Kate Cooper, Rigged

Dentro l’Uncanny Valley

Vivere immersi nella tecnologia provoca al tempo stesso sconcerto ed euforia, angoscia ed eccitazione. Viaggio nella «zona del perturbante» a partire dall’ultimo saggio di Anna Wiener

Uncanny valley è la vallata di disagio in cui precipitiamo quando veniamo esposti a ricostruzioni artificiali dell’umano. L’espressione venne coniata per la prima volta nel 1970 dall’ingegnere Masahiro Mori, nel tentativo di spiegare il sentimento di sorpresa e alienazione che provano gli esseri umani quando interagiscono con robot umanoidi. Mori disegnò un grafico – che è all’origine del termine – per descrivere il declino della nostra fiducia quando ci interfacciamo con ricreazioni dell’umano che ambiscono a sostituirlo. Ho incontrato il termine per la prima volta tramite un amico che lavora come artista CGI (computer generated imagery) per un’azienda europea. La sua area di competenza è quella delle immagini fotografiche, e non delle immagini in movimento, che di solito consideriamo il prodotto principale dell’industria degli effetti speciali. Green screen, supereroi e mappature facciali per la posterità fanno dimenticare che in realtà molte delle fotografie che popolano la pubblicità sono manipolate digitalmente o create ex novo: non solo liposuzioni, lifting e abbellimenti vari bensì anche creazioni fasulle ma credibili di scenari naturali, urbani, fantastici. 

Il settore che più di tutti beneficia di questo servizio è quello automobilistico, il che motiva e rende sostenibili gli alti costi di produzione (anche se non è una novità che le mansioni più certosine e laboriose vengano subappaltate ai cosiddetti digital sweatshop nel sud-est asiatico). Il lavoro del mio amico è, in altre parole, quello di approssimare il più possibile l’effetto di uncanny valley (che è uncanny, «straniante» o «sinistro», in quanto dominato dall’incertezza e sensazioni sconosciute). Il suo compito è costruire un ponte sulla voragine che si crea nella nostra abilità di sospendere l’incredulità di fronte a immagini generate al computer. 

CGI o VFX non sono solo strumenti per ampliare le possibilità espressive del visivo; capita che diventino l’oggetto stesso di opere narrative o figurative. Uno degli esempi più eclatanti di uncanny valley al  cinema è il lungometraggio stop-motion di Charlie Kaufman, Anomalisa, per cui Zadie Smith tirò in ballo Schopenhauer. Qui il disagio estetico suscitato dallo stile dell’animazione – i personaggi sono pupazzi identici anche nella voce – fornisce paradossalmente la chiave interpretativa della narrazione. Un altro caso è quello dell’artista inglese Kate Cooper, i cui lavori esplorano il modo in cui i nostri sentimenti vengono influenzati dall’incontro con internet e il digitale – un incontro che, per Cooper, è simboleggiato da video che esibiscono deformazioni del corpo femminile. In Infection Drivers (2019), vediamo il personaggio feticcio di Cooper, una giovane donna bianca dalle fattezze regolari, stretta in una muta plastificata che, se gonfiata, rivela una sagoma accentuatamente maschile. Il volto della figura mostra segni di violenza ma rimane impassibile nonostante lo sforzo fisico in atto per contrastare o coesistere con il contenitore che l’avvolge. Liberando il CGI dai fini puramente commerciali che lo legano alla pubblicità, l’artista sfrutta questa tecnica come forma espressiva e non come manodopera tradotta in bene economico. Il video cerca così di porre in crisi il concetto per cui, come esseri umani tangibili e organici, siamo abituati a considerarci in opposizione a ciò che è puramente artificiale.

Kate Cooper, Symptom Machine

Se tutto mi appare verosimile sul piano teorico – grazie Donna Haraway – quando applico la stessa linea di pensiero alla realtà individuale, mi sale la nausea e un senso di vertigine. Euforia? Angoscia? I due sentimenti, anche se un po’ allentati dalla patina letteraria, hanno accompagnato la lettura di Uncanny Valley, memoir di Anna Wiener uscito all’inizio dell’anno. Germogliato a partire da un saggio pubblicato su n+1 nel 2016, il libro racconta l’esperienza dell’autrice presso due grandi aziende tech della Silicon Valley. Il percorso professionale della Wiener, che arriva a San Francisco nel 2013 dopo una laurea in materie umanistiche e una serie di lavori da fame nell’editoria, parte da alcune start-up per approdare a un colosso poi acquistato da Microsoft. Il testo è sagace, scorrevole e informativo allo stesso tempo – Wiener è osservatrice intelligente, che giudica ma corregge il tiro con autoironia. Rimane però un’insider col complesso dell’impostore, e difatti la sua traiettoria culmina come corrispondente per il New Yorker, non come startuppara quotata in borsa. 

Assunta nel team di supporto al cliente, Wiener si getta nel lavoro senza conoscenze tecnico-scientifiche ma con entusiasmo, offrendo spiegazioni emotive a problemi strutturali. Si convince che l’approccio analitico richiesto nel suo campo sia una forma di sociologia applicata, l’estensione naturale degli studi culturali seguiti in università. Quando le propongono di cimentarsi con la scrittura di un codice, confessa di trovare la programmazione non difficile ma tediosa: «la chiarezza mi piaceva: era un po’ come la matematica, o correggere bozze». Il codice era ricettivo e neutrale, «a differenza di tutto ciò che avevo fatto prima in vita mia, mi segnalava subito quando commettevo un errore». Eppure scopre di non desiderare nulla dal software. Siamo lontani dal coding galore di Ellen Ullman, unica ad aver saputo tradurre la sua passione per la «domesticazione» dell’informatica e i suoi risvolti socio-economici. Uncanny Valley è anche diverso dal revanscismo nerd che emana da Abolish Silicon Valley di Wendy Liu, che cerca l’emancipazione dalla categorie di donna e immigrata di prima generazione diventando ingegnere. 

Ma come in Accanto alla macchina, il libro-culto di Ullmann, la Silicon Valley di Wiener è un universo anonimo e insieme molto specifico: per protezione della privacy o per licenza poetica, non vengono mai fatti nomi e cognomi. Facebook è il social network che tutti odiano; Airbnb è la piattaforma di condivisione domestica; Git-Hub, l’ultima compagnia per cui l’autrice lavora, è la start-up open source col logo di un gatto tentacolare. Mentre molte di queste aziende si consolidano sostituendosi a servizi già esistenti (in modo disruptive, si diceva), il loro linguaggio, come del resto la sofisticazione strutturale dei loro sistemi e prodotti, tende all’astrazione. Il «corporatese» che Wiener denuncia è «una non-lingua che non era né bella né particolarmente efficiente: un miscuglio di gergo imprenditoriale con metafore agonistiche e belliche, presuntuosamente esagerate. Calls to action, trovarsi in trincee e in prima linea, blitzscaling. Le aziende non fallivano, morivano». Che in molti casi l’italiano usi direttamente l’inglese dovrebbe essere oggetto di scrutinio a sé, anche se forse rivelerebbe dettagli culturali che preferiremmo ignorare. 

Ma l’influenza tra il tecno-astrattismo e l’umano è reciproca: non solo il corporatese impiega nuovi termini per designare azioni affatto nuove, ma qualità tipicamente umane sono prese a prestito per annunciare servizi tecnologici inediti. Quando il dipartimento di Wiener lancia una nuova funzione del software che vende l’azienda, chiamandola Addiction, Wiener è consapevole del rapporto di dipendenza che tutti, fornitori inclusi, sviluppano con internet («Capitava che mi mandassi una mail con un link o una nota, provando un brivido di eccitazione alla relativa notifica, per poi ricordarmi che l’avevo provocata io») ma sottolinea anche la dissociazione dell’impresa, situata a pochi chilometri dal Tenderloin, quartiere sopraffatto da senzatetto e droga. L’ossessione per la produttività e l’ottimizzazione dei sistemi operativi, nota Wiener, sconfina dagli uffici delle start-up e raggiunge i parchi, il sonno e addirittura le droghe ricreative: raggiunge il biohacking. «Il corpo era una piattaforma» o, in mancanza di una traduzione che renda la nuova connotazione benigna e fai-da-te del verbo hacking, un motorino da truccare. Osservando se stessa e i suoi coetanei cedere all’individualismo omogeneizzato offerto dai prodotti per cui gli stessi lavorano, Wiener si rende conto che «l’efficienza, il valore centrale di un software», è diventata la consumer innovation di un’intera generazione. L’apporto di novità, esattezza, e dunque capitale che il consumatore fornisce gratuitamente usufruendo del prodotto digitale, diventa – nelle parole di una lingua analitica come l’italiano – l’unico potere d’acquisto e perciò sola condizione d’esistenza di milioni di persone.

Wiener non è un ingegnere ma una narratrice della Silicon Valley, e forse è per questo che il suo documento emana un certo moralismo. Incidentalmente, la Kate Cooper di cui sopra identifica tra le sue ispirazioni la lettura che Sadie Plant fa del lavoro tessile all’origine dell’informatica. Nel 1995 Plant pubblica un articolo in cui esplora i legami tra il proto-computer di Ada Lovelace e il telaio di Jacquard, la prima macchina capace di immagazzinare e riprodurre informazione (tema poi ripreso nel classico Zeros and Ones). Rivendicando il peso del contributo femminile, si fa «scappare» un’osservazione qualitativa: l’invenzione del software – esito ultimo dell’arte e della scienza tessile – più che offrire un contributo alla civilizzazione, è forse responsabile del suo declino definitivo. Esasperata dall’impiego nella start-up, l’autrice di Uncanny Valley si ritrae mentre scorre annunci di lavoro come se fossero oroscopi. In quella simbiosi quasi esoterica di vita vissuta off e online, ritrovo automatismi confusi e ridicoli della vita di tutti i giorni – vestirsi guardando il meteo online anziché aprendo le finestre, sorprendersi di non disporre di un comando CTRL+Z quando il gelato cade per terra. Questi esempi, le tracce di una metamorfosi linguistica, l’interiorizzazione emotiva di fenomeni socio-economici complessi, sono aspetti che forse la theory fiction ha cercato di sistematizzare con ambizione scientifica. Ma se mi frustra la mancanza di neutralità di Plant, Ullman, Wiener – esegete dell’allora tecnosfera, oggi più vulnerabile tecnobolla – le loro declinazioni morali sembrano inevitabili, umane, in un mondo non completamente generato al computer. Il «futuro del futuro» che il software insegue fin dal suo concepimento non è ancora arrivato: difficile dire oggi se sospenderemo definitivamente l’incredulità e la finzione diventerà il nostro reame, o se precipiteremo una volta per tutte nel burrone che si espande davanti a noi.