Abbandonare il futuro

Il paradiso può aspettare: il compito difficile che ci lega è ritrovarci, tra una ballata eterea di Organ Tapes e l’insurrezione degli spazi di Tiqqun e Comitato Invisibile

In un precedente articolo, intitolato Nascere nel futuro perduto, ho cercato di sistematizzare un sentimento sfuggente, pervasivo, che intuisco attanagli la generazione ultima e si costituisca come lo spirito di questi tempi fuor di sesto. Se l’hauntology di Fisher – canonicamente intesa come nostalgia per un futuro perduto si rivolge a quel tipo di depressione che ha smarrito l’oggetto del desiderio, che ha visto il futuro arrivare e poi sgretolarsi, il sentimento post-hauntologico nasce invece fra le ceneri di questo lutto. Una nebulosa fluida in cui l’eternità del presente si dischiude fra un passato svanito, futuri perduti e futuri irrealizzabili. 

Dopo aver pubblicato l’articolo, una persona a me cara più grande di qualche generazione mi ha scritto: “Ho sempre pensato che, per natura, per spirito evolutivo, ogni generazione sentisse in sé la promessa di essere migliore di quella dei propri genitori, o almeno: più felice. Nel leggerti invece questa promessa mi sembra saltata”. Definisce la post-hauntology di cui parlo come una sorta di “collasso edonista”. 

A tratti mi mette a disagio leggere queste parole. È possibile che l’unico orizzonte che riesco a pensare sia quello del collasso? Che l’unico sentimento di cui riesco a parlare sia quello del dolore? Dove mi porta tutto ciò? 

Spesso dico alle persone che mi stanno intorno che in questo periodo sto delirando, che tutto ha smesso di avere un senso e allora devo smettere di averlo anche io. 

Lo Stato italiano condanna a morte un uomo sotto la tortura del 41bis. Un gruppo musicale di ragazzi viene indagato per istigazione a delinquere e associazione terroristica. Un amico mio mi ha detto che per mesi, prima di iniziare il turno di lavoro, vomitava ogni mattina. Un cellerino urla a una manifestante di succhiargli il cazzo. 

Parlare del dolore, intuirlo negli spazi interstiziali che abitano il marasma del sociale, è forse l’unico modo, per me, di rimanere ancorato a una realtà che rifiuto. La promessa saltata è il senso dell’essere di questi tempi. La felicità che un tempo veniva percepita come collettiva, come collante di un desiderio, ora sta collassando. Ciò che fra le ceneri rimane è un dolore, un particolare tipo di dolore, esistenziale, sistemico. 

Se questa è la tendenza, se questo è il mondo, occorre calarsi nella sua dislocazione, nella sua contraddizione violenta. 

Il collasso edonista si riferisce alla fatica di vivere un piacere, e di percepirlo, su scale di tempo così ridotte. Una felicità momentanea che, nel momento in cui si incarna, mette subito a contatto con la sua finitudine. Spesso, constatare lo stato di grazia nel quale ci si ritrova, porta subito a riflettere sul cosa si stia dimenticando, sul come sia possibile che ciò stia accadendo. È doloroso, certo. Ma quindi, dove risiede la felicità? Dove trae forza la ricerca del piacere?  Insomma, come vivere nel futuro perduto? 

È una risposta assai complessa quella che sto cercando di dare, di darmi. Viviamo inevitabilmente da reazionari, il terreno su cui ci muoviamo è instabile e allo stesso tempo immobile. La sofferenza si dipana nelle sue biografie e le mie parole possono intercettarne solo una parte. 

Ci sono periodi in cui la mia ricerca del piacere, del desiderabile, si struttura su un processo schizoide, profondamente alterato. Durante la settimana reprimere e accumulare per poi esplodere bulimicamente alla fine della stessa. Un ossessivo sfuggire dall’inoperosità, dal terrore di essere nulla, per poi arrivare a incarnare quello stesso vuoto inoperante che si esprime nelle 6 di mattina, nelle feste, negli after che non finiscono mai, nel delirio più ontologico. Una psicopatologia che assume gli stessi tratti dell’esistenza, scalcitante fra un’ossessione per il domani, che tutto abbia un senso, e allo stesso tempo la paura che questo si realizzi, che arrivi quel momento in cui ci devi fare i conti, che arrivi la mattina. 

Un amico sostiene che lui sente di dover morire ogni giorno per ricordarsi che è vivo: una reincarnazione perpetua che abbandona ogni idea del domani, ogni rifugio in desideri irrealizzabili, perché il collasso del presente è l’unica cosa vera che è rimasta, l’unico spazio da vivere. 

Per questo motivo credo che il dolore post-hauntologico che ci accomuna appare ai miei occhi così ossessivamente interessante. In un mondo che smette di essere eccitante, di fronte la continua de-libidinizzazione del domani, alla ricerca costante di qualcosa in cui credere: è forse arrivato il momento di abbandonare il futuro, di rendersi conto che il nostro desiderio è l’impensabile, il linguaggio che parla non attiene all’esistente. 

“Heaven can wait / ’Til I’m old and asleep. Nel 2022 è uscito 唱着那无人问津的歌谣 / Chang Zhe Na Wu Ren Wen Jin De Ge Yao, l’ultimo album di Organ Tapes, nome d’arte di Tim Zha. Come Bladee e la Drain Gang, sono convinto che Zha parli delle nostre esistenze con un’emotività di fondo che si esprime nella sua musica, nelle atmosfere che riesce a creare. Di quello che considero come un genere post-hauntologico, Organ Tapes è forse la voce più autentica. Suoni dolcemente sintetici, fra flauto e corde, la sua voce cristallizza atmosfere metropolitane che annebbiano il trascorrere del tempo. Fruscii di sottofondo, risate, rumori che si incastrano, spazi quotidiani spesso violenti. Con dei campionamenti disorientanti ci mette a contatto con quell’inquieta familiarità, con quella nebulosa fluida metropolitana che attraversiamo ogni giorno. Una sorta di melodia dancehall triste, ma non per questo non felice. Dice in “Heaven Can Wait”: 

But you run from the faults of each day 
I was tired of what I had made 
Things you never expected to see 
Cold as a dawn on a beach 
Cold as a snow and asleep 
Holding your warmth in the sheets

“Ma tu scappi dai difetti di ogni giorno 
Ero stanco di quello che avevo fatto 
Cose che non ti saresti mai aspettato di vedere 
Freddo come un’alba su una spiaggia 
Freddo come la neve e addormentato 
Tenendo il tuo calore nelle lenzuola” 

L’estetizzazione del dolore, dei difetti di ogni giorno, la ricerca del calore umano. Sono mesi ormai che ascolto ossessivamente Organ Tapes mentre mi sposto per Roma, con il mio zaino che mi ricorda che ho sempre qualcosa da fare, e il casco che mi ricorda sempre che ho un posto dove andare. Eppure, chiuso fra le melodie di Zha in una dimensione a parte fra le mie cuffiette, il collasso appare in tutta la sua spettacolarità. Quando dice che il paradiso può aspettare, mi sta riportando con i piedi per terra più di chiunque mi dice che devo costruirmi un domani, che devo organizzarmi la vita, che devo renderla prevedibile. 

Abbandonare il futuro, in questo senso, vuole essere esattamente quello che sembra: una fuga. Vuol dire ritrovare il senso delle nostre esistenze, dei nostri dolori; non nel paradigma della logica, che è sempre prevedibile, quanto nell’irriducibile singolarità dell’essere-in-situazione. Scrive Tiqqun, il collettivo francese pre-Comitato Invisibile

Non temere il proprio tempo è una questione di spazio. Nello squat. Nell’orgia. Nello scontro. Nel treno o nel villaggio occupato. Alla ricerca di un free party introvabile in mezzo a sconosciuti. Faccio l’esperienza di questo leggero spostamento. L’esperienza della mia desoggettivazione. Io divento una singolarità qualunque.

Se diventa necessario abbandonare l’idea del tempo, se il paradiso può aspettare, il terreno sul quale entrare in conflitto diviene quello dello spazio. 

Parafrasando quello che dice Organ Tapes in “Here and Now”, se il paradiso va, per ora rimarrò qui. In questo nesso che lega una melodia dancehall con l’anarchismo insurrezionalista intuisco una direzione affascinante, quantomeno attraente. D’altronde, come sostiene il Comitato Invisibile, le insurrezioni contemporanee non sono animate da ideologie politiche, bensì da verità etiche. Quello che sentiamo nel profondo, che se condiviso si rivela autentico, si rivela vero, è il più rivoluzionario dei sentimenti che ci portiamo dietro, ognuno con le sue forme, ognuno con la sua biografia. 

Da questo punto di vista, Tiqqun, Comitato Invisibile e Organ Tapes si fondono nella ricerca di una dissoluzione del sé, nella consapevolezza di un desiderio più grande, nell’irriducibile e inoperante qui e ora. 

Seguendo le parole di Tiqqun, solamente nel conflitto con la fissità delle forme, nella guerra civile, nella gioia della rivolta, lì dove i luoghi e i tempi vengono risemantizzati o perdono di significato, diviene chiaro chi siano gli amici e chi i nemici. Il calore nelle lenzuola stabilisce l’unica forma di autorità per chi, come me, ha abbandonato la narrazione sulla linearità del Fuori. Dice Agamben che l’esigenza della legge, di un’autorità coercitiva, si è stabilizzata sulla progressiva scomparsa del comune, sull’affermazione della disseminazione dei corpi. Porsi al di sopra dell’esperienza diviene così prerogativa del potere, dei dispositivi statali. Ma, come scrive Simone Sauza in Tutto era cenere, questa è la stessa prassi rituale dell’uccidere seriale. 

Elaborare questa violenza che unisce i serial killer con le leggi dello Stato mi ha portato su una strada già di per sé difficilmente percorribile. Ma quantomeno invitante. L’unico mondo che riconosco come legittimo, l’unica esigenza che rispecchia la necessità che abbiamo di convivere, è il solo spazio che definisco reale, quello dei corpi che si legano, che co-spirano, che respirano assieme. Solo così, riprendendo le parole di Bifo, è possibile trasformare la paura dell’estinzione con la coscienza tranquilla dell’impermanenza, dell’inoperosità, del coraggio di riconoscersi e dell’esigenza di ritrovarci. 

Essere con-temporanei quindi, secondo Agamben, vuol dire essere in-temporanei. Vivere dentro il tempo, dentro le sue mancanze e dentro le sue contraddizioni, nella irriducibile e perturbante consapevolezza di essere presenti, di essere im-permanenti. 

“Nello squat. Nell’orgia. Nello scontro. Nel treno
o nel villaggio occupato. Noi ci ritroviamo. Noi ci ritroviamo
tra singolarità qualunque. Cioè
non sulla base di una comune appartenenza,
ma di una comune presenza” 

La comune presenza, nella perdita di mondo, arriva ad essere l’unica cosa realmente importante in questi tempi fuor di sesto. Hannah Arendt, ai sionisti che la accusavano di non amare il popolo ebraico, rispondeva: “Io non amo i popoli, amo solo i miei amici”. Ora che tutto sprofonda nella finzione del sociale, dove tutti necessitiamo di terapie cognitivo-comportamentali, dove le logiche che ci governano ci forzano all’insicurezza costante e la repressione sistemica rende il tutto prevedibile, ritrovarci è il compito difficile che ci lega. 

Non so se questo vuole essere un inno alla rivolta, una speculazione del pensiero o un lamento delirante. Mariano Tomatis, a una presentazione di Incantagioni, diceva che in una società così opprimente la magia si rivela necessaria perché apre nuove narrazioni rispetto a quelle dominanti. Così forse vanno prese le mie parole, con quell’aspetto magico che esclude il realismo, lì dove l’impossibile diventa pensabile e il presente diventa imprevedibile.