Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica

La diagnosi è chiara, il mondo ha un tumore. Ma allora perché non riusciamo e gestire la catastrofe?

Pubblichiamo un estratto dal volume Trilogia della catastrofe. Prima, durante e dopo la fine del mondo, ringraziando l’editore Effequ per la disponibilità.

Ho iniziato a fumare quando avevo sedici anni. I motivi che mi hanno spinto a questa scelta erano quelli di chiunque altro: a fumare erano gli adulti, qualche personaggio famoso e i coetanei più smaliziati. Ero un ragazzino timido, tormentato dai primi (frustratissimi) desideri e ricorrere alla magia omeopatica («fai quello che fanno e diventa come loro») era un trabocchetto allettante. Ovviamente ero consapevole che fumare danneggiasse gravemente la salute – lo diceva una grossa scritta su ogni pacchetto – ma in una fase della vita in cui un giorno vale come un anno il mio cancro era a millenni di distanza. Col tempo, assieme all’adolescenza è scomparsa anche questa dilatazione temporale, ma la dipendenza da nicotina aveva ormai sostituito la volontà. Faccio un passo indietro: per quanto sembri assurdo, fino agli anni ’60-’70 era opinione diffusa che il fumo non facesse male alla salute. Ficcare nubi di erba bruciata in fondo ai polmoni era considerata una cosa giusta e sana. Le ricerche scientifiche a discredito di questa idiozia erano emerse già a partire dagli anni Cinquanta, ma la potente industria del tabacco riuscì per più di un decennio a nascondere l’ovvio:

La Big Tobacco investe miliardi di dollari anche nelle strategie pubblicitarie rivolte direttamente al pubblico. La prima è la campagna del gennaio 1954: 448 organi di stampa, tra cui il New York Times, pubblicano un’inserzione a pagamento in cui si ribadisce che non c’è unanimità sul ruolo del fumo nello sviluppo di tumore al polmone, che le statistiche sono confuse e al momento non si sa.

Con gli anni e l’accumularsi delle prove queste dichiarazioni sono diventate ridicole, così come è accaduto coi vari negazionismi climatici. D’altra parte ci vogliono decenni per sviluppare un tumore da tabacco e inizialmente era impossibile avere una prova certa della correlazione fumo-cancro. L’unico modo per convalidare una previsione con certezza è aspettare che si avveri – e alla fine la profezia si è avverata, con milioni di morti a dare conferma. Come molti miei coetanei, sapevo che il fumo alla lunga mi avrebbe fatto venire un tumore, eppure ho continuato a fumare fino a cinque anni fa. Mi si potrebbe dare semplicemente dell’imbecille, ma questa forma di idiozia è comune a gran parte della nostra specie, tanto che in psicologia ha persino un nome, scope neglect. In breve, significa che la nostra mente non è fatta per i grandi numeri:

Albert Szent-Gyorgyi, celebre fisiologo ungherese e scopritore della vitamina C, disse: «Mi commuovo profondamente se vedo un uomo soffrire e rischierei la mia vita per lui. Allo stesso tempo parlo con freddezza della possibile polverizzazione delle nostre grandi città, con cento milioni di morti. Non sono in grado di moltiplicare la sofferenza di un uomo per cento milioni». Le emozioni umane funzionano esattamente in questo modo. Il cervello umano non può attivare abbastanza neurotrasmettitori per provare emozioni 1000 volte più forti del dolore di un funerale. Un rischio potenziale che passa da 10.000.000 morti a 100.000.000 non moltiplica per dieci la forza della nostra determinazione a fermarlo. Aggiunge solo un altro zero sulla carta, un effetto così piccolo che di solito bisogna saltare diversi ordini di grandezza per rilevare sperimentalmente la differenza.

Ricorda la celebre frase di Stalin: «Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica». Una citazione probabilmente falsa, perché fu messa in bocca al dittatore allo scopo di farlo sembrare ancor più crudele (ironia vuole che il presidente americano J. F. Kennedy la fece sua nel 1961, con una lieve modifica). Ma in parte è vera, perché la nostra mente funziona così, come dimostrano degli esperimenti come questo:

Domanda: Degli uccelli migratori (2000/20.000/200.000) muoiono ogni anno annegando in pozzi di petrolio scoperti, che gli uccelli scambiano per bacini idrici. Queste morti potrebbero essere evitate coprendo gli stagni petroliferi con delle reti. Quanti soldi sareste disposti a pagare per fornire le reti necessarie?

Tre gruppi di soggetti sono stati sottoposti a tre versioni della domanda precedente, chiedendo loro che aumento delle tasse accetterebbero per salvare 2.000, 20.000, o 200.000 uccelli. La risposta – nota come Stated Willingness-to-Pay (SWTP) – era di una media di 80 dollari per il gruppo di 2000 uccelli, 78 dollari per 20.000 uccelli e 88 dollari per 200.000 uccelli (Desvousges et al., 1993). Questo fenomeno è noto come scope insensivity o scope neglect.

In modo analogo, un rischio in un futuro lontano fa meno paura di uno imminente. Un recente studio pubblicato sul Guardian sembra confermare questa ipotesi:

Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, scrive in Thinking, Fast and Slow che il nostro cervello risponde in modo più forte alle cose che sappiamo per certo. Più c’è incertezza (se il cambiamento climatico porterà un riscaldamento di 2°C o di 6°C; se gli uragani saranno più intensi nel Pacifico e nell’Atlantico; se i governi del mondo possano evitare o meno il disastro agendo immediatamente e di concerto), meno siamo in grado di agire. Anche uno studio dell’Università di Rochester del 2012 conferma questa tendenza.

Anni prima, anche il filosofo Bruno Latour ci ricordava quanto siamo mal equipaggiati – a livello affettivo, intellettuale, morale, politico, culturale – ad accogliere notizie della portata del surriscaldamento globale.

Se stai leggendo hai vissuto o stai vivendo la pandemia di COVID-19, che offre un’ulteriore e triste conferma di questa tesi. Nel 2012 David Quammen ha divulgato delle ricerche secondo le quali ci saremmo dovuti aspettare un coronavirus pandemico, probabilmente uno spillover (un salto di specie) da un pipistrello. Solo poche nazioni erano in qualche modo preparate a questa eventualità ed è stato fatto molto poco per prevenire la pandemia. Eravamo sicuri che si sarebbe verificata, ma a quanto pare non riusciamo a reagire a rischi certi ma indeterminati. Ci si adopra (giustamente) per limitare la pandemia una volta scoppiata, ma questo non ci impedisce di continuare a deforestare, distruggere la biodiversità e sfruttare l’allevamento animale intensivo – tutte condizioni che hanno portato indirettamente alla nascita del virus. È vero che la prima è un’azione individuale e la seconda per lo più collettiva, o che le azioni da intraprendere sono demandate a politici che non vedono più in là del loro mandato elettorale, ma il pregiudizio funziona anche individualmente: ci lamentiamo e puniamo il minimo sgarro alle regole della quarantena, ma ignoriamo chi distrugge il pianeta. Senza contare che siamo noi a votare i politici di cui sopra.

Questa dinamica si può mettere alla prova anche subito: supponi che ti venga detto che domani dovrai subire una dolorosa operazione chirugica. Prova ad assaporare l’effetto di questa notizia. Bene, adesso pensa che ti richiami il medico per dirti che c’è stato un errore: dovrai sempre fare la dolorosa operazione, ma tra vent’anni. Immagino il tuo sospiro di sollievo, eppure il dolore è lo stesso, solo più in là nel tempo. Ma non hai tutti i torti: tra vent’anni sarai ancora in vita? E se sì, la persona che diventerai quanto ti somiglierà? Pensa alla persona che eri un ventennio fa, a quanto è diversa da chi sei ora… se sei molto giovane è persino possibile che oggi tu conosca qualche persona che è più simile a come sei adesso rispetto a chi eri venti anni fa.

L’identità è, a detta di molti filosofi, una persistente illusione, e il suo carattere fumoso si fa più evidente nei lunghi intervalli di tempo. Detto questo, il problema dell’esperimento mentale rimane: c’è un pacco di sofferenza in arrivo tra vent’anni e qualcuno se lo dovrà accollare.

Il motivo per cui ho tirato in ballo le sigarette è abbastanza ovvio. I nostri incauti genitori non ci hanno ignorato per cattiveria, ma per il semplice fatto che, come noi, sono animali imperfetti, in balìa di tare mentali inadeguate alle attuali potenzialità umane. È la stessa ristrettezza mentale che ha impedito (e impedisce) a gran parte di noi di prendere in considerazione il pericolo nelle sue reali proporzioni. Non si tratta di un atteggiamento nuovo alla storia: 

Le sirene hanno suonato, ma sono state disattivate a una a una. Abbiamo aperto gli occhi, abbiamo visto, abbiamo saputo, abbiamo tirato dritto tenendo gli occhi ben serrati! Se ci stupiamo, leggendo I sonnambuli di Christopher Clark, di vedere l’Europa precipitare, nell’agosto 1914, nella Grande guerra con cognizione di causa, come non sbalordirsi nell’apprendere retrospettivamente con quale conoscenza esatta delle cause e degli effetti l’Europa (e tutti coloro che da allora l’hanno seguita) è precipitata in quest’altra Grande guerra che, apprendiamo ora meravigliati, avrebbe già avuto luogo – e che abbiamo probabilmente perso? (Bruno Latour)

Smettere di fumare non è facile e sin dalla rivoluzione industriale un certo uso della tecnologia è il vizio dell’Occidente. Un vizio che ha contaminato il resto del globo – vuoi per il fumo passivo, vuoi perché tutti hanno cominciato a fumare – e adesso arriva il conto. La diagnosi è chiara, il mondo ha un tumore. Bisogna capire se è curabile.

Francesco D’Isa di formazione filosofo e artista visivo, dopo l’esordio con I. (Nottetempo, 2011), ha pubblicato romanzi come Anna (effequ 2014), Ultimo piano (Imprimatur 2015), La Stanza di Therese (Tunué, 2017) e saggi per Hoepli e Newton Compton. Direttore editoriale dell’Indiscreto, scrive e disegna per varie riviste.