collasso globale. L’acidificazione degli oceani, la distruzione degli ecosistemi e l’aumento esponenziale delle migrazioni climatiche (per fare alcuni esempi) non si sommano in modo semplice, ma le interazioni fra il superamento di un limite in un ambito e l’altro interagiscono in modo difficilmente prevedibile.
Se il testo di Bendell vi sembra troppo apocalittico, potete anche leggere il report sul rischio esistenziale che colpirà l’umanità entro il 2050 divulgato dal Breakthrough Institute australiano. Anche qui si parla di non-linearità e delle conseguenze sociali del climate change, oltre a criticare come troppo ottimisti i limiti alle emissioni di anidride carbonica e gli scenari previsti dall’IPCC. Ciò che Bendell e il Breakthrough Institute affermano è che il limite di aumento di due gradi della temperatura globale sia in sé una mediazione inservibile. Mantenere un atteggiamento positivo, negare le visioni troppo allarmanti, non contemplare la possibilità dell’estinzione della nostra specie diventano quindi le condizioni di pensabilità dell’Antropocene:
«Le ultime ricerche stimano che in meno di dieci anni le società umane subiranno interruzioni del loro funzionamento di base a causa dello stress climatico. Ciò porterà all’aumento dei livelli di malnutrizione, fame, malattie, conflitti civili e guerra – e non risparmierà le nazioni ricche. In una prospettiva simile risulta inutile l’approccio riformista allo sviluppo sostenibile e ai relativi campi di sostenibilità aziendale che ha fino ad ora sostenuto il percorso di molti professionisti e risulta invece importante sviluppare un nuovo approccio che esplori come ridurre i danni e non peggiorare le cose» (Jem Bendell, Deep Adaptation: A Map for Navigating Climate Tragedy)
Rifacendosi alla teoria della gestione del terrore (TMT) di Pyszczynski, Greenberg e Solomon, Bendell cerca di trovare una motivazione nelle forme di negazionismo scientifico del climate change. Ma attenzione, qui non si sta parlando della triviale incomprensione dei fenomeni meteorologici, né dell’intenzionale offuscamento delle prove della climatologia: questo è un fenomeno più complesso che comprende meccanismi collettivi di reazione ai rischi esistenziali e incapacità di adattamento ad uno scenario di collasso della società civile. Secondo la TMT il complesso delle istituzioni culturali e simboliche della specie homo è orientato alla censura della possibilità dell’estinzione, a livello fisico, individuale, del gruppo e della specie. Questa rimozione sarebbe all’origine della fede, delle patologie neurologiche e della costituzione di collettivi identitari in lotta fra loro. Tuttavia, mentre il fatto della morte individuale e collettiva viene forcluso, la sua rappresentazione continua ad affascinarci e a catturare le nostre limitate riserve di attenzione
You have not been Payin’ attention
Nello splendido Esiste un mondo a venire? di Eduardo Viveiros de Castro e Déborah Danowski viene compilata un’esauriente lista delle narrazioni e delle teorie filosofiche contemporanee che affrontano il problema della fine del mondo. Nel testo viene messo in evidenza come l’accelerazionismo left-oriented di Srnicek e Williams sia concettualmente vicino alla filosofia del Realismo Speculativo di Meillassoux da un lato e all’atmosfera di narrazioni post-apocalittiche come La strada, Il cavallo di Torino e Melancholia dall’altro. Avere un punto di vista inumano significa situarsi sul limite del pensabile, dell’immaginabile e dell’accettabile: c’è chi si lancia oltre il limite, rifugiandosi nel Regno della Singolarità Tecnologica, e chi tenta di restare sul limite, provando a descrivere narrativamente gli effetti sociali e psicologici dell’imminente distruzione della vita umana sul pianeta.
La soluzione anarchica proposta da de Castro e Danowski è fin troppo ottimista: bisognerebbe fare come i collettivi non-moderni: decelerare e porsi in un safe space al di qua del limite. Resta il fatto che, per quanto si possa decidere di compiere operazioni radicali a livello collettivo come un’immensa riforestazione o l’arresto di alcune tecnologie, ormai è troppo tardi per pensare razionalmente a un futuro che preservi le stesse forme di vita del nostro presente. In questi giorni ci sono delle città in India dove il termometro ha superato i 50 gradi celsius. Ma anche senza spostarsi troppo, bastava trovarsi a Bologna sabato scorso per assistere a quindici minuti di grandine furiosa, sostituiti da un repentino aumento della temperatura, al punto che si poteva assistere alla sublimazione del ghiaccio in vapore, mentre ci si districava fra i vetri delle auto fracassati e le strade inondate.
È possibile che non stiamo prestando abbastanza attenzione a questi segni del tempo? Leggendo Scansatevi dalla luce di James Williams possiamo capire come l’erosione e la cattura della nostra attenzione collettiva non causano solo degli effetti negativi a livello di performance cognitive individuali, ma erodono la stesse fondamenta dell’etica e della prassi politica:
«Quando la luce del sole è compromessa, ne risulta una distrazione epistemica, ossia la diminuzione delle facoltà di base che consentono a una persona di definire e di perseguire i propri scopi; le facoltà essenziali per la democrazia come la riflessione, la memoria, la previsione, l’ozio, il ragionamento, la progettualità. È qui che le distrazioni dell’economia dell’attenzione danneggiano più direttamente le fondamenta della democrazia» (James Williams, Scansatevi dalla luce)
Per questo è interessante registrare l’elevato interesse per le narrazioni apocalittiche: si tratta di un modo per scongiurare il tempo della fine, rifugiandosi nella sua versione controllabile, racchiusa nella quarta parete di una storia, oppure, come afferma l’antropologo Matteo Meschiari, siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma epistemico-immaginativo?
«La letteratura distopica e apocalittica sul collasso ambientale non è militanza ecopolitica travestita da letteratura, ma è la traccia in superficie di uno shift cognitivo: dalla descrizione alla narrazione, dall’economia politica alla cosmopolitica, dalle tecnoscienze alle tecnologie dell’immaginario» (Matteo Meschiari, La grande estinzione)
Chernobyl, così come centinaia di altre narrazioni apocalittiche meno riuscite, si situa al centro di quest’ambigua oscillazione. Per poter approfondire la nostra sete di apocalisse bisognerebbe analizzare il contenuto delle narrazioni, scollegandolo dalla forma escatologica, come fanno Danowski e De Castro? In questo modo, si potrebbero giudicare adeguate tutte quelle storie che espongono il finale di un’apocalisse senza Regno né redenzione e rigettare le utopie di palingenesi e rigenerazione. Questa soluzione, bisogna ammetterlo, ci sembra parziale e inefficace.
Traccia atomica
In un testo del 1960 di Günther Anders, Il tempo della fine, il tema della minaccia di estinzione della specie a seguito di una guerra nucleare è interpretato in senso ontologico e metafisico. La possibilità dell’olocausto assoluto della nostra specie viene legata al progresso tecnologico svincolato da un controllo politico. Noi già viviamo nel tempo della fine, perché la fine dei tempi è divenuta merce e oggetto tecnico e non una semplice ideologia religiosa. In questo tempo la speranza diventa ideologia e la disperazione l’unico atteggiamento razionale. Il meccanismo di ripartizione delle responsabilità (in altre parole, l’etica) è incrinato; carnefice e vittima sono unificati nella super-entità della specie, che non desidera altro al di fuori della sua stessa soppressione. Non a caso questo piccolo libro è rievocato da De Castro e Danowski come un trattato etico ed ontologico sull’Antropocene.
Il divenire-specie dell’uomo è anche il tema centrale de Il clima della storia di Dipesh Chakrabarty. Mentre lo storico indiano insiste sul carattere positivo di questo evento, attribuendo all’essenza della specie un surplus di responsabilità, il filosofo tedesco assume al contrario che l’enormità dell’Apocalisse renda indifferenti e disinteressati coloro che ne sono colpiti. Dentro questo disinteresse, si potrebbe aggiungere, germogliano la disattenzione e la curiosità per le pseudo-occupazioni, così come, per Heidegger, dalla negazione dell’angoscia esistenziale sorge il dissolvimento dell’io nel «si» impersonale. Anders si lega ad Heidegger nell’interpretazione fortemente negativa del progresso tecnologico – per lui la fine del mondo non costituisce un caso di estremo sadismo e volontà autodistruttiva della specie, ma un effetto collaterale della disumanizzazione automatizzata.
Il gesto che darà inizio all’apocalisse non sarà distinguibile da qualsiasi altro gesto tecnico e sarà compiuto (nella misura in cui non si produrrà in modo totalmente automatico, ovvero come semplice reazione di uno strumento all’azione di un altro strumento) in modo svogliato da un qualche impiegato che seguirà innocentemente l’istruzione di un segnale luminoso. (Günther Anders, Il tempo della fine)
Così come Marx aveva individuato nell’evoluzione tecnologica un principio di unificazione delle macchine semplici e monofunzionali in mega-macchine complesse e polifunzionali, allo stesso modo Anders pensa che l’evoluzione della cultura umana abbia prodotto un accentramento della potenza distruttiva, connesso con la riduzione della meschinità e della violenza individuale richiesta. L’enormità delle catastrofi nucleari (Hiroshima, Nagasaki, Chernobyl, Fukushima) genera un fallimento nella nostra modalità di concepire la responsabilità collettiva e individuale. L’automazione (burocratica e tecnologica) rende inefficienti le nostre teorie etiche. Il danno atomico scavalca la ragione pura e pratica e si installa direttamente nell’immaginazione, dove viene continuamente rievocato in forma spettrale. La traccia della bomba nelle narrazioni giapponese (si veda quest’articolo di Giuseppe Previtali e quest’altro di Jacopo Nacci) ha creato un vero e proprio mutamento nell’immaginario, così come quello della Zona nella letteratura e nella cinematografia russa.
Il second impact di Neon Genesis Evangelion viene innescato dal tentativo di estrarre da un entità divina (Adam) una fonte inesauribile di energia (l’elemento S²). A seguito di questo furto prometeico si è prodotta un’enorme esplosione che ha completamente sciolto l’Antartide e ucciso miliardi di esseri umani. Il third impact, invece, dovrebbe distruggere le barriere fisiche e psicologiche che separano gli esseri umani fra loro, perseguendo il progetto per il perfezionamento dell’uomo, nell’eliminazione delle sofferenze di una vita singolare per generare un nuovo super-organismo – in altre parole una versione simbolica del divenire-specie dell’uomo. In una sorta di inversione del paradigma giudaico-cristiano, in Evangelion l’eschaton è posto all’inizio della storia, mentre l’Eden al suo compimento. Il tempo dell’umanità e delle esistenze individuali dovrebbe terminare con questo esperimento umano di teopoiesi.
In fondo l’escatologia di Evangelion non differisce di molto da quella della Singolarità Tecnologica o del dio a venire di Quentin Meillassoux: si tratta di visioni e aspettative fondate sulla potenza messianica dell’astrazione. La traccia atomica è l’engramma o immagine dialettica che fiorisce dall’incontro fra il pensiero umano e le possibilità opposte della sua estinzione e della sua eternificazione.
«La dannazione (salvezza?) della morte è negata nel regno dell’astrazione; l’estinzione non è una possibilità nell’ambito delle pure relazioni matematiche. Per questo il capitalismo è eterno e (sfortunatamente) l’umanità sembra essere condannata. L’eternità del capitalismo, infatti, si basa sull’annientamento della vita attraverso il processo di astrazione: il valore astratto ha preso il sopravvento e ha soggiogato la concretezza della vita, della produzione, del consumo e del linguaggio.» Franco «Bifo» Berardi, Game Over
Mentre l’apocalisse atomica porta a compimento la pulsione di morte, facendo ritornare ad uno stadio litico ed inorganico tutti gli enti che l’esplosione incontra nella sua espansione, la divinizzazione tecnologica brama la stessa pietrificazione, nella speranza di una disattivazione della morte e cristallizzazione del principio vitale in una forma di sopravvivenza digitale. Si tratta di due forme diverse dello stesso pleroma: una che estingue la vita in tutte le sue forme, e l’altra che annulla il divenire, estraendo la mente dal corpo e dissolvendo il principio di individuazione.
Appetite for destruction/distraction
«Per evitare che le nostre menti riflettano sugli orrori del mondo, le distraiamo con un mondo di frivolezze e altra robaccia effimera. Il metodo più efficace per agevolare la cospirazione è l’impegno continuo, e chiede soltanto che le persone non perdano di vista l’obiettivo: i loro televisori, la loro politica estera, i loro progetti scientifici, le loro carriere, il loro posto in società o nell’universo ecc…» Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana
«Non dovremmo forse ammettere che il moderno uomo tecnologico non è motivato dalla passione di distruggere, ma deve essere visto come un essere totalmente alienato, con un orientamento prevalentemente cerebrale, che ha scarso amore ma anche scarso desiderio di distruggere, che è diventato, in senso caratterologico, un robot, ma non un distruttore?» Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana
Resta ancora da capire in che modo la brama di estinzione della specie umana sia legata ad una struttura psico-fisiologica. In Anatomia della distruttività umana, Erich Fromm traccia una genealogia degli atteggiamenti aggressivi, violenti e necrofili della nostra specie. Per farlo confronta varie prospettive: la psicanalisi freudiana, l’etologia di Lorenz, il comportamentismo, l’antropologia comparata e le biografie di gerarchi nazisti. L’ipotesi di Fromm è che nella nostra specie non esista una vera e propria componente invariante che ci caratterizzerebbe come superpredatori o come l’animale più crudele e pericoloso. Esistono, certamente, a livello individuale, dei casi patologici di sadismo e necrofilia, ma questo non basta a spiegare fenomeni macroscopici come la produzione di armi atomiche o la distruzione degli ecosistemi. Piuttosto, eventi come Chernobyl o come il climate change dovrebbero essere interpretati attraverso le categorie della violenza conformista e dell’automazione della distruzione. Nel caso dell’esplosione del reattore della centrale nucleare russa non è chiaro il meccanismo di attribuzione delle colpe: ci sono degli individui che hanno commesso delle scelte errate, tuttavia esiste una responsabilità politica e burocratica (il partito e i servizi segreti volevano minimizzare e censurare la pericolosità dell’accaduto); infine, vi è una responsabilità collettiva, perché l’energia atomica permetteva la sussistenza di milioni di persone. Lo stesso fenomeno è visibile nelle politiche climatiche: il discorso scientifico, per essere accettabile, deve avere come premessa implicita l’adeguazione ad un tono positivo e spassionato. Anche se oggi non abbiamo il KGB a censurare i malfunzionamenti dell’industria sovietica per non perdere la faccia di fronte agli altri stati, vaste operazioni di intelligence sono in atto a livello nazionale ed internazionale. È l’estensione della formula «neither confirm nor deny», come osserva James Bridle in Nuova era oscura.
La differenza fra l’era della Guerra Fredda e la nostra è che la sorveglianza, la censura ed il complotto sono allo stesso tempo occultati ed ipervisibili. L’erosione delle nostre risorse collettive di attenzione non è un mistero: basta pensare che nella seconda puntata dell’ultima stagione di Black Mirror, Smithereens, il CEO di un social network simile a Facebook viene accusato da un tassista di aver creato una piattaforma di distrazione di massa. In particolare, la piattaforma viene accusata di essere troppo addictive. Deconcentrato da una notifica, l’uomo avrebbe commesso un grave incidente nel quale avrebbe perso la vita la sua fidanzata. Ironicamente, questo episodio è diffuso su Netflix, che utilizza esattamente le stesse tecniche di cattura dell’attenzione delle altre piattaforme digitali, quando non è troppo impegnata a estrarre dati dagli utenti dalle scelte compiute negli episodi interattivi.
Fra letteratura e documentari che affrontano il tema dell’economia dell’attenzione non si può certo dire che la manipolazione delle emozioni, delle scelte e delle forme di vita da parte delle grandi piattaforme capitaliste sia nascosta. Però, anche se tutto ciò è davanti ai nostri occhi, come il cambiamento climatico, sembra che non ci interessi.
Padre, non vedi che sto bruciando?
«Proprio come, nel caso del dormiente, uno stomaco troppo pieno non scorge nel contenuto del sogno la sua sovrastruttura ideologica, la collettività non la scorge nelle condizioni di vita economiche. La collettività le interpreta, le spiega, esse trovano nel sogno la loro espressione e nel risveglio la loro interpretazione» (Walter Benjamin, I «passages» di Parigi)
«La nostra crisi attuale non si presenta solo sotto forma di riscaldamento globale ma anche sotto forma di capacità di attenzione danneggiate. La nostra missione, allora, non è solo riformare il mondo materiale, ma anche ristrutturare il nostro mondo interiore, così che possiamo prestare attenzione a ciò che conta» (James Williams, Scansatevi dalla luce)
Nell’Interpretazione dei sogni, Freud menziona il caso di un padre che si addormenta mentre sta vegliando accanto alla stanza dove giace il corpo esanime del figlio. Nel sogno il figlio compare al cospetto del padre ed afferma «non vedi che sto bruciando», il che può essere interpretato in riferimento al piccolo incendio che stava avvenendo nella stanza del figlio, perché alcune candele avevano fatto colare della cera incandescente. Tuttavia, nell’interpretazione lacaniana, il sogno non trasforma simbolicamente un evento materiale in un’immagine fantasmatica, ma consente l’incontro con un piano della realtà più orribile e reale, quello nel quale il figlio ritorna dal regno dei morti ad accusare il padre di non aver fatto abbastanza per salvarlo. Si potrebbe utilizzare questa duplice interpretazione per parlare del nostro rapporto con le finzioni e le catastrofi. Da un lato, mentre il clima globale sembra essere uscito dai suoi cardini, le finzioni apocalittiche come Chernobyl consumano la nostra attenzione, che potrebbe essere rivolta alla ricerca immediata di soluzioni collettive. Dall’altro, all’interno delle finzioni noi incontriamo l’aspetto orrido del Reale, e, come sostiene Matteo Meschiari, ci esercitiamo per futura sopravvivenza in un mondo devastato e inospitale.
L’età dell’Antropocene e l’età dell’Attenzione sono caratterizzate da una dissoluzione sempre più evidente dei confini fra fatti e finzioni, e da strani capovolgimenti di senso. Concordo con Claudio Kulesko quando invita a «coltivare le tenebre» nel suo articolo sul Realismo Depressivo. Questo significa riconsiderare il potere conoscitivo e la portata politica dell’immaginazione melanconica. Questo significa, da sonnambuli, perdurare nella tenebra del sogno senza voltare lo sguardo al suo ombelico perturbante.