Tropicantesimo è celebrazione

Melma, samba e ketamina: Hugo Sanchez ci racconta la festa più «transgender, transattiva, transvitale» dell’universo (o quantomeno di Roma Est)

Ci troviamo in tempi sempre più confusi: gli avvenimenti degli ultimi due anni hanno scosso la psiche di tutti, hanno rimesso delle palle in gioco, ma non hanno sconfitto determinate piaghe: ad esempio il concetto standardizzato di ballo e il concetto stesso di tempo vissuto, incastrato nelle precisissime griglie del “clubbing”. Nel momento di maggior crisi in cui molte cose potevano essere messe in discussione, nulla è avvenuto. O forse no: forse qualcosa succede, grazie a un collettivo che da anni anima le coscienze degli amanti della pista, responsabile di una festa che dal famigerato gioiosamente marcio Fanfulla di Roma, lentamente ma inesorabilmente, è diventata un fenomeno di culto. 

Stiamo parlando di Tropicantesimo: nelle loro serate quello che si credeva “clubbing” viene costantemente demolito, ricomposto, sputato e rimangiato, in un rituale che vede la musica come un propulsore di liberazione collettiva. In occasione dell’uscita del secondo Ep di una serie di tre proprio a nome Tropicantesimo, e in attesa del primo album Gitania su Penny Records, abbiamo voluto recarci nel suo quartier generale, il covo Pescheria nel quartiere Torpignattara a Roma, per parlare col “guru”, principale dj e fondatore del progetto Hugo Sanchez. Sodale storico del qui presente nelle serate Discolooser e in altre varie cosette (quali il duo ambient Bugia), in questa occasione non era disponibile. Ha quindi mandato a rispondere alle mie domande il suo alter ego, molto più pepato e dalla lingua affilata e senza peli, ovvero Uga Velena. Buona lettura di questa intervista priva di tabù e regole spaziotemporali.

Tropicantesimo in azione

DEMENTED: Allora, oggi siamo qua con UGA VELENA
HUGO SANCHEZ UGA VELENA: Ciao Demented.

Bene Uga, mi dicevi che è stato per te un weekend molto intenso…
Be’ chiamarlo weekend è un po’ riduttivo, perché si esce fuori dalle logiche del “divertificio” borghese… Non si sa quando inizia, non si sa quando finisce… Insomma si sommano momenti su momenti, celebrazioni su celebrazioni del ballo, del nostro corpo. Si suona, si balla, si ascolta musica, si sta svegli, si cerca di dormire ma non si dorme – anche oggi dormiamo domani… 

E cosa avete fatto?
Venerdì sera siamo andati a sentire i Cacao all’EXP del Palazzo delle Esposizioni, finita la performance siamo corsi al Pigneto per il concerto di Justine Forever al Fanfulla (aveva provato il live da noi in Pescheria, quindi volevamo andarla a sentire), poi c’era la Sandra Mason che suonava e ci ha calamitati fino alle tre, tre e mezza. Il giorno dopo ho fatto un po’ di trasloco da casa dei miei e a quel punto, sabato sera, siamo andati a suonare al Coropuna io e Pierpaolo, e poi direttamente a casa di Manù [il francesissimo “boss” del Fanfulla, ndr] dalle 4 di notte di sabato fino alle quattro di pomeriggio di domenica, ma io in realtà sono andata via all’una di domenica notte e ancora continuava ad arrivare gente…

Un girare all’ infinito…
E poi lunedì freschissime e riposate siamo tornate per l’ennesima volta al Fanfulla, dove c’era un tranquillo Panic Monday con Pierpaolo e ospite d’eccezione Daddys on Acid / Marina Abbracciamovich da Berlino, che aveva già performato qui da noi in Pescheria mercoledì con Emiliano Maggi / Estasy e che veramente ci ha fatto volare. Sai che noi di Emiliano siamo vecchi fan, lo abbiamo riscoperto con i Salò però poi ci siamo un po’ intrippati, e qui ha fatto un rituale scurissimo. È stato molto bello perché lui stesso mi ha detto che era un po’ che non faceva performance di questo tipo, con le cassette eccetera. Sai che io associo molto Emiliano a Renato Zero, a quell’ immaginario glam pazzo-folle-zerofolle –  ebbene, scavando scavando lui mi ha confessato che sua mamma lavorava in Rai, e quando c’era bisogno di un bambino in qualche trasmissione lui stava in prima fila con Renatone che li accompagnava in maggiolone a fare i provini, e mi ha detto che l’esperienza che più l’ha segnato è stata la partecipazione a Piccoli Fans condotto da Sandra Milo!

Possiamo dire che questa “zerofollia” ereditata dal glam anni Settanta unita a all’attitudine a non fermarsi mai è un po’ lo spirito di Tropicantesimo?
Lo spirito di Tropicantesimo è la celebrazione del ballo, del suono, e del corpo all’interno del suono. È la nostra priorità, a prescindere dal tempo che dobbiamo impiegare per lavorare, fare altre cose, altri impegni  – quello è tutto secondario. La cosa primaria è trovare la possibilità di ballare, di esprimerci e celebrarci. Ovviamente quello con cui ci scontriamo è che molte persone ci chiedono perché non siamo così rintracciabili, perché non si sa quando suoniamo, perché non si sa quando si puo’ fare festa assieme… Non è proprio un obiettivo, però insomma, forse è una strategia quella di non essere rintracciati. Ma se sei vicino o vicina a noi, se sei vicino a quello che tu desideri, allora ci incontri; altrimenti starai lì a studiarti la programmazione dei locali nel weekend. Per anni abbiamo fatto Tropicantesimo di domenica, e molta gente ci chiedeva: ma perché non lo fate di sabato, perché non lo fate di venerdì? E la nostra risposta era: proprio perché tu non possa venire!

Ahahah, sei molto diretta, Uga…
Be’ ma questo affinché Tropicantesimo non sia una cosa per persone che dopo che hanno fatto tutto e non hanno più niente da fare nel weekend allora vengono da noi… Qui parliamo di una concezione del tempo bergsoniana, in cui il prima e il dopo è molto relativo. Uno dei nostri  riferimenti è la contessa Casati, che agli inizi del Novecento dava delle grosse feste al suo palazzo Venier a Venezia, e nel suo galateo era scritto che è volgare guardare l’orologio mentre si balla perché non si contano le ore del piacere.

Tropicantesimo come “aristocrazia popolare”, quindi.
Sono tanti anni che facciamo jam assieme, qui in Pescheria, e la nostra visione è un po’ quella del Calvino delle Lezioni Americane, cioè quella del moltiplicarsi, della sintesi, della molteplicità… Quindi non è che all’interno di Tropicantesimo io sono “il dj” perché lo faccio da tanti anni: quello che è bello è che, all’ interno della macchina del suono di Tropicantesimo, tutti coprono un po’ tutti i ruoli, alternandosi: chi canta, chi mette i dischi, chi canta e poi mette i dischi, eccetera. Questa è la nostra tendenza all’interno del collettivo: aiutarci reciprocamente, scoprire i nostri talenti, le nostre passioni. Per esempio, Lola era una tipa che voleva cantare, si è avvicinata a noi perché all’inizio del progetto c’era Anna Clementi, quindi faceva dei piccoli duetti con Anna, poi ha continuato ed è spuntato Egeeno, poi ancora dopo è spuntato Gabrio, però anche Lola a un certo punto ha cominciato a dire “ma perché io non posso mettere dischi, che li ho sempre messi da bambina, che ho sempre avuto una montagna di 45 giri?”. E quindi nei suoi modi, che non sono quelli del djing classico, anche lei ha imparato a restituire il proprio paesaggio sonoro. 

Ecco, la concezione del djing in Tropicantesimo è fondamentale nonché particolarissima…
Qui in Pescheria facciamo una “scuola per dj” chiamata Dj Skull – come il teschio, perché la musica è una questione di vita o di morte, o si fa seriamente oppure lascia perdere. E la cosa che insegniamo come primo punto è che fare il dj non è inventarsi un personaggio da artista e performare: se vuoi è una delle possibilità, ma fare il dj è divertirsi quando si mettono i dischi, riuscire a trovare un modo per raccontare il tuo paesaggio sonoro, che potrebbe essere la canzone che sentivi da bambino, quella che fischietta il vicino di casa tua, o un ritornello, un loop eccetera; poi ti costruisci una macchina del suono a casa che può essere fatta con qualsiasi cosa, l’importante è avere un mixer dove ci attacchi il cellulare, una cassetta, un videoregistratore e ti diverti. Poi se vuoi ti esibisci, ti trovi un nome, ma quella è una cosa successiva. L’ importante è essere in grado di parlare attraverso la musica, di restituire le proprie suggestioni. Tu quando suoni devi essere libero: i dischi che c’hai c’hai, con te devi sempre avere i dischi che raccontano la tua vita. Io nella borsa avrò sempre i De La Soul, i Massive Attack, quel pezzo dei Doors, quel pezzo di Janis Joplin, quel pezzo di Chico Buarque. Non necessariamente tutte le volte li suono, ma…

Ma te li porti sempre appresso.
Sì ecco, non è questione di “stasera devo spaccare”, capisci? Tropicantesimo è molto sul djing, ma alla sua maniera: su una base ci si canta una cosa che poi diventa un’altra, si prende un disco techno a 45 e lo si suona a 33 e ci si canta un pezzo sopra… Cose del genere, no? Sono slittamenti che servono a tenere sempre al centro il divertimento dello stare insieme nel suono. E contemporaneamente, mettendo la stessa consolle al centro della sala, a Tropicantesimo molti hanno scoperto che il djing non è solo un pezzo dopo l’altro, ma è una macchina del suono in cui, senza apparente motivo, una cosa diventa un’altra.

È un’ esperienza di flusso, no? Come prendere un treno, quello di cui canta Lola nel progetto  Baraonda. Un treno che ti porta in un altrove, come in Doctor Who.
Guarda, noi di Tropicantesimo arriviamo al Fanfulla alle cinque del pomeriggio e subito cominciamo a fare l’installazione: la macchina del suono è la prima cosa, poi viene tutto il resto, tipo il plantage, la scenografia ecc. Poi facciamo un po’ di soundcheck con le voci e a quel punto iniziamo, anche solo per le persone che stanno lavorando e che cominciano a fare il carico e scarico del bar. Io comincio con un po’ di “bagno di suono”: melma, palude, suoni che non si capiscono bene…  perché comunque siamo già belli svarionati, in effetti. E lì ci sono anche momenti bellissimi perché si rivela un po’ lo spaesamento di certe persone… Una volta per esempio a un certo punto mi dicono “Hugo guarda, dietro di te sul palco è seduta una famosa modella di Milano!” – come se a me me ne fregasse qualcosa! E questa tipa si avvicina e mi dice: “la tua musica è bellissima, veramente incredibile… Per esempio, questo pezzo che stiamo ascoltando, come si chiama?” Allora, io lo dico sempre: quando sto suonando non si parla al conducente; non si parla a un batterista quando sta suonando, perché dovresti parlare al dj? Tanto più che non è che hai delle informazioni di servizio tipo “oh metti la musica un po’ più alta” oppure “non si sente bene quella cassa”… In ogni caso: di solito in questi casi le mie risposte sono “mi dispiace ma non parlo italiano, ti vorrei rispondere ma purtroppo non capisco quello che mi stai dicendo. Parli inglese allora? Sorry, I don’t even speak english”…

Ahahah…
È tutto un modo goffo di mettersi al centro dell’attenzione, no? Ma insomma, questa modella mi fa: “questo pezzo come si chiama?”; e io le rispondo: “guarda, in realtà qui su un canale abbiamo un flauto, qui c’è un loop di un beat, qui invece sta andando una voce di Lola del soundcheck”… E lei: “Sì ho capito, ma il nome della traccia qual è?!?”

Ahahah! È che a certa gente manca il, come dire, know how… Ma parliamo un po’ dell’evoluzione di Tropicantesimo: perché ci sono state diverse fasi, giusto? Fin dall’ inizio non siete mai stati uguali a voi stessi…
Sì, è iniziato tutto da un gioco qualche anno fa… Allora, io da un po’ di tempo facevo questo dj set a tema “tropicale”, e una volta sostituii Lady Maru che doveva suonare al Fanfulla il 26 Dicembre, ma quel giorno lei era in tour e mi chiese se potevo mettere i dischi al posto suo. E quindi arrivo al Fanfulla col mio dj set tropicale e tutti rimangono un po’, come dire… flashati. Dopodiché, qualche mese dopo, Manù del Fanfulla mi invita a suonare a Short Theatre, e lì ci diciamo: “certo, dovremmo farci proprio una serata con questa cosa”… Nel frattempo io comincio anche a cantare con Lola, facciamo delle jam qui in Pescheria con Anna Clementi, poi con Rodion, e insomma ci viene l’idea di fare una domenica pomeriggio molto chic, una cosa dal pomeriggio…

Cioè una roba tranquilla.
Sì, e Manù ci fa [imita l’accento francese del boss del Fanfulla, ndr]: “io sincerhamuente non capisco, perhò mi fido”. E allora Lola gli dice: “Senti Manù, noi dobbiamo fare un giardino all’interno del locale.” E lui: “un giardino??? Certo!”

Ahahah! Be’, Manù in questo è un asso, l’ho visto esaudire le richieste più insensate. Sarebbe capace di rimediarti un cammello da mettere sul palco, se glielo chiedi.
E insomma cominciamo con Lola e Anna Clementi, io suonando un po’ i dischi che di solito non suonavo in giro (anche per avere il tempo di sentire i dischi che mi andava di sentire), un po’ di parti ambient, il pubblico che giocava a biliardino, chi si coinvolgeva, chi lasciava perdere… Poi Anna Clementi è andata in tour negli Usa e ci siamo ritrovate senza una cantante, allora Lola mi fa: “ma scusa, c’è questo Egeeno a Roma, perché non facciamo qualcosa con lui?”. E io l’avevo sentito ma pensavo “questo è di passaggio a Roma ma sarà già famoso negli Stati Uniti, non ci filerà mai”… E invece lo inseriamo e a quel punto comincia a venire fuori un po’ di repertorio, perché ci vedevamo tre o quattro volte a settimana a giocare sui loop di questo o di quell’altro, a tirare fuori tutte le canzoni che abbiamo dentro – tipo, Lola se le metti un beat lei ci canta sopra un pezzo di Enrico Ruggeri, fa proprio l’“a cappella” di quel pezzo lì. Poi incontriamo anche Rocco Mago che incomincia a intripparsi con questa cosa del foliage…

Sì, perché Tropicantesimo prevede anche l’allestimento di una vera e propria giungla indoor…
Prendiamo le piante direttamente qui in quartiere, tra Torpignattara e dintorni, dove ci stanno tutte queste piante spontanee che crescono lasciate a se stesse, che rompono muretti, perché ovviamente gli operai del verde pubblico non riescono a stare dietro alla forza della natura che si riappropria degli spazi. E poi lì ricordo di momenti topici in cui delle volte non suonavo perché magari c’era Mammarella che veniva a suonare, o Dj Athome… Quello che è interessante è che le persone che cominciavano a frequentare Tropicantesimo provavano ad avvicinarsi un po’ al dj, chiedendo “ma potrei mettere anche io dei dischi? Una volta, così, alla fine”; e io rispondevo: “guarda, non è previsto che altri suonino, perché è come una band. Mica arrivi e dici: senti posso suonare io la batteria?”. Io alla Dj Skull dico sempre che quando abbiamo quelle persone che ti devono dire per forza cose tipo “aaah è bellissima la tua musica, madonna, oddio questo pezzo, oddio metti la techno!”, ecco, sono comportamenti che, in maniera goffa, indicano che sta succedendo qualcosa dentro di loro. Significa che nell’entusiasmo, nell’euforia, nell’esaltazione chimica o alcolica, c’è un modo per entrare in contatto con quella cosa da protagonisti. Ed è quindi una cosa che va tanto arginata quanto agevolata, no? E infatti a volte mi dico: “vabbè, sentiamo queste persone che vogliono chiedermi”, e la domanda spesso è: “ma quanti dischi hai?”

Domanda tanto naif quanto completamente inutile.
Eh sì… Perché di nuovo, tutto questo entusiasmo, questo smottamento, poi  viene tradotto in domande banali, perché questo è il mondo a cui siamo abituati… Uno è bravo perché ha tanti dischi, e allora che gli posso chiedere? “Quanti dischi hai?” E le mie risposte sono sempre “guarda, ho tanti dischi perché sono vecchio, c’ho un’età”: è una cosa che mi rivendico perché nella musica dance molti cercano di mascherare la loro vera età in feste in cui ci sono un sacco di giovani, di pubblicisti. Però la realtà è che io sono vecchio quindi ho accumulato un sacco di dischi, capito? E allora ti fanno: “ok però non penso che i dischi più preziosi li porti con te” – un altro modo di accollare a me la tua visione banalizzante di quello che è privato e di quello che è pubblico. La realtà è che molti sanno che mi porto appresso dischi anche di un certo valore, e infatti mi dicono “ma Hugo ma che fai, porti in giro questo disco, addirittura lo suoni?!?”. E che devo fare? Se non lo suono io!

Tu quando scoppia un temporale che ne sai quanto dura? “Signor tempo, tra quanto posso uscire di casa?” Bisogna lasciarsi andare a quello che accade.

Considerate le varie evoluzioni di Tropicantesimo nel corso degli anni, hai mai sentito che si stava un po’ svalutando il progetto, proprio per questo motivo? Per quelli che lo fruivano in maniera diciamo “svanita”?
Noi cerchiamo sempre quello slittamento che non ti aspetti mai. Ma questo perché piace a noi, perché nel corso della serata non sappiamo mai se ci sta il live, se Lola canta quel dato pezzo su quella data base. Lola sale sul palco fattissima, caracolla per terra e tu dopo il live le dici “Lola, ma hai visto quando sei caduta per terra?” E lei fa: “io? Caduta?” 

Ahahah!
Per quanto riguarda la possibile svalutazione del progetto, una cosa importante per scongiurarla è stata aver coinvolto sempre di più persone a suonare con noi, come Simona Beat, Pierpanico, Maria Violenza che si è messa a mettere i dischi… Spesso le persone quando non mi vedono in consolle cominciano a chiedere “ma quando suoni tu?”, “ma quando canta Lola”? E noi cerchiamo di eludere quelle richieste perché sono richieste semplicemente banali, perché sono un modo per avere il controllo sul tempo, su quello che avverrà. Invece tu quando scoppia un temporale che ne sai quanto dura? “Signor tempo, tra quanto posso uscire di casa?” Bisogna lasciarsi andare a quello che accade.

Sì, diciamo che le domande che citi nascono da una visione del ballo come riempimento di un horror vacui: cercare di occupare militarmente la casa del  tempo e non accorgersi che la porta è già aperta…
Sì. E infatti quando suono io stesso interrompo delle cose che stanno coinvolgendo molto, proprio per dare questa incertezza, per fare in modo che tu non sai quello che può accadere. Mettere una cosa percussiva o mettere una voce di Lola magari registrata durante le prove, mentre Lola in quel momento non è presente… Perché tu non devi sapere, e anche per me deve essere accidentale. Oppure c’è un momento un po’ così, lento, che però si avvicina alla techno e vedi quelli che dicono “vai ciccio ora ci metti la techno!” e invece ecco una bella cumbia di paese.  

Quindi insomma c’è questa interlocuzione che è come dire: “svegliatevi!”
Una volta arriva questa tipa super ingarellata che si mette a fare le foto col flash. Poi si mette a farmi un video col telefono in faccia: bam, così, a freddo. Gli altri le dicevano “senti basta, togli ‘sta luce”. E lei invece: “no troppo fico, bello, wow!” e niente, non la smetteva. Io allora la chiamo e le dico: “senti, ti devo dire una cosa: vieni, vieni”, e lei: “che c’è?”, e io “sei una deficiente”. “Che cosa???” “Hai capito bene: DE-FI-CEN-TE”. E a quel punto lei fa “oh nooo il dj è una merdaaa m’ha trattato una merda aaaaaaah!”, quindi la portano via e finisce il momento di delirio. Il giorno dopo la tipa mi scrive su Facebook: “Comunque io non ho mai ricevuto un’offesa così, non è possibile, veramente, dal dj poi!”. Perché lei si era avvicinata, e semmai si aspettava un cenno di complicità o comunque di confidenza. “Perché sai, io venivo da un momento fragile, il mio fidanzato mi aveva lasciato e io ero ubriaca”… E io le dico “ok ma guarda che io non c’entro niente purtroppo”. Nel senso: il mio ruolo non è solo quello di mettere il disco giusto, il mio ruolo è quello di creare uno spazio che è uno spazio molto importante ma anche molto fragile, e quindi io con il suono e con la concentrazione lo devo difendere perché le persone possano fare cose che di solito non fanno nella vita normale.

E  lei questo l’ha capito?
Mah, alla fine mi ha scritto: “senti posso farti un’altra domanda? Che segno zodiacale sei?”

Ahahah! Ma senti, a proposito di “fare cose che nella vita normale non si fanno”: tu Tropicantesimo lo concepisci come una roba più liturgica o più orgiastica? O entrambe le cose assieme? Perché in Tropicantesimo si entra anche nel campo dell’estatico, no? 
Beh, sai, la cosa dell’ estatico… Tu ti riferisci ai “paradisi artificiali”?

Anche.
Guarda: non sappiamo se esiste l’inferno o il paradiso, ma per adesso ci avvinghiamo al paradiso artificiale e ce lo rivendichiamo, specie in un contesto di brutalità come la vita urbana. Noi ad esempio a Torpignattara abbiamo poeticizzato le scarpe abbandonate per strada, abbiamo poeticizzato la monnezza, i cassonetti che strabordano, i cavalcavia, il degrado… ma è realmente molto brutale tutto ciò. Per questo la creazione di un giardino artificiale in uno spazio chiuso dove fuori appena esci hai la mondezza, il degrado e la disperazione… è ovvio che induce al sublime e all’estasi. Ti spinge a desiderare che questa cosa non finisca mai.

E qui entra in gioco la liturgia …
Io quando finisco di suonare mi metto a raccogliere i bicchieri in pezza di ketamina che manco mi reggo in piedi. Dovremmo farlo tutti quanti continuamente, specie in una festa. Perché la festa è un ecosistema, dobbiamo tutti lavorare assieme. La barista che sa a chi dare da bere, il dj che suona, chi sta facendo la fila alla porta e non deve rompere il cazzo, chi sta lì a drogarsi, chi a ballare…  Quella cosa là di cristallizzare dei ruoli all’interno di uno spazio è una visione impoverente dello stare insieme, della  comunità. Purtroppo la maggior parte di noi viene da un tipo di cultura in cui ci sono delle gerarchie: chi entra senza pagare, chi c’ha il privè, chi è imboscabile, chi ha una cassa da bere e chi invece è a un gradino più basso e si deve pagare tutto… Mentre per noi è, appunto, un ecosistema: non c’è una persona che ha un valore più alto.

A volte ti rendi anche conto che molte persone non sono pronte ad essere liberate da questa cosa qua, perché non sanno come comportarsi, non hanno proprio codici di comportamento. Prendi anche tutta la dimensione erotica di Tropicantesimo…
Sì, ci sono situazioni in cui la musica suggerisce sensualità e molti ne sono a corto, diciamo… Sono persone che non sono abituate ad accostarsi alle altre persone solo per quella sera, per quel momento là, e invece di colpo scoprono la bellezza del qui e adesso. Sticazzi di domani: qui, adesso. Sticazzi di come ti chiami, di quello che fai… Perché noi veniamo comunque da ambienti froci in cui scopare è al centro di molte feste, e se ti metti a chiedere in darkroom “ma come ti chiami, che lavoro fai”… dico: manco lo vedi! Io la prima volta che sono entrato in darkroom ho seguito uno, ci avvinghiamo al buio completo e cominciamo a toccarci, a scopare, poi con la coda dell’occhio vedo l’uscita della darkroom e quello che avevo seguito se ne stava andando! Non sai nemmeno con chi scopi, capito?

Ahahah, eh, vero, vero…
Il senso di colpa purtroppo è sempre dovuto a quello che succede con le alterazioni che avvengono quando si altera il tempo. Si altera pure lo spazio, perché non capisci più dove ti trovi. La gente entra al Fanfulla pieno di piante e il mondo è tutto cambiato, e già quello è un flash, una botta. Poi il tempo: “ma qua quando finisce?” Tu intanto balla, poi mettici l’alcol e le sostanze, che ci rivendichiamo: è quell’alterazione là che scardina il pensiero binario, sempre. Quindi quello che cognitivamente percepisci come giusto, cambia. Noi siamo a favore della disconnessione, dei processi di dispercezione; è quando si esce da quella bolla che è importante, e questo succede nel tempo: imparare da quello che è successo anche se non ti ricordi tutto ed è una sensazione molto lontana. Lasciar vivere quella cosa che si è disincastrata dentro, e non dire “ho fatto schifo oddio che è successo”. Perché è proprio il pensiero binario che dobbiamo scardinare: giusto/sbagliato, avanti/indietro, sopra/sotto. Poi certo, è un processo in divenire, per cui quando la tua coscienza si risveglia nel mondo binario ovviamente la prima reazione è “ho sbagliato tutto, non lo dovevo fare”. Quindi sensi di colpa, giustificazioni con se stessi… Ma no, è avvenuto, è già stato. Come diceva anche mia madre: il bello del passato è che è passato. 

Però il pensiero binario giudicante, moralista, è sempre là in agguato, anche quando stai suonando…
A volte noto delle fratture epistemologiche talmente profonde che crei un paradosso… Tipo: “guarda che il disco che stavo mixando non è vero che lo stavo mixando, era un missato di mezz’ora che ho messo perché mi stavo riposando”; oppure i dj che mi dicono “ma tu porti il tuo personale mixer rotativo al Fanfulla in mezzo a tutti quanti, in quel macello, poggiato su una cassetta della frutta?” Certo che sì, perché il giradischi, il mixer e la strumentazione sono le nostre armi della rivoluzione: devono essere sempre affilate, non accettiamo compromessi; è in altri posti, quelli dove hanno il privè e la line up, che il giradischi è sempre un po’ così e la puntina non è mai quella giusta… 

A proposito di puntine e giradischi, visto che esce questo trittico di Tropicantesimo in vinile, raccontami un po’ della genesi dell’operazione.
Beh questo trittico è stato stimolato da Bob Corsi di Penny Records, che conosciamo da tantissimi anni. Quando veniva a Tropicantesimo mi diceva: “ma perché non facciamo dei dischi? Alla fine Tropicantesimo è basato sui dischi: facciamo un album ma pubblichiamo prima queste tre anticipazioni, cose nuove o vecchie lo vedete voi… Però diamo la possibilità a questa musica di uscire dal vostro ghetto”. Perché ovviamente noi siamo delle superstar in queste quattro strade tra Torpignattara, Certosa e Pigneto, ma lui dice giustamente diamo una possibilità anche ad altre persone di ascoltarvi, ma non per una questione commerciale, ma perché questa visione che voi aprite possa essere condivisa. 

Sì, che poi i personaggi che gravitano intorno a Tropicantesimo e Pescheria sono tutti  trasversali, difficili da inquadrare…
Beh, c’è tutta una questione di transgenerazionalità e di transizione tra vari generi, che si lega all’attitudine ad essere transgender, transattivi, transvitali… 

Cosa che manca ai vari tentativi di imitazione di Tropicantesimo…
Mah, qui a Roma ci fu Andy Shakty che fece questa cosa a Trastevere, ma era un altro pubblico, un’altra zona della città. Comunque, a prescindere da lui, negli ultimi anni c’è tutto un trend su questo immaginario “tropical”. Ci sono persone anche vicine a noi che ci dicono: “lo vedi che vi hanno copiato?”, e io questa cosa la aborro, perché per me è tutto nell’aria, nello zeigeist. C’è chi lo intercetta in un certo modo, chi in un altro, ma sta sulla punta della lingua di tutti.

Ma possiamo intendere i dischi di Tropicantesimo come un riassunto del vostro immaginario?
Sì, un riassunto di otto anni di registrazioni: alcune che non ritrovavamo, alcune che erano in mp3 e abbiamo fatto un’operazione di cosmesi al mastering, altre che non avevamo pubblicato, come Perfidia con la base di Donato Dozzy, perché avevamo sempre suonato quella a Tropicantesimo però al momento della pubblicazione avevamo fatto un’altra base. Quindi un po’ un cofanetto di cose che sono state, che sono e che saranno di Tropicantesimo.

E poi c’è un disco in digitale in arrivo che ne raccoglierà anche altre, se non erro.
Esatto, però in cd. Ovviamente per noi è avere la possibilità un po’ di lasciare una testimonianza, consapevoli che se uno oggi si mette a fare un vinile deve esserci un buon motivo, perché la materia vinile è inquinante, scarseggia, i tempi sono lunghi… Quindi non si capisce se il vinile scarseggia, se mancano le presse oppure se è semplicemente molto complicato farlo. E in più la cosa di stampare il vinile è un po’ che se non ne sfrutti le potenzialità incredibili del mezzo, se non hai un impianto che ha una dinamica, non è che abbia senso.

Ma a proposito di vinile, ti faccio un’ultima domanda: mio figlio di 16 mesi è appassionato di scractch, nel senso che prende i miei vinili e ci scretcha sopra; e insomma ieri mi ha fatto una cosa strana: in pratica ha afferrato il disco mentre girava sul piatto, facendo saltare la puntina. Come devo comportarmi? 
Secondo me ci deve essere una mediazione tra il danno che può avvenire, ma non limitare nulla. 

Ok, allora gli farò usare i dischi di Tropicantesimo!
Certamente: come insegnamo anche alla Dj Skull, il vinile è qui per durare, ma te ne devi occupare. Si può rovinare, graffiare, impolverare, ma non si distrugge se non intenzionalmente.

Grazie Uga per queste perle di saggezza.
Grazie a te Dementa e ai gentili lettori di Not. Ci vediamo a Tropicantesimo.