La lingua aliena
«Scrivi qualcosa sul tradurre la fantascienza?»
«Volentieri, ma posso metterci dentro un po’ di cazzi miei? Non sono capace di scrivere se non ci metto un po’ di cazzi miei».
Vivere, esistere, forse raccontare. Tradurre vuol dire trascrivere i silenzi del vissuto e i suoi rumori, traslare le sue voci e forme in un piano che sfugge; perché vita e biografia sono un libro con testo a fronte, ma a separarle c’è un candido vuoto. Enrico Terrinoni, Oltre abita il silenzio. Tradurre la letteratura, Il Saggiatore 2019.
Mio padre è di Brescia.
Cosa c’entra Brescia con la fantascienza? Ci siete mai stati?
Cosa c’entra Brescia con la traduzione? I miei nonni parlavano quasi solo in dialetto, e io non capivo quasi niente di quello che dicevano. Che cos’ha detto? Chiedevo a mio padre. Che cosa vuol dire? E lui traduceva.
Quando tornavo a casa, in Piemonte, per qualche giorno parlavo con un accento diverso. Ah, sei stata a Brescia, dicevano i miei compagni di scuola. Si sente, aggiungevano. Cosa c’entra l’accento con la traduzione?
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Quando si parla di traduzione, si finisce sempre per parlare per metafore. Se cerco su Google, «tradurre è come», aperte virgolette, chiuse virgolette, trovo: tradurre è come «camminare su un’autostrada, laddove leggere significa guidare a cento all’ora». Tradurre è come plasmare un essere umano. Tradurre è come camminare su un filo sospeso. Tradurre è come avere una dentiera e non i denti veri. Tradurre è come andare in analisi, solo che costa di meno. Tradurre è come accogliere un ospite nella casa della propria lingua. Tradurre è come suonare: le pause contano tanto quanto (o forse più) delle note suonate. Tradurre è come avere interi romanzi sulla punta della lingua, scritti però con le parole degli altri. Tradurre è «come far rivivere un cadavere». Tradurre è come scopare.
Alcune persone vedono i numeri. Alcune persone gustano i colori. Io, quando leggo un libro, sento una musica, anzi, una canzone: c’è un ritmo, c’è una voce, ci sono delle cadenze che si ripetono come un ritornello, e quella canzone mi resta nelle orecchie, a volte mi finisce in gola. E così finisco per canticchiarla quando scrivo, sostituendo le parole, senza quasi rendermene conto. Ci sono autori che rifanno la stessa canzone da vent’anni, altri che provano a innovarsi ma comunque li riconosci dalle prime note. Se fossimo su r/shittysuperpowers direi che il mio superpotere è che sono l’Uomo Gatto, ma con i libri.
Ogni volta che finisco di tradurre un libro, lo leggo tutto ad alta voce. Non me l’ha insegnato nessuno; è una cosa che ho iniziato a fare per caso, perché mi è venuta così, spontanea, quando ho tradotto un libro per la prima volta. Lo leggo ad alta voce per sentire se suona bene. Lo leggo ad alta voce per sentire se il testo inciampa, perché se inciampa vuol dire che c’è un errore, gli inciampi della voce sono come la righina rossa zigrinata su Word. Lo leggo ad alta voce per sentire se, oltre alle parole, sono riuscita a tradurre anche la musica del testo. Che non è necessariamente uguale a quella originale, così come le scale musicali non sono uguali in tutto il mondo. Lo leggo ad alta voce per sentire se gli è rimasto un po’ d’accento.
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Ah, sei stata a Brescia, dicevano i miei compagni di scuola. Si sente, aggiungevano. Per qualche giorno mi sentivo estranea. Parlavamo allo stesso tempo la stessa lingua e una lingua diversa. Se fossi tornata subito a Brescia, però, i bresciani non mi avrebbero riconosciuto come una di loro. Da dove vieni? Di dove sei? Non sei di qui, vero? Che strano accento che hai.
Ho tradotto i testi delle canzoni che ascoltavo all’inizio degli anni Novanta, ho tradotto versioni di greco e di latino – devi restare più aderente al testo, mi diceva la professoressa, ma io ascoltavo il mio orecchio, non lei. Ho tradotto – tu che sai l’inglese, mi puoi tradurre questa cosa? – ho tradotto questa cosa. Ho tradotto parte di un manuale di economia e parte di un manuale di psicologia, ma non c’è il mio nome da nessuna parte, ho tradotto alcuni primi capitoli (si sa qualcosa della prova di traduzione?), un saggio che alla fine non è stato pubblicato perché la casa editrice è fallita, alcuni articoli per un sito che non esiste più.
E poi ho iniziato a tradurre fantascienza.
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Tu che sai tutto di fantascienza…
Bello che traduci fantascienza, ma io non la leggo, non mi piace.
Traduci fantascienza? Ma tipo Star Trek?
Traduci fantascienza? Ma tipo Guerre stellari?
Traduci fantascienza? Ma dai, mio padre aveva una collezione di Urania nella casa al mare.
Traduci fantascienza? Da giovane ne leggevo tanta, ho letto tutto Asimov, ma adesso non ne leggo più.
Traduci fantascienza? E dire che siamo nel 2020 e non hanno ancora inventato le macchine volanti.
Traduci fantascienza? Ma secondo te, cosa succederà nel futuro, quali previsioni si realizzeranno?
Traduci fantascienza? Ma dove li posso trovare i tuoi libri?
Tradurre fantascienza significa entrare a far parte di una comunità dove gli addetti ai lavori sono spesso anche lettori e i lettori-e-basta sono pochi. Significa cercare un’autrice americana che ti piace su Twitter, scriverle chiedendo scusa per l’intrusione ma mi piacerebbe proprio tradurre un tuo racconto e sentirsi rispondere di sì con entusiasmo. Significa più opportunità di incontrare gli autori che traduci grazie alle convention, e berci una birra insieme, o due, o tre e rispondere alle loro domande sul lavoro che hai fatto. Significa infilare nel feed reader decine di siti e leggere recensioni e scaricare anteprime e scrivere al proprio editore, hai visto questo libro? Lo facciamo? Perché se lo spazio è l’ultima frontiera, nel piccolo mondo editoriale della fantascienza i confini tra i ruoli sono un po’ più sfumati.
Scrive Giulia Iannuzzi, nel libro che ha dedicato a Riccardo Valla: «ogni testo scritto e/o pubblicato e/o letto come testo di fantascienza si colloca entro una rete inter-testuale (o mega-testo) […] in cui il linguaggio gioca spesso un peculiare ruolo – in forma di onnipresenti neologismi, neosemi, linguaggi inventati, vocabolari tecno-scientifici e pseudo-scientifici, nonché di riflessioni metalinguistiche e rappresentazioni finzionali dello stesso processo traduttivo». Per tradurre la fantascienza non è necessario appassionarsi alla fantascienza, basta appassionarsi alle parole. Smontarle per vedere come sono fatte e rimontarle in una lingua diversa. Scavare nel terreno in cui affondano le radici finendo a testa in giù e scoprire il modo in cui quelle radici si legano a quelle di altre parole – e poi seguirle di nuovo fino in superficie, per trovare quella giusta. «La traduzione di fantascienza», prosegue Iannuzzi, «è dunque paragonabile per molti versi alla traduzione poetica, sia per lo spazio che i fenomeni linguistici hanno nelle sue tematiche e nelle sue forme, sia per la sua natura di genere “di nicchia”, i cui repertori creativi e orizzonti d’attesa sono altamente codificati». E la poesia è questione di orecchio – di ritmo, di voce. Di accenti.
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Tradurre è come «risolvere qualcosa che non necessariamente ha una soluzione». Tradurre è come fare la zia. Tradurre è come correre la seconda frazione di una staffetta. Tradurre è come ripetere una bella musica sopra un diverso istromento. Tradurre è come rivestire un tetto di tegole. Tradurre è come raccogliere: la traduzione è il raccolto di due culture diverse. Tradurre è come fare il pane.
Nel Cambridge Companion to Science Fiction, Gwyneth Jones sostiene che leggere una qualunque storia di fantascienza implica sempre un processo attivo di traduzione. Secondo Jones la caratteristica principale di ogni tipo di fantascienza è la costruzione di un mondo che è altro rispetto al nostro, che si tratti di un altro pianeta (o addirittura di un altro universo) o di un mondo futuro.
Chi scrive fantascienza, quindi, deve indicare a chi legge quali sono le regole di questo mondo altro, e chi legge deve essere in grado di comprendere queste indicazioni.
Chi traduce fantascienza, quindi, deve trasportare un mondo altro, scritto in una lingua altra, che nasce e cresce e si nutre di una cultura altra, nella sua lingua e nella sua cultura. Forse è proprio per questo che, sebbene non mi sia ancora appassionata del tutto alla fantascienza, mi sono innamorata della sua traduzione.
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Parlare di traduzione è come ballare di architettura. E allora balliamo. Tradurre è come suonare il pianoforte, suonare una melodia scritta da qualcun altro ma eseguita da noi. Tradurre è come portare una ragnatela da un angolo all’altro di una stanza. Tradurre è come suonare una sinfonia in chiave diversa. Tradurre è come suonare il basso in una rock band: il traduttore, come il bassista, si nota solo se non è all’altezza. Tradurre è come rifare in macchina il percorso di una barca. Tradurre è come traslocare.
Tradurre fantascienza è come quando sei piccola e vai a Brescia due volte all’anno e una parte di te vorrebbe restare lì per sempre e una parte di te non vede l’ora di tornare in Piemonte, e quando torni in Piemonte per qualche giorno ti resta attaccato quello strano accento. Da dove vieni? Di dove sei? Non sei di qui, vero? Che strano accento che hai.