L’unica persona nera nella stanza
Ero in uno studio televisivo quando un truccatore si è avvicinato con fare incerto. «Posso darti un ritocco?», aveva domandato. Ha rovistato nel suo astuccio per qualche minuto prima che la sua mano riemergesse vittoriosa dalla pesca con solo un pennello di cipria da passarmi sugli zigomi: non puoi essere attrezzato per una pelle come la mia, se le pelli come la mia non passano mai sulla tv nazionale.
Qualche tempo dopo, mi ero ritrovata a essere l’unica nera in un gruppo di bianchi che si preparava a discutere di politica e multiculturalismo. L’Unica Persona Nera nella Stanza, in Italia, è destinata a rappresentare tutto ciò che è minoranza. E non serve a nulla che ti affanni a spiegare che un Nero Italiano di origini africane è diverso da uno di origini indiane o sudamericane o cinesi (sì, perché in un mondo di bianchi e neri, gli orientali non sono certamente bianchi). Un Non Bianco in un gruppo di caucasici è semplicemente un Nero. I Neri Italiani, nel contesto mainstream, esistono solo nella propaganda politica, identificati tanto nella bambina ai piedi di Beppe Sala sulla copertina di Style del Corriere della Sera, quanto nella retorica populista dei tweet di Salvini. Sono la riforma della cittadinanza, l’immigrazione fuori controllo, i barconi, l’integrazione.
Nel Parlamento Europeo i BME (Black and Minority Ethnic) sono circa il 3%. Non si hanno delle statistiche esatte per tutte le minoranze perché alcuni stati non permettono di raccogliere i dati etnici della popolazione: negli anni Settanta, mentre la Gran Bretagna promulgava una legge contro le discriminazioni basate sulla razza, la Francia vietava la raccolta di dati etnici della sua popolazione, promuovendo con una mano lo slogan «Siamo tutti francesi», rifiutando con l’altra di affrontare il problema razziale. Quella della rappresentanza nera nelle istituzioni europee resta comunque una percentuale esigua se si considera che almeno 50 milioni di cittadini europei appartengono a minoranze etniche. Gran parte degli europarlamentari BME, poi, provengono dalla quota inglese, e saranno quindi destinati a scomparire dopo la Brexit. «Se cerchi la diversità nelle istituzioni europee, guarda alle facce degli inservienti che lasciano il palazzo la mattina presto, e confrontale con quelle dei parlamentari bianchi che entrano»: così commentava qualche anno fa Syed Kamall, ormai ex europarlamentare inglese, a Politico. La stessa frase potrebbe servire a descrivere le istituzioni italiane senza per questo essere meno veritiera.
Negli ambienti culturali italiani i neri non esistono, o meglio: esistono come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto. Lo scorso anno, Angelo Boccato, un altro NI, aveva scritto sull’Independent che si possono contare sulle dita di una mano le persone di colore che lavorano in un contesto mediatico in Italia. Tra questi nominava Igiaba Scego, scrittrice, Takoua Ben Mohamed, fumettista, Sabika Shah Povia, giornalista.
In generale, i Neri Italiani che vogliono avere una voce nel dibattito sociale sono costretti a fare fronte comune: si uniscono in associazioni, fondano riviste per poterci poi scrivere (Griot Magazine), aprono canali su YouTube per avere uno spazio pubblico di discussione (AfroItalian Souls). Si appoggiano a canali non tradizionali per raccontare chi sono e per diffondere una narrazione di se stessi che non sia stereotipata. «C’è bisogno di noi in questi posti, sai. È l’unico modo di cambiare la conversazione», scrive Chimamanda Adichie in Americanah. Alcuni NI girano persino dei film, e anche di un certo spessore sociale e politico, ma restano chiusi in quei quattro cineforum di periferia, sconosciuti al grande pubblico (Talien di Elia Mouatamid, La voliera di Bagya D. Lankapura).
Se essere di nicchia è lo stadio definitivo per molti intellettuali, questo non è un lusso che ci si può permettere quando si è neri: essere di nicchia per un BME equivale a essere marginale.
Zadie Smith aveva descritto questa condizione attraverso una furiosa Kiki: «Nemmeno te ne accorgi – non te ne accorgi mai. Pensi sia normale. Ovunque andiamo, io sono sola in questo… in questo mare di bianchi. A malapena frequento ancora gente nera, Howie. La mia intera vita è bianca. Non vedo più nessun nero a meno che non mi stia facendo le pulizie davanti nel cazzo di caffè del tuo cazzo di college».
Nel romanzo Della bellezza, lo sguardo da sfinge di Kiki (che è decisamente marginale nel mondo accademico del marito Howard) raccoglie tutte le conseguenze dell’essere l’Unica Persona Nera nella Stanza – il senso di isolamento, forse, è la peggiore di tutte. Una distanza pressoché uguale divide Kiki dalla signora che fa le pulizie nei nostri appartamenti e dai bianchi intellettuali nelle stanze in cui siamo le uniche nere. E nel momento in cui ci sembra di aver fatto un passo per uscire da quell’isolamento, finiamo per avvicinarci alla seconda categoria più che alla prima. Ci ritroviamo così sedute sui divani delle nostre case a chiederci cosa penserà di noi quella donna nera che lava il pavimento sotto i piedi di un’altra donna nera: «Monique rimase ferma dov’era, tormentando la linguetta della lampo. Kiki provò un senso di straniamento, nervosa per ciò che quella donna dalla pelle nera poteva pensare di un’altra donna nera che la pagava per pulirle casa». E ci troviamo davanti a un microfono o a un pubblico, a domandarci quale oggetto del discorso saremo questa volta costrette a impersonificare, perché l’Unica Persona Nera nella Stanza pensa a due cose e quasi sicuramente saranno queste: l’altro nero in questo edificio è l’addetto alle pulizie; tu sei la quota razziale. Quasi sicuramente saranno vere entrambe.
«La maggiorparte delle persone che parteciparono al suo primo dibattito sulla diversità, in una piccola compagnia dell’Ohio, indossavano scarpe da ginnastica. Erano tutte bianche. La sua prima presentazione si intitolava “Come parlare della razza coi colleghi di altre razze”; ma a chi avrebbe parlato, si chiese lei, visto che erano tutti bianchi? Magari il portiere era nero»: in Americanah, la blogger Ifemelu di Chimamanda Adichie (di nuovo, si deve fare riferimento alla letteratura contemporanea straniera perché quella italiana quasi non ha rappresentanti di colore) è spiazzata nel parlare di diversity a un pubblico di americani etnicamente omogenei. Quando la sua esposizione non viene ben accolta, si rende conto di non essere stata invitata per le sue idee, ma solo perché volevano una presenza nera. Non era lì per mettere in discussione le convinzioni dei bianchi su come funziona la razza in un contesto sociale, piuttosto per rassicurarli che siamo tutti uguali e il razzismo non esiste. Da qui si sviluppano una serie di considerazioni su come i neri devono comportarsi per non essere visti come antagonisti del vivere pacifico: non arrabbiarsi per le discriminazioni razziali; se donne, non essere troppo determinate, per non essere percepite come «angry black women»; il colore della pelle non è parte della soluzione, altrimenti si è tacciati di «razzismo al contrario».
Nella pop culture delle serie tv, l’Unica Persona Nera nella Stanza è quel personaggio secondario, un po’ spalla, un po’ stereotipo, il classico token black character (mi riferisco all’industria angloamericana, perché in Italia il problema della diversity non si pone neanche). Prendiamo Raj in The Big Bang Theory: all’unico nero nella ristretta cerchia di geek è assegnato il carattere del «mutismo selettivo», con il risultato che sono sempre gli altri a parlare a suo nome e quando comincia a esprimersi lui stesso, lo fa con un tremendo accento indiano. Lo stereotipo dell’indiano non è così isolato in ambito televisivo: Apu dei Simpsons è stato al centro del documentario del comico di origini sud asiatiche Hari Kondabolu, The Problem with Apu – e il problema è che l’unica cosa divertente di Apu è il fatto che sia indiano. Nel trailer del documentario, si sente l’attore bianco che presta la voce al personaggio dire: «Ci sono accenti che per loro natura, alle orecchie dei bianchi americani, suonano divertenti. Parlo per esperienza». Il fatto è che, in effetti, il razzismo intrinseco nello stereotipo etnico è divertente, se il pubblico che ride è per la stragrande maggioranza bianco, e non ha idea del suo lato tragico.
L’Unica Persona Nera nella Stanza: Lane di Gilmore Girls, Raj di The Big Bang Theory, Winston di New Girl. Avere un cast multietnico rende lo show televisivo più realistico, ma lo sforzo si ferma lì. Benché la maggior parte dei giovani coreano-americani, indiano-americani o afroamericani probabilmente hanno più cose in comune con Lane, Raj e Winston, preferiscono identificarsi con Rory, Sheldon o Jess, perché i personaggi «etnici» sono sullo sfondo, a rendere più interessanti i personaggi principali, a servire loro le migliori battute. Nessun adolescente – di colore o meno – vuole essere secondario: ma quando cresci con l’impressione che l’unico personaggio che ti somiglia vagamente è destinato a essere marginale, è difficile credere che la realtà sia molto lontana dalla finzione.