Ragazza King Kong

Anarcofemminismo, porno, thriller antisociali e subutex: piccola introduzione al mondo di Virginie Despentes

«Como dos vampiros dormiremos sobre tu tumba, calentaremos tus huesos, como dos vampiros vendremos a saciar tu sed de sexo, de sangre y de testosterona», scrive Paul B. Preciado in chiusura di Testo Tossico. I due vampiri sono lui e VD, «la Signora delle Nere Lettere Francesi»: VD è Virginie Despentes.

Virginie è una ragazza King-Kong: «non sono dolce non sono amabile non sono una borghese», si rivela nel suo saggio cult. Un’anarcofemminista che da giovane ha frequentato la scena punk, ha scelto di prostituirsi, ha esordito a ventiquattro anni con un romanzo collerico e provocatorio. Dopo l’incontro con Preciado ha scelto di «abbandonare l’eterosessualità», e lo rivendica politicamente: «è molto più facile essere una femminista quando sei lesbica», dice nelle interviste. Le protagoniste dei suoi romanzi sono eroine sanguinarie, detective private, giornaliste rock, pornostar con nomi da fumetto: La Iena, Vodka Satana, Pamela Kant, Lydia Bazooka.

King Kong Théorie, il saggio-memoir di Despentes del 2006 di recente ripubblicato in Italia con una nuova traduzione, venne ai tempi considerato come il manifesto di un nuovo tipo di femminismo. Negli anni della seconda ondata, Virginie faceva proprie tematiche queer come il superamento del binarismo di genere: «King Kong come metafora di una sessualità che precede la distinzione dei generi quale è stata imposta politicamente intorno alla fine del XIX secolo. King Kong è al di là della femmina e al di là del maschio. È alla cerniera tra l’uomo e l’animale, l’adulto e il bambino, il buono e il cattivo, il primitivo e il civilizzato, il bianco e il nero. Ibrido, di prima della differenziazione dei sessi. L’isola di questo film rappresenta la possibilità di una forma di sessualità polimorfa e superpotente». Da ragazza, andare in giro con la testa rasata le ha permesso di far saltare in aria i codici stabiliti, in particolare quelli che riguardano i generi sessuali: «Essere punk-keupon vuol dire necessariamente reinventare la femminilità perché si tratta di stare in giro, chiedere l’elemosina, vomitare birra, sniffare coca fino a restare basiti, farsi portar via dalla polizia […] È tutto il concetto del punk, non fare come ti dicono di fare». E nonostante si autodenunci per aver scritto un libro un po’ da «little white», ha una visione marxista della società, cita Angela Davis e il suo notorio Woman, Race, Class

Per Despentes, il sistema economico ha bisogno di designare un dominante per permettergli di esercitare il suo potere senza restrizioni: si forma così un carattere virile asociale, pulsionale, brutale e criminale. Per questo bisogna «liberarsi dal machismo, una trappola per stronzi che rassicura solo i matti». Una vicenda centrale e determinante della sua vita è lo stupro che subisce a diciassette anni insieme a un’amica, di ritorno verso casa in autostop dopo un concerto. Scheletro del capitalismo, la violenza sessuale è una rappresentazione cruda e diretta dell’esercizio di questo potere; sono però le donne a essere considerate responsabili del desiderio che suscitano: «Nei primi anni dopo lo stupro, sorpresa penosa: i libri non potranno fare niente per me». Alle vittime non è concessa nemmeno un po’ di letteratura, il conforto dell’appartenenza. Al cinema, forse, qualche tentativo di rappresentazione: L’ultima casa a sinistra di Wes Craven, L’angelo della vendetta di Abel Ferrara e Non violentate Jennifer di Meil Zarchi sono tutti film di registi uomini che raccontano come delle donne infliggano vendette ultrasanguinose ai loro aggressori. Despentes cita le pellicole per evidenziare un tratto dell’immaginario maschile: di fronte allo stupro, per il maschio, la prima reazione sarebbe un bagno di sangue. Allo stesso tempo, film di questo tipo sembrano chiedere alle donne perché non si difendano più brutalmente. Ma come fare, se «un’impresa politica implacabile e ancestrale» insegna loro a non ribellarsi? È una duplice coercizione: essere portate a subire e allo stesso tempo sentirsi dire che non c’è nulla di più grave. È una spada di Damocle fra le cosce. 

Per questo le ragazze dei suoi romanzi non si pentono di ciò che fanno, come La Iena in Apocalypse Baby: «Lei non crede. È sola con la sua merda. Fa di tutto per non dimenticare [di aver ucciso un uomo]. Più che altro per orgoglio, non c’entrano i rimorsi.» Inevitabilmente, nel suo esordio del 1993 Baise-Moi («Scopami») c’è tutta la rabbia e la violenza di una ragazza che vuole liberarsi del suo fantasma: Manu e Nadine, le protagoniste che subiscono lo stesso sopruso, i primi uomini li ammazzano quasi per caso; poi continuano, perpetrando la loro vendetta verso quelli che incontreranno durante il loro viaggio. Quando nel 2000 diventa un film, che la scrittrice scrive e dirige assieme all’ex pornoattrice Coralie Trinh Thi, fa inevitabilmente scandalo: il Consiglio di Stato francese lo censura, relegandolo al circuito dei film porno. Solo il distributore italiano lo paragona a «un film di Ken Loach con in più il sesso». 

Il trailer di Baise-Moi

«I film dovrebbero essere fatti da donne carine che mostrano cose carine» scrive un critico citando Renoir, ma di essere carina, a Virginie, non può importar di meno: «Sono più vicina a King Kong che a Kate Moss, come tipa. Sono il genere di donna che gli uomini non sposano, con cui non fanno figli, parlo dalla mia posizione di donna sempre troppo in tutto, troppo aggressiva, troppo rumorosa, troppo grossa, troppo brutale, troppo irsuta, troppo virile, mi dicono». Forse però, alla fine, nemmeno i thriller antisociali contro il fantasma fanno abbastanza: «Per me lo stupro, prima di tutto, ha questa particolarità: è ossessionante. Ci penso sempre. Da vent’anni, ogni volta che credo di essermene liberata, ci ripenso. Per dirne delle cose diverse, contraddittorie. Romanzi, novelle, canzoni, film. Immagino sempre di potermene liberare un giorno. Liquidare l’avvenimento, svuotarlo, esaurirlo. Impossibile, è fondatore. Di ciò che sono in quanto scrittrice, in quanto donna che non è più completamente tale. È nello stesso tempo ciò che mi configura, e ciò che mi costituisce».

Quindi si rimette in piedi facendo soldi, andando a letto con il nemico, scegliendo di fare occasionalmente la sexworker. È aumento dello status notorio, «empowerment», è riavvicinarsi al proprio desiderio, uccidere l’angelo del focolare. D’altronde, lo dice: la vergogna pubblica della puttana non è poi così diversa da quella della romanziera, che vende ed esibisce il suo privato più intimo, che pure dà sollievo e tiene compagnia a quelli che nessuno vuole. 

Pornostreghe

«Respect the cock! And tame the cunt! Tame it!»
Frank T.J. Mackey in Magnolia di Paul Thomas Anderson

«Bisogna far esplodere l’organo sessuale, quello che è riuscito a farsi passare per l’origine del desiderio, la materia prima della scopata, quel centro dove il piacere ora si prende ora si dà.»
Manifesto contra-sessuale, P.B.Preciado

Per Virginie Despentes il porno è apotropaico, un ansiolitico: una rappresentazione cinematografica del desiderio senza sublimazioni sociali. Non è importante che sia veritiero, alla stregua di un qualsiasi film: ciò che conforta, guardandolo, è proprio la buona riuscita della performance sessuale, sfrondata da tutte le ansie da prestazione che si devono affrontare durante un incontro nella vita reale. Ma soprattutto, ancora una volta, è una questione di classe: il porno è il Lumpenproletariat dello spettacolo. Le attrici hard scelgono radicalmente di rinnegare i ruoli sociali di buona madre, buona moglie, donna rispettabile; per questo vengono socialmente escluse. Ci si preoccupa con ipocrisia di preservarne una presunta dignità, come se questa venisse minacciata svolgendo delle pratiche sessuali spinte davanti a una telecamera, e non di quali siano le loro condizioni di lavoro, i termini dei contratti che firmano, della loro impossibilità di controllare la propria immagine una volta finito di lavorare o che vengano retribuite quando questa viene utilizzata. «La morale salvaguardata è quella che vuole che solo le classi dirigenti facciano l’esperienza di una sessualità ludica. Il popolo, lui, se ne resterà ben tranquillo, troppa lussuria turberebbe indubbiamente la sua applicazione al lavoro.»

Paris Hilton, lei sì, può permettersi di fare il porno: appartiene a una classe sociale, prima che al suo sesso, ed è un’ereditiera, mica un’attrice locale. Jamel Debbouze, sul palco di Nulle part ailleurs, storico programma della TV francese, le dice «Ti ho vista su internet», ma lei non batte ciglio. Non perché dia prova di una particolare forza di carattere, ma perché può permetterselo, «può permettersi di scopare davanti a tutti»; dice Despentes: «prima di essere una donna sottoposta allo sguardo maschile, è una dominante sul piano sociale, che può occultare il giudizio del meno agiato». Paris «represents the zenith of the sexopolitical production of the luxury white heterosexual technobitch» aggiunge Preciado in Testo Junkie

In un documentario del 2009 intitolato Mutantes (Féminisme Porno Punk) Despentes e Preciado (all’epoca ancora Beatriz), assieme ad Annie Sprinkle, Norma Jean Almodovar, Carol Queen, Scarlot Harlot e altre, raccontano molto bene cos’è il movimento femminista pro-sex e post-porno.

Come per tutti i campi, finché il potere e il denaro resteranno appannaggio degli uomini, il porno verrà pensato e prodotto da uomini per gli uomini, distorcendo il desiderio femminile attraverso lo sguardo maschile. Anche l’attrice – vera protagonista del film, il cui corpo viene maggiormente mostrato e valorizzato – ha una sessualità maschile, o meglio: attraverso di lei l’uomo immagina ciò che farebbe se dovesse soddisfare altri uomini. Niente di nuovo, in fondo, da quello che diceva anni prima Valerie Solanas nel suo Manifesto SCUM: «Scopare è per l’uomo una difesa dal desiderio di essere femmina. Il sesso, di per sé, è una sublimazione.» Oggi Andrea Long Chu lo riprende in modo radicale nel suo Femmine: «La verità è che non sono mai stata in grado di distinguere l’attrazione per le donne dal voler essere come loro. Per anni il primo desiderio ha tenuto in bocca il secondo come una pillola troppo pericolosa da ingoiare». Altro che invidia del pene. 

Parigi brucia

E infine c’è Vernon Subutex (anche lui con un nome «pulp», di un farmaco: la buprenofina), il protagonista della Trilogia della città di Parigi da poco ripubblicata in Italia. Una specie di Rob Fleming di Nick Hornby, uno che negli anni Ottanta era un fico, il proprietario del Revolver, un negozio di dischi che però agli inizi degli anni 2000, per colpa di Napster, ha dovuto chiudere.

«Passata la quarantina, Parigi accetta solo i figli dei proprietari di immobili, il resto della popolazione prosegue la propria strada altrove. Vernon è rimasto. Forse ha sbagliato». Per anni Vernon resta chiuso in casa, senza più un soldo e senza una compagna fissa; la maggior parte dei suoi amici hanno lasciato la città spostandosi in provincia, o sono morti. Gli resta Alexander Bleach, un cantante rock conosciuto anni prima dell’ascesa, quando era ancora solo un giovane ragazzo cliente del suo negozio, e che lo aiuta a pagare l’affitto. Quando anche lui viene trovato morto in una vasca da bagno, il nostro viene sfrattato, e passa di divano in divano a casa di gente che non vede da molti anni, fingendo di essere a Parigi solo di passaggio e vivere in realtà in Canada, fino a quando non finisce per strada. La storia di quest’uomo che resta indifferente davanti a tutti i suoi fallimenti è quindi anche la storia di tutti i suoi vecchi amici, delle sue vecchie fiamme, dei suoi conoscenti, di quelli che incontrerà vagando per la città: insomma il classico racconto generazionale, perfetto per una serie TV ma anche tipico di un romanzo ottocentesco e corale.

Ma soprattutto, quella di Vernon Subutex è la storia della città stessa, che quando riusciamo a fonderci nel suo movimento, fatto di luci che attraversano i corpi, ci fa sentire vivi; ma che nel suo vorticoso e feroce ritmo, dentro al quale «bisogna sempre sostenere di avere un posto», è anche capace di annullare gli ultimi: non si può dormire sulla linea 8, entrare nell’Apple Store per riscaldarsi o vagare senza nessuna particolare meta. Allora ci si ritaglia degli spazi di sovversione in certi anfratti urbani. Nel secondo volume, Vernon inizia a mettere dischi al Rosa Bonheur, un bar accanto al parco di Buttes-Chaumont, dove dorme. Un’intera comunità finirà per raccogliersi attorno a lui, consacrandolo a sciamano della consolle. Decidono di organizzare rave in giro per la Francia; le serate sono dei veri e propri rituali, delle trance che chiamano «convergenze». Da homeless emarginato che era, Subutex finisce per diventare un profeta, il nuovo Cristo, il salvatore di un esercito di disadattati alla ricerca di un’alienazione salvifica, o forse di un’intimità diffusa, di una connessione. Perché la Parigi di oggi è il perfetto teatro della fine di tutte le cose ‒il Front National e l’islamofobia, il terrorismo, la marginalizzazione sociale ‒ nel quale però si muovono sotterranee anche forze politiche radicali e sovversive. Despentes lo scriveva: la puttana è «l’asfaltatrice», quella che si appropria della città. E una volta che si è dentro a quell’indomabile magma urbano, non si può che vederlo esplodere.