Triggerati dal rumore di una gomma da masticare

Vi irrita il suono della masticazione o di una penna a scatto? Probabilmente soffrite di misofonia, il «fastidio per i suoni schifosi». Ma come smettere di odiare gli altri e liberarsi dall’igienismo informazionale?

«La più grande difficoltà che la mente umana deve affrontare è la mancanza di concentrazione, dovuta principalmente ad influenze esterne.»
Hugo Gernsback

Sento un suono. Non mi limito a sentirlo, lo osservo. Mi ci soffermo un momento, lo studio. È un suono debole ma preciso, ripetitivo e sincopato. Devo scoprirne l’origine. Eccola, la inquadro: il suono viene da uno sconosciuto che nemmeno ci fa caso. Allora provo anch’io a ignorarlo… Non c’è niente da fare: il suono mi scaraventa fuori da me, mi tiene al guinzaglio, assorbe completamente la mia attenzione saturandola con la sua insignificanza. Mi sento asfissiato e impotente. Poi l’impotenza si trasforma in una rabbia che rivolgo anzitutto alla fonte diretta del suono: un chewing gum in fase di masticazione, una penna a scatto isterica, un paio di auricolari gracchianti. La rabbia si estende allora all’esecutore materiale dell’assalto. Razionalizzo: so bene che questa persona non ha colpa, che si sta comportando normalmente, ma malgrado ciò non gli risparmio un’occhiataccia.

Logo della Misophonic Society, ideato e progettato da Federico Antonini.

Rabbia sonora

Pensavo di essere semplicemente uno stronzo irascibile e invece ho da poco scoperto che sono moderatamente misofonico. La misofonia, anche detta sound rage o sensibilità selettiva al suono, è una condizione identificata solo di recente e non proprio accertata a livello medico. Il termine è stato coniato dagli audiologi Pawel and Margaret Jastreboff nel 2003 ed è stato associato di volta in volta al disturbo ossessivo-compulsivo, all’iperacusia e, come vedremo più in dettaglio, anche alla sindrome di Tourette. Chi ne soffre reagisce con emozioni e pensieri negativi (rabbia, collera, disgusto ma non paura, perché in quel caso si tratta di fonofobia) a una serie di suoni specifici, i cosiddetti trigger. Questi suoni non sono necessariamente forti bensì ripetitivi. Generalmente sono causati dal gesto di un individuo (masticazione, tamburellamento delle dita, deglutizione ecc.) ed è spesso proprio la vista di quel gesto a esacerbare la reazione del misofonico. In tal caso la misofonia si accompagna alla misokinesia, l’«odio» nei confronti di certi movimenti. Si tende a credere che la misofonia non sia tanto un disturbo acustico quanto piuttosto uno psichico: il problema è nella testa e non nelle orecchie. Non si sa nemmeno se essa debba essere considerata un sintomo o una vera e propria patologia. In ogni caso, comunque la si classifichi, la misofonia non sembra essere un fenomeno passeggero, anzi tende a peggiorare con l’età. Ottimo.

Swag per misofonici.

Un fenomeno pop

Nel giro di qualche anno quello che era un oscuro malessere accolto con scetticismo si è trasformato in un piccolo fenomeno di costume. È ciò che testimonia una serie di articoli su grandi testate, quali ad esempio il New York Times che nel 2011 titolava «Quando un morso o un risucchio innescano lo sdegno». Non bisogna attraversare l’oceano per imbattersi in soggetti affetti da misofonia. Molti, pur essendolo, non sanno di appartenere a una categoria medica. Federico Antonini, artista e designer misofonico (nonché iperolfattivo), sta cercando di far convergere le torture misofoniche in un gruppo unitario e per questo ha fondato la Misophonic Society. Antonini ha provato inoltre a capire chi tra i suoi contatti fosse affetto da misofonia chiedendolo pubblicamente su Facebook. Le risposte non si sono fatte attendere. Qualcuno descrive così il suo dramma: «a lavoro vengo TRIGGERED ogni 5 minuti all day, everyday». Un altro confessa di non sopportare i clic del mouse e i suoni dei tasti di qualsiasi dispositivo (ci auguriamo di cuore che non lavori in ufficio). Arriva infine chi propone delle soluzioni: «Tappi e/o cuffie SEMPRE DIETRO, evil eye distribuito con nonchalance, raramente un commento a voce alta (passivaggressiva for life)».

Antonini non è solo nel suo tentativo: Facebook conta diversi gruppi legati alla misofonia – colloquialmente miso, il più grande dei quali ha 18000 membri. L’attività di questo gruppo è però un po’ inquietante poiché è popolato da foto di poveri sconosciuti messi alla gogna per aver inconsapevolmente triggerato qualcuno. Stare al fianco di un misofonico non è semplice, per questo esiste anche un gruppo per appuntamenti tra misofonici. Ci sono inoltre siti pieni d’informazioni utili, tutorial e merchandising come Allergic to Sound e Misophonia.com. Che questo disturbo non è una quisquilia lo dimostra Quiet Please, documentario dalle tinte drammatiche sulla vita di diverse persone affette da misofonia acuta. C’è chi ammette di non funzionare come essere umano, chi parla di «vivide fantasie violente» e c’è chi fa dell’arte una terapia, creando opere composte da decine di penne a scatto seppellite nella calce. La tragedia del misofonico è di natura sociale e affettiva, una tragedia che nel documentario viene riassunta così: «le persone che mi sono più vicine sono anche quelle che mi infastidiscono di più».

Un’artista affetta da misofonia intenta a creare un’opera composta da penne a scatto seppellite nella calce.

Tic attenzionali

Una definizione interessante di misofonia ci viene offerta da Melanie Lynskey sul Guardian: «Si tratta di una condizione cerebrale per cui non si capisce nient’altro quando si sente un suono schifoso». Questa definizione fornisce qualche indizio per rispondere a una domanda cruciale, ovvero: cosa odia davvero il misofonico? A giudicare da ciò che afferma l’attrice, non è il suono in sé che causa rabbia bensì l’incapacità di concentrarsi che esso produce. La concentrazione è inibita da un suono che rifiuta di essere ricacciato sullo sfondo e si presenta come dotato di significato. Il suono non si accontenta di esistere in sé bensì come qualcosa che si rivolge a noi, che ci interpella: il trigger è un suono che si fa voce. E in quanto voce che importuna è spesso ritenuto motivo di offesa personale.

La concentrazione è la direzione volontaria della propria attenzione. Nello specifico parliamo di attenzione selettiva, ovvero di quel processo cognitivo che permette di isolare uno o più stimoli da tutti gli altri. Ma, a pensarci bene, ci rendiamo conto che l’attenzione è sempre selettiva: a meno di non trovarsi in una camera anecoica, ci saranno sempre altri suoni ad accompagnare la canzone che vogliamo ascoltare, quella stessa canzone che decidiamo di ignorare non appena qualcuno ci parla. Anzi, in quella camera saremmo forse ancora più esposti, dato che il suono del nostro stesso respiro e battito cardiaco si rivelerebbe prepotentemente a noi. Il trigger è dunque quel suono (o gesto che allude a un suono) capace di privare l’individuo del controllo sul suo processo attenzionale, appropriandosene. Richiamando l’attenzione su ciò che ha una parvenza di significato, il trigger svincola la concentrazione dal suo oggetto momentaneo, sia esso un suono, un pensiero o un ricordo.

Alcuni studiosi hanno evidenziato la solidarietà tra misofonia e sindrome di Tourette (nota soprattutto per le imprecazioni fulminee e la glossolalia) proprio sulla base dell’attenzione. I neuropsichiatri Andrea Cavanna e Stefano Seri spiegano che «i pazienti con la sindrome di Tourette riferiscono spesso il fenomeno della sensibilizzazione del sito, in cui diventano acutamente consapevoli, distratti e angosciati da deboli stimoli sensoriali, che includono la modalità uditiva». Già nel 1994 Michael J. Kane, all’epoca studente di psicologia, proponeva, attraverso uno studio riflessivo della Tourette, un modello interpretativo del suo disturbo che ci aiuta a inquadrare il senso della misofonia. Piuttosto che una risposta inconscia e automatica a un’ipersensibilità tattile, visiva o uditiva, il tourettiano sarebbe affetto da una forma di iperattenzione, causata da un meccanismo disfunzionale di inibizione. Il tic rappresenterebbe un modo di alleviare temporaneamente l’esigenza attenzionale del corpo e della mente. Kane riportava anche gli sforzi degli psicologi cognitivi, interessati al modo in cui «le informazioni ambientali rilevanti per un obiettivo vengono messe in evidenza contro quelle non rilevanti».

Dark pattern acustici

A questo punto sappiamo che il trigger inibisce la concentrazione ma non ci è del tutto chiaro il perché. È qui che vorrei avanzare un’ipotesi azzardata e per farlo prenderò a modello il sistema generale della comunicazione elaborato nel 1948 dal matematico Claude Shannon. Finora abbiamo parlato di trigger come di un suono con una parvenza di significato. Nell’ambito della teoria dell’informazione tale suono viene chiamato segnale. Un segnale è l’informazione codificata contenuta in un suono significante. Questo suono esiste assieme ad altri suoni che non contengono alcuna informazione, e sono ciò che chiamiamo rumore. Il trigger è in tal senso un rumore travestito da segnale. Mentre il «trasmittente» (per esempio un naso che tira su ripetutamente) non sa nemmeno di essere tale, il destinatario (ovvero il misofonico) prova disagio perché non può evitare di decodificare questo falso segnale, fallendo ogni volta. Per il misofonico ogni suono ripetitivo si presenta come un messaggio in codice Morse, come un dark pattern acustico. Il trigger ha due qualità: è discontinuo come una serie di bit — è «discreto», e richiama l’attenzione (saturandola) come una notifica push. Ho scelto queste similitudini per inquadrare una possibile relazione tra mondo digitale e misofonia. Più precisamente mi chiedo se la permanenza nello spazio digitale possa contribuire all’acuirsi della misofonia o a un suo sviluppo. Siamo forse tanto assuefatti al controllo pressoché totale del flusso informazionale da essere diventati intolleranti agli input che non possiamo silenziare?

Il modello matematico della comunicazione di Shannon e Weaver.

Se si dovesse aggiungere al calendario una festa comandata per i misofonici, questa coinciderebbe con l’avvento delle cuffie dotate di noise-cancelling, una tecnologia che annienta i suoni ambientali producendo un’onda sonora a essi uguale e contraria, una specie di antirumore. L’idea di un intervento attivo sui suoni ambientali risale agli anni Cinquanta e la dobbiamo all’ingegnere e inventore Lawrence Jerome Fogel. L’ambito di applicazione originario era quello dell’aviazione, dove il frastuono è la norma ed è cruciale interpretare correttamente le informazioni. A distanza di mezzo secolo, le cuffie cancella-rumore sono una consumer technology che permette a chi le usa di isolarsi più efficacemente. In tal modo contribuiscono a rinforzare una bolla che può essere d’ausilio sia alla produttività che al relax. Qualche anno fa Amazon si è spinta oltre brevettando un sistema che non solo cancella il rumore circostante ma individua alcuni suoni o parole chiave, come ad esempio il clacson di un’auto o il nome di un utente, facendo sì che questi siano udibili. Come nota Chaim Gartenberg, ciò dà adito anche a occasioni di trolling, perché basterebbe pronunciare una parola chiave per interrompere l’ascolto dell’utente.

Brevetto intitolato «Suspending Noise Cancellation Using Keyword Spotting» e assegnato ad Amazon.

Mentre il noise-cancelling riduce a rumore, eliminandolo, anche ciò che non lo è (come il chiacchiericcio in ufficio), la pratica dell’ASMR prende questo pseudo-segnale in forma debole e ne fa un rumore funzionale alla pace mentale. L’ASMR, che sta per autonomous sensory meridian response, è l’esperienza di una piacevole sensazione di formicolio («un solletico al cervello») che conduce al rilassamento ed è provocata da stimoli di diverso tipo, come pensieri, immagini, suoni. Su YouTube gli ASMR artist pullulano. I loro video adoperano spesso strumenti di comunicazione o tecnologie informazionali i cui suoni diventano però inintelligibili e perciò distensivi: bisbigli, mormorii, battitura sulla tastiera, scrittura a penna. Sorprendentemente, i trigger ASMR non sono poi così diversi da quelli che scatenano la misofonia (infatti non sembrano funzionare con me). Forse la differenza sta nella continuità, nell’assenza di ritmo, che è d’altronde ciò che distingue segnale e rumore.

Un video ASMR di dattilografia.

Allarghiamo ora lo sguardo generalizzando il funzionamento delle cuffie cancella-rumore e «metaforizzando» la sintomatologia del misofonico, ovvero facendo di essa una lente interpretativa. Nell’ambiente digitale eliminare ciò che si considera rumore risulta più facile e immediato che nel mondo in carne e ossa, qualunque sia il medium che contiene un’informazione. Se volessimo mettere a tacere una persona che ci disturba urlando in piazza ci toccherebbe chiamare le forze dell’ordine, mentre ci basta un clic per non essere esposti alle manifestazioni di un contatto fastidioso sulle piazze virtuali di Facebook o Twitter. C’è di più: con un gesto possiamo far scomparire la piazza nella sua interezza. Una traduzione paradossale di questa differenza la ritroviamo nell’episodio White Christmas della serie britannica Black Mirror, in cui è possibile «bloccare» gli individui trasformandoli in sagome cineree la cui voce diventa un inquietante e incomprensibile gorgoglio. Non solo: anche quelli che bloccano – insieme a tutte le loro immagini – diventano silhouette opache agli occhi dei bloccati. Le cuffie cancella-rumore, così come il sistema brevettato da Amazon, rappresentano un’interfaccia filtrante tra due mondi che esprime la speranza di poter ritracciare di volta in volta il confine che separa segnale e rumore.

Tweet di @eatxdirt ispirato dall’episodio White Christmas di Black Mirror.

È possibile che la continua esposizione a questo regime di controllo conduca a un’intolleranza a quel rumore che si presenta come segnale ma tale non è, un’intolleranza che produce frustrazione e dunque rabbia? Il misofonico ha una predilezione negativa per i suoni corporei: masticazioni, sfregamenti, aspirazioni, grattamenti, crepitii, deglutizioni, rantoli, fischi ecc. In questo senso Hard to Be a God, disgustoso capolavoro di Aleksei German, film umido e mucotico, è forse la più esatta rappresentazione dell’inferno di un misofonico. Sembrerebbe allora che la ragione misofonica esprima un rifiuto per il corpo, per ciò che striscia oltre i protocolli comunicativi, per la sensualità che non è riducibile a messaggio. Si può dunque considerare la misofonia come l’incarnazione di un igienismo informazionale?

Hard to Be a God di Aleksei German, 2013.

Media orfici

L’essere umano che agisce come igienista informazionale trasforma, quando può, cose o processi in informazione, e tutto il resto lo epura. È un mero «elaboratore». Questa prospettiva immaterialista – quasi mistica – è ciò che Mack Hagood, professore associato di studi comparativi sui media, definisce infocentrismo. Si tratta di una delle tesi del suo Hush, libro pubblicato quest’anno da Duke University Press, che è unico nel suo genere in quanto offre una solida teoria delle tecnologie che servono a sopprimere, mascherare e cancellare suoni sgradevoli o sgraditi: cuffie con noise-cancelling, macchine per il rumore bianco, Buddha machine e così via. Definiti «media orfici», tali apparati operano combattendo suoni con altri suoni, proprio come fa Orfeo per proteggere gli Argonauti: il poeta Tracio debella la minaccia delle Sirene opponendo al loro canto seducente e mortale la melodia soave della sua lira. I media orfici – sostiene l’autore – sono per così dire «vuoti», privi di contenuto, e proprio attraverso questa carenza possiamo ribaltare la nostra prospettiva sui media in generale: non soltanto veicoli per le informazioni ma pratiche di «rimediazione» tra spazio, soggetti e tecnologie.

Hagood nomina solo en passant la misofonia concentrandosi piuttosto sui rimedi tecnologici per il tinnitus, quel disturbo che consiste nel percepire degli esasperanti suoni fantasma, disturbo che d’altronde è spesso in rapporto di comorbilità con la misofonia. Tuttavia la sua lettura dello spot «Hear What You Want» delle cuffie Beats by Dre suggerisce un’interpretazione del termine «misofonia» diametralmente opposta a quella comune. Nel video seguiamo il quarterback Colin Kaepernick mentre va incontro a una folla rabbiosa di tifosi avversari che gli urla contro un fiume di insulti. Kaepernick reagisce indossando le cuffie cancella-rumore per ascoltare un pezzo corroborante mentre attorno a lui è guerriglia. Qui l’odio non è generato da colui che ascolta ma si colloca nell’ambiente; e le cuffie servono a silenziarlo. Misofonia non come odio del suono dunque, ma come suono degli hater. Mentre fuori infuria la ressa, l’atleta si ritira stoicamente nel suo rifugio sonoro privatizzato. Kaepernick dà prova d’impassibilità: il silenziamento riflette un esercizio di autodisciplina, una forma di «autocontrollo sonoro» (come lo definisce Hagood) favorito dalla protezione dal contagio offerta dalle cuffie.

Il quarterback Colin Kaepernick, testimonial della campagna «Hear What You Want» di Beats by Dre.

Connessioni frustranti

Franco «Bifo» Berardi, filosofo e agitatore culturale, indaga da anni gli effetti della sfera digitale sui corpi e sulle coscienze. La sua prospettiva è piuttosto infausta, ma non per questo disperata. Nel suo ultimo libro, intitolato Futurabilità, Berardi individua una distinzione tra due modi di relazione linguistica tra esseri umani: la modalità congiuntiva e quella connettiva. Egli specifica che «i corpi congiuntivi non sono preformattati: possono scegliere la dimensione in cui si svolge lo scambio linguistico e possono spostarsi di piano, possono rompere il flusso senza rispettare alcun ordine sintattico che sia esterno o precedente al processo significante di enunciazione del contesto». Al contrario, la connessione «sposta il processo di significazione da una dimensione in cui i corpi coscienti si congiungono secondo modelli aleatori, a una dimensione in cui i corpi si adattano a un codice, a un formato digitale di scambio». In altre parole, la connessione esige il rispetto di una sintassi prestabilita mentre la congiunzione inventa di volta in volta la propria. Applicando queste due categorie alla metafora misofonica si può considerare il trigger uno stimolo congiuntivo che, essendo interpretato secondo una sintassi connettiva, risulta incompatibile e crea perciò frustrazione. Se la principale fabbrica di trigger, il corpo, è di per sé congiuntiva, la negazione della corporalità è connettiva. Una semiosi totalizzante opprime la sensualità, facendo del corpo una realtà infelice. 

Ha forse ragione Federico Antonini quando parla di «società misofonica»? Per Bifo il passaggio da congiunzione a connessione genera una forma generale, e dunque sociale, di disempatia, di diserotizzazione: «La biosfera connettiva è lo spazio liscio in cui l’informazione, vale a dire la sostanza universale della valorizzazione, può scorrere senza ostacoli. Ma per poter fluire senza ostacoli è necessario rimuovere ogni impurità, ogni strato che possa rallentarne il tragitto: e questo significa rimuovere la sensibilità».

Gli individui sono al tempo stesso vittime e carnefici di questo processo di rimozione perché, se su un certo piano di astrazione filtrano le impurità del corpo, dall’altra il loro stesso «linguaggio naturale» è filtrato da un organismo bioinformatico astratto – Bifo fa l’esempio degli automatismi digitali della finanza – che lo scarta come rumore.

Guida alla sopravvivenza per misofonici

«Decisamente troppo movimento a colazione»

Nell’ultimo film di Paul Thomas Anderson, Phantom Thread, i pasti giocano un ruolo fondamentale. Una scena altamente simbolica vede i tre protagonisti consumare la colazione in religioso silenzio. La pace del prestigioso sarto Reynolds Woodcock, magistralmente interpretato da Daniel Day Lewis, è però disturbata dai chiassosi gesti di Alma, sua modella, musa e amante, che in verità sta solo imburrando una fetta biscottata. Facendo fatica a trattenersi, Woodcock si rivolge a lei: «Per favore, non muoverti troppo, Alma. […] È una distrazione, è molto fastidioso». Alma, un po’ sconcertata, risponde: «Forse tu gli stai dando troppa attenzione». Dopo aver paragonato i gesti di lei a un cavallo che galoppa per la stanza, il sarto sbotta e se ne va. La sorella di Woodcock sancisce a quel punto l’inviolabilità del rituale mattutino: «È la sua routine ed è importante che non venga turbata». Va notato che ciò di cui il sarto si lamenta non è il rumore, bensì il movimento, ed è attraverso questo scambio di movente che Alma viene colpevolizzata e inibita.

C’è chi ha scorto nel personaggio di Woodcock un uomo affetto da disturbo ossessivo-compulsivo, ma questa interpretazione è abbastanza scontata. Meno ovvia è la lettura di Julian Palmer, che in un episodio del vlog Discarded Image, si sofferma sulle figure maschili nei film di Anderson, a partire dell’accusa rivolta all’ultimo film, considerato da alcuni una celebrazione della mascolinità tossica. Secondo Palmer gli uomini di Anderson sono intransigenti: opprimono i loro sentimenti per poi a un tratto esplodere. Tutto sommato, sono individui fragili in cerca di equilibrio. E qui intervengono le figure femminili, le sole in grado di esercitare un’autorità discreta su questi uomini danneggiati, supportandoli e guidandoli. Ciò non avviene necessariamente in maniera passiva. All’inizio di Phantom Thread Alma si conforma al freddo rigore di Woodcock agendo ­– o piuttosto non agendo – come musa, ma successivamente ribalta il rapporto di potere avvelenandolo con dei funghi tossici. Una cura, questa, che riflette la tossicità del sarto e che viene infine accettata da quest’ultimo.

Mi accorgo con disagio di comportarmi a volte (ok, spesso) come Woodcock: chiedo alla mia compagna di abbassare il volume delle cuffie, di non fare così con il piede, di smetterla di fischiettare. A mia discolpa c’è il fatto che abitiamo spazi un po’ angusti, che non sono nemmeno paragonabili all’ampia e confortevole dimora londinese del sarto. Laddove mi convinco di esprimere un’esigenza clinica, dato che ho cominciato a considerare la mia misofonia come una condizione pseudopatologica, mi domando se l’ordine che esigo non sia in parte frutto di un condizionamento, diciamo così, patriarcale. Penso alla maniera in cui storicamente (e non solo) il conversare tra donne sia stato caratterizzato come «cicaleccio» o «ciangottio». Penso al mio tentativo viscerale di addomesticare l’ambiente, ovvero imporre una mia idea di asettica e immobile domesticità. Intravedo nel bisogno di quiete su cui si erge il mio bunker informazionale una pulsione mortifera, che si riversa anche in quello che è il prodotto del mio isolamento: la scrittura. Misofonia, misoginia, misantropia. Come smettere di odiare? O, se non altro, come odiare meno? Come contrastare la ragione dell’odio? Forse ristabilendo nel rapporto con gli altri il modo congiuntivo, ovvero tollerando le altre sintassi. Tenendo a mente che quel suono che tanto ci infastidisce non è né segnale né rumore; quel suono sono gli altri.