Una foresta abissale e pensante

Intervista a Brian Catling in occasione dell’uscita dell’edizione italiana di Vorrh, «la prima pietra miliare del fantasy di questo nuovo millennio»

Vorrh (pubblicato in Italia da Safarà, tradotto da Massimo Gardella e illustrato magnificamente da Gianluigi Toccafondo) è il primo volume dell’omonima trilogia battezzata dal celeberrimo Alan Moore – che ne firma la prefazione – come «la prima pietra miliare del fantasy di questo nuovo millennio». Leggendo la bandella di questa splendida edizione scopriamo che Alan Moore ha persino ampliato questa sua definizione, scrivendo che l’opera di Brian Catling «stabilisce un punto di riferimento non solo per la scrittura immaginativa, ma per l’immaginazione umana in sé». 

Comprendiamo subito che ci troviamo di fronte a un dispositivo dalla rarissima potenza espressiva. Un’opera che si è già affermata, nell’ambito della critica internazionale, come uno dei grandi capolavori del nostro tempo. La trilogia di Vorrh di Brian Catling è stata acclamata da autori come Jeff VanderMeer e Philip Pullman, hanno speso parole altisonanti in merito artisti del calibro di Tom Waits e Terry Gilliam. E già queste indicazioni potrebbero darci un’idea del tipo di iperoggetto misterioso di cui stiamo parlando. Finalmente (poiché Vorrh venne pubblicato in lingua inglese nel lontano 2012) è possibile leggere il primo episodio di questo mastodontico esempio di arte immaginativa anche in italiano, e presto seguiranno gli altri volumi della trilogia.

Raccontare Vorrh – così come descrivere esaustivamente il lavoro artistico di Brian Catling – è un’operazione difficile e perigliosa. Praticamente impossibile. Al suo interno (e sto parlando sia del lavoro artistico dell’autore nella sua interezza che dell’opera in sé) incontriamo ciclopi, angeli e creature mostruose, personaggi reali e della fantasia, personaggi di fantasia diventati reali, personaggi reali che diventano di fantasia, troviamo il mito trasfigurato e deformato, e al centro di tutto ciò si erge questa foresta africana chiamata il Vorrh. Dentro questa foresta c’è la violenza e l’epica del fallimento. Sciamani e visioni, sogni, incubi, demoni, tutto si mischia in un vortice abissale. Si rischia di perdersi costantemente nel Vorrh, e di non sapere più come tornare a casa.

Pertanto, dopo essermi perso a mia volta nel labirinto pulsante e vivo che è questo libro, ho tentato di fare un po’ di chiarezza, per permettere al lettore accorto di farsene un’idea quanto più vicina possibile all’immane oscurità che si troverà di fronte sfogliando le pagine di questo volume, intervistando l’autore: Brian Catling.

Vivevano in un minuscolo appartamento delle case popolari, senza traumi né ombre, stranezze o misteri di sorta: le cose che ho portato con me, le ho importate. 

Ancor prima di cominciare a scrivere Vorrh, Catling era già un rinomato artista: scultore, poeta, filmmaker e artista performativo – se proprio vogliamo usare queste categorie da Wikipedia. Inizierà, peraltro, a scrivere romanzi soltanto in età avanzata, esordendo nel 2009, alla veneranda età di 61 anni, con un romanzo intitolato A Court of Miracles (ancora mai tradotto in italiano). Qualche anno dopo comincerà a scrivere quello che sarebbe dovuto essere un romanzo breve, di circa 150 pagine. Divenuto poi la trilogia di Vorrh (il primo volume è del 2012 mentre il secondo e il terzo sono stati pubblicati nel 2017 e nel 2018), un’opera che nella sua interezza supera le 1500 pagine. Nel frattempo, l’instancabile attività artistica di Catling non si è mai fermata, producendo continue contaminazioni tra forme artistiche diverse. 

Ed eccoci al primo nodo cruciale: come si configura il tuo lavoro in questa grande ragnatela di strumenti espressivi differenti? Come dialogano il poeta, lo scultore, il regista, il romanziere? E soprattutto, come tutto questo labor limae è confluito nella trilogia di Vorrh?

Sono sempre stato più coinvolto e interessato alla finzione che alla realtà. Sono stato adottato quando avevo nove mesi da persone meravigliose e generose che non avevano né soldi né un’istruzione formale. Vivevano in un minuscolo appartamento delle case popolari, senza traumi né ombre, stranezze o misteri di sorta: le cose che ho portato con me, le ho importate. 

La mia immaginazione oscura era, ed è tuttora, nascosta nel profondo delle mie ossa, sguazzava in una parte di me che non ho mai sezionato o che non mi è mai importato di scoprire. Ciò ha fatto sì che l’invenzione fosse il mio principale strumento per comprendere e plasmare il mondo. Scrivere non è stata la mia prima scelta. Essendo dislessico con balbuzie e problemi associativi, le parole non mi sono sempre state sempre amiche. 

Così mi sono immerso nelle emozioni e nell’intelligenza del visivo. Ho cominciato a fare fisicamente le cose con le mie mani; a plasmare e trasformare la materia inerte e a tentare di incoraggiare lei, e i suoi perimetri, a parlare ad alta voce. Si è poi unita la poesia, evolvendosi dalle note che scrivevo su dipinti e sculture immaginate. Poi la Performance Art mi ha fornito il collegamento tra i due mondi. La prosa è arrivata molto più tardi. Per anni ho avuto la scena iniziale di Vorrh nella testa: un uomo che fa un inchino al corpo della moglie morta. Ho provato a scriverlo ma non sono mai andato oltre la terza pagina. Poi, a sessantuno anni, ho sfidato me stesso a scrivere un piccolo romanzo. 

Alla fine sono andato oltre la terza pagina e ho proseguito fino alla cinquecentesima. Senza fare una pausa o sapere dove stessi andando. Semplicemente, fuoriusciva tutto. Il giorno in cui l’ho finito mi sono alzato dal tavolo in uno stato di shock, eccitazione e profonda gioia. «È finito», ho detto, e ho attraversato la stanza. È stato allora che il secondo libro ha iniziato a tamburellare dentro la mia testa, e ho capito che doveva essere una trilogia.

Il prologo di Vorrh ci presenta subito uno dei protagonisti indiscussi della narrazione: il Francese, «l’unico essere umano ad avere esplorato il Vorrh in tempi moderni». A chiusura di queste pagine iniziali scopriamo che il Francese «sapeva di essere stato Raymond Roussel». Questa apparizione sconvolgente, di uno degli autori più oscuri della letteratura di tutti i tempi, crea subito un cortocircuito, uno spazio liminale, una soglia tra reale e irreale. Inoltre, Vorrh è già una encomiabile citazione della foresta che appare in Impressions of Africa di Roussel. Potremmo dire che Raymond Roussel sia il padre padrino della trilogia di Vorrh, in qualche modo. Perché proprio Roussel? E soprattutto cosa potrebbe significare la sua presenza, un’apparizione tutelare consacrativa o un semplice gioco di rimandi e di fantasia? Infine, chi è davvero il Francese? 

Ancora una volta sono state le descrizioni visive a ispirarmi in Impressioni d’Africa e Locus Solus. I tableau performativi, quelle macchine strane e violente. Erano come le enigmatiche sculture e installazioni che stavo realizzando, e che volevo realizzare. Ma erano intoccabili come materiale di partenza perché lui le aveva già fatte divenire parole – e io volevo inventare, non illustrare. 

Roussel non aveva un vero interesse per la sua esotica giungla del Vorrh. Questa era semplicemente uno sfondo per gli eventi che avevano avuto luogo al suo interno. Perciò ho rubato il suo nome per trovare la sua identità. E forse proprio come aveva fatto lui un tempo. 

Penso che abbia preso il nome da A Descent into Maelstrom di Edgar Allan Poe, dove Poe chiama Vurrgh un’intera massa continentale. Poi ovviamente ho scoperto il modo straordinario di Roussel di scrivere e comporre storie, ma non avevo alcun interesse accademico in questo. La sua vita reale era molto più strana e bizzarra. Così ho ignorato la mia ammirazione e in modo piuttosto scortese l’ho chiamato «il Francese» e l’ho fatto precipitare nel centro del Vorrh. Dove il suo stile di vita, l’erudizione, la ricchezza e il genio sono diventati inutili e si sono trasformati in un’esca. Cosa che ha attratto ogni tipo di anomalie predatorie.

Sono molto interessato alle pistole, quelle scultoree estensioni meccaniche di una mano che diviene letale. Ho sempre voluto fotografare la rarissima Mars Fairfax automatica. Ma questo è impossibile, perciò ho deciso di scriverne. Un oggetto talismanico, quasi mitologico.

Mi ha subito colpito la definizione che Alex Preston ha fatto della trilogia di Vorrh in un articolo apparso sul Guardian qualche anno fa: «Gormenghast reimagined by Alan Moore on opium». Seppure io sostituirei l’oppio con la psilocibina, per avere una definizione più precisa del tipo di immaginario interno al Vorrh, trovo sicuramente dei rimandi, sia nell’opera di Marvin Peake sia in quella di Alan Moore. Effettivamente, però, c’è qualcosa di psichedelico e allucinatorio che trasfigura ogni cosa e che non mi era mai capitato di incontrare prima d’ora. Come si rapportano questi e altri simili universi fantastici con l’immaginario di Vorrh?

In primo luogo, devo dire che non ho alcuna esperienza reale di droghe allucinogene o di qualsiasi altro tipo. Ho già problemi abbastanza grossi con la mia immaginazione così com’è senza bisogno di estensioni e amplificatori. L’alcol è un ottimo calmante. Un po’ come un panno che viene messo sopra una gabbia per uccelli. 

Ovviamente conosco le opere di Mervyn Peake, Tolkien ecc., ma la maggior parte dei romanzi fantasy mi lascia indifferente e leggermente arenato. Le opere di immaginazione estesa di Borges, Márquez, Poe, Huysmans e Calvino le trovo molto più solide, poetiche e riecheggianti.

Alan è un’altra questione: un mutaforma e un mago. Vorrh, come pubblicazione, potrebbe non essere mai esistita senza di lui (per non parlare delle meravigliose prefazioni e critiche che ha scritto per la trilogia).

L’ho incontrato per la prima volta a un reading con Iain Sinclair e Michael Moorcock nel 2007. Ero il poeta minore di quell’illustre gruppo. Alan mi ha chiesto cosa stessi facendo e io gli ho parlato di Vorrh. Ha chiesto di leggerlo e gli ho mandato il manoscritto. Un mese o due dopo gli è stato chiesto, in un programma radiofonico, cosa avesse letto di recente ed ebbe parole di delirante entusiasmo per Vorrh. Fu allora che il mio telefono iniziò a squillare. Devo confessare che a quel tempo non avevo letto molto del suo lavoro e conoscevo solo alcuni dei suoi graphic novel. Da allora mi sono messo in pari e ho amato la magnificenza del suo capolavoro più recente (finora), Jerusalem.

Il mio problema è che non riesco a leggere romanzi mentre li scrivo. E scrivo tutto il tempo, il che ovviamente mi mette in una posizione di ignoranza su tante cose.

Uno degli aspetti più straordinari della trilogia di Vorrh è la ricchezza di personaggi, e fa davvero impressione quanto siano distanti e diversi i contesti dai quali provengono, dai quali hai colto ispirazione per trasfigurarli e inserirli in questa foresta senza fondo e senza fine. Abbiamo già accennato alla presenza di personaggi tratti dalla realtà, siano essi celebri, come Raymond Roussel o Eadweard Muybridge, o personalità secondarie e marginali, come sir William Withey Gull, «presunto anatomista di Whitechapel». Contemporaneamente questi personaggi si rapportano a creature del mito e della fantasia più in generale: ciclopi, angeli e demoni, sciamani ancestrali, Adamo ed Eva, la stessa foresta è un essere pensante che agisce attivamente. Come è stato possibile mettere insieme tutte queste entità provenienti da diversi mondi, mantenendo una credibilità e una solidità inscalfibili, tanto da dare la sensazione al lettore che possa davvero accadere qualsiasi cosa, persino l’impensabile?

Forse il modo migliore per spiegarlo è tracciare la catena di immagini che ha portato quel personaggio nel libro. Sono molto interessato alle pistole, quelle scultoree estensioni meccaniche di una mano che diviene letale. Ho sempre voluto fotografare la rarissima Mars Fairfax automatica. Ma questo è impossibile, perciò ho deciso di scriverne. Un oggetto talismanico, quasi mitologico. Volevo vederla uccidere un cavallo, cosa per cui era stata progettata; una pistola a mano per fermare una carica di cavalleria. Due mondi che si incontrano in una volta. Così ho trascinato Muybridge fuori dalla pensione per fotografare l’azione mostruosa. 

Non sapendo che aspetto avesse ho consultato il web, e c’era questo strano uomo severo rivestito di ego e rabbia, che voleva assomigliare a Dio. Ho scritto la scena, ma ho continuato a seguire l’uomo attraverso le sue biografie. Poi ho detto a Iain Sinclair che Muybridge aveva un cameo in Vorrh e Iain mi ha detto casualmente che Muybridge aveva consultato Gull per un grave trauma cranico che aveva subìto in un incidente con la diligenza (Gull, a causa di tutte le associazioni a Jack lo Squartatore, è stato oggetto del mio interesse per anni. L’ho presentato a Iain, il cui libro White Chappell Scarlet Tracings è stato uno dei testi di partenza per From Hell di Alan Moore).

Tra le aree di studio più significative per la stesura della trilogia ci sono le teorie e gli oggetti materiali relativi al Culto del cargo, sia nella letteratura che nelle mostre antropologiche, fino alle collezioni di arte e ai manufatti africani e melanesiani.

L’incontro dei due famigerati vittoriani è stato un grande shock per me. Ma l’ho visualizzato immediatamente, come se fossi invisibile e mi trovassi nella stanza con loro. Potevo ascoltare la loro conversazione e osservare le sfumature nei loro movimenti e nelle loro parole. Così l’ho scritto, ed entrambi gli uomini sono entrati in Vorrh attraverso le volizioni della storia, che ai miei occhi li ha resi permeabili a realtà e finzione. Le vite di entrambi gli uomini sono straordinarie e si leggono come bugie inverosimili, ma sono solide verità. Il loro incontro nel 1860 mi ha anche donato un percorso immaginativo che non avevo mai sperimentato in precedenza. Questa non è la pretesa di un qualche tipo di canalizzazione, ma presenta paralleli con la conduttività psichica alla periferia della concentrazione immaginativa.

Il libro si apre subito con ben due epigrafi di Leo Frobenius, il grande antropologo che mostrò all’Europa quanto fosse preziosa e straordinaria la cultura africana e la moltitudine di tradizioni, usi e costumi del Continente Nero. Anche questa è sicuramente una delle possibili porte di entrata nella trilogia, passando per la quale ci si immerge in un universo intriso di mitologia africana. Come si è svolto il lavoro di ricerca in questo senso e come questo studio si è poi riversato nella trasfigurazione immaginifica di Vorrh

Frobenius, come altri personaggi realmente esistiti, aveva un ruolo nel manoscritto originale di Vorrh, ma è andato perduto in fase di editing e negli interventi sulla lunghezza del romanzo. Era un altro uomo affascinante guidato dall’invenzione di sé e lacerato dal paradosso, una sorta di Indiana Jones, con un intelletto feroce e un terribile orgoglio. La sua visione dell’Africa è ora considerata imperfetta e razzista, anche se a suo tempo venne accolta nei circoli scientifici come umana e innovativa. In qualche modo è sia il paradigma sia la più remota vittima del colonialismo.

Tra le aree di studio più significative per la stesura della trilogia ci sono le teorie e gli oggetti materiali relativi al Culto del cargo, sia nella letteratura che nelle mostre antropologiche, fino alle collezioni di arte e ai manufatti africani e melanesiani.

Pur non essendo certamente l’intento principale della narrazione quello di mettere al centro una dimensione critica e politica, trovo che si possa farne anche una lettura di questo tipo. Già dalla presenza delle epigrafi di Frobenius e Kiping, a introdurre il prologo e la prima parte; come anche nell’idea di Essenwald, «città europea importata pietra su pietra nel Continente Nero e riassemblata in una vasta radura lungo i margini della foresta», dove avviene parte della vicenda raccontata; in questi e altri dettagli del racconto potremmo secondo me leggere una interessante e potente critica al colonialismo – e alla mentalità che da esso si è sviluppata. Se pensiamo poi alla foresta, pensante e viva, vengono subito in mente diverse idee filosofiche di stampo ecologico che stanno via via prendendo ampio spazio nel dibattito culturale degli ultimi tempi. C’è effettivamente un’idea critica precisa che percorre le pagine di Vorrh e che ne ha nutrito la scrittura, oppure si tratta di una naturale conseguenza dell’esplorazione visionaria messa in atto durante la stesura della trilogia? 

È certamente una critica al colonialismo, ma non con la prepotente lucidità del senno di poi. Tutti gli umani, i subumani, gli animali e le piante sono catturati nella sostanza della vita. Molti di loro sono «stranieri in una terra straniera», invischiati nel destino, nelle circostanze e in una limitazione di specie che viene fraintesa. Inciampano nel tempo e litigano con le conseguenze. Non esiste un’idea critica o una spina dorsale che attraversa questa foresta. Tutte le conseguenze sono naturali. Tutte le conclusioni sono transitorie e il capitolo quattro di Vorrh sta ancora russando.

Dopo la pubblicazione della trilogia, hanno iniziato ad apparire libri e articoli sulla senzienza degli alberi. Io ho scritto con parole da profano e spiegato la complessità della foresta e alcuni dei misteri della crescita e delle comunicazioni tra le piante.

In un’intervista del 2018 (in occasione della pubblicazione del terzo volume della trilogia: The Cloven) hai parlato di una trasposizione filmica della trilogia alla quale Terry Gilliam starebbe lavorando. Innanzitutto, mi preme personalmente sapere se si tratta di un progetto ancora vivo o meno. Approfitterei tuttavia per ampliare la domanda e chiedere in quale lavoro o contaminazione espressiva sei impegnato in questo momento e cosa dobbiamo aspettarci dagli anni a venire. E per chiudere: cosa ne pensi delle illustrazioni di Gianluigi Toccafondo che ornano, arricchiscono e contaminano il Vorrh (nell’edizione italiana).

Terry e Ray Cooper, (rispettivamente maestro percussionista e produttore cinematografico) sono i miei soci in VORRHSIGHT Ltd, una società di produzione creata per contaminare il grande schermo con la mia storia. Questo è il nostro secondo tentativo di far partire quel carro. Una ruota è caduta al nostro primo tentativo quando l’azienda si chiamava VORRHPLAY. Uno dei titoli brillanti di Terry. 

La notizia più recente è che abbiamo firmato un contratto per far crescere la foresta all’interno di un’epica produzione televisiva di 3 o 4 serie. È tutto un po’ top secret al momento, perciò le mie labbra sono sigillate. 

Posso dirti che andrà in onda a luglio un documentario di BBC ARENA sul mio lavoro e sulla mia vita: B. CATLING or where does it all come from? .

Inoltre, ho appena finito di scrivere TRANSI: A Twice Told Tale of a Double Tomb. E al momento sono al lavoro su un romanzo ambientato a Londra e alle prese con un libro fotografico sulla mia produzione artistica.

Quanto alle immagini dell’edizione italiana: mi piacciono molto queste illustrazioni atmosferiche ed espressive, e mi fanno pensare che dovrei provare a realizzare io stesso dei dipinti da Vorrh. C’è solo una delle opere di Gianluigi che cambierei, quella degli Antropofagi. Li fa sembrare un po’ troppo carini, come se potessi avvicinarti a uno e accarezzargli la testa e dargli un bocconcino, oltre alla tua mano o alla tua vita.

Andrea Cafarella
collabora con diverse case editrici e lavora come redattore per alcune testate nazionali, per le quali scrive soprattutto di letteratura, antropologia e filosofia. Un suo breve testo narrativo è stato pubblicato nella Piccola antologia della peste (Ronzani, 2020), curata da Francesco Permunian e con illustrazioni di Roberto Abbiati. Ha scritto la prefazione alla prima traduzione italiana di Controcielo (Edizioni Tlon, 2020) di René Daumal. Il suo ultimo lavoro è il saggio Il simbolo tace. Il dio fanciullo e l’accordo supremo (DITO publishing, 2021).