Terrore dallo spazio profondo

A cinquant’anni dall’allunaggio, le promesse dell’esplorazione spaziale non sono state mantenute. E intanto, lo spazio esterno alla Terra resta quello che da sempre è: una frontiera inabitabile, terribile, aliena

La corsa allo spazio degli anni Sessanta, la prima era spaziale, è stata un trauma per l’umanità, l’ennesimo della famiglia della modernità. Un’impresa senza precedenti, annunciata e realizzata in meno di dieci anni. Una bellissima avventura, una mastodontica organizzazione del lavoro. I 21,6 chili di roccia e polvere della prima missione con sbarco lunare, l’Apollo 11; il bruto Rocco Anthony Petrone, Space Oddity, il «grande passo per un uomo» (o per l’uomo?) di Armstrong e il «sto scendendo dalla scaletta» di Aldrin. Era il 1969, penultimo anno del Quinquennio D’Oro della musica rock. Ma è stato un trauma. Non ci abbiamo fatto i conti, perché come con ogni trauma non facciamo che rimuoverlo. Sul momento non è stato vissuto neanche con violenza, ma il 21 luglio del 1969 è stato una disillusione, la mancata promessa di rinnovo di una nuova frontiera.

Le missioni Apollo sono costate pochissimo in rapporto alle altre cose che facevano gli Stati Uniti in quel periodo. In meno di dieci anni, 25 miliardi di dollari di allora – quasi un sesto di quanto è stato speso per mandare i militari in Vietnam tra il 1965 e il 1972 – per progettare, costruire e far volare 15 razzi Saturn V di Von Braun, 16 moduli di comando e servizio e 12 moduli lunari. Apollo 11 è stato un viaggio complessivo di quasi un milione di chilometri (poco meno di 400 mila ad andare e altrettanti a tornare, più i percorsi intorno alla Terra e alla Luna). Un’impresa incredibile, letteralmente, ancora oggi stentiamo a crederci, non smette di meravigliarci. Apparentemente al di là della nostra portata ma più fattibile di quello che sembrava, replicata per cinque volte fino al 1972. A tirarla su, persone educate al puritanesimo, al successo del duro lavoro. Non perché è facile ma perché è difficile. Rendiamoci conto che siamo decenni prima del libro di Murakami. In realtà Kennedy, come ogni politico, non era così entusiasta di investire così tante persone e risorse in missioni quasi mortali. Sarebbe stato d’accordo con suor Maria Gioconda, quella che nel 1970, dopo la missione Apollo 11 (prima non avrebbe avuto senso), scrisse al direttore della Nasa chiedendogli perché non spendere i fondi statali dell’ente spaziale per aiutare i poveri. Ci sono audio di conversazioni riservate in cui Kennedy descrive la corsa allo spazio come una necessità geostrategica più che un’impellenza tecnologica e spirituale. Da Eisenhower aveva ereditato la Guerra Fredda, la Baia dei porci, la guerra del Vietnam – e poi la Nasa, fondata nel luglio del 1958, nove mesi dopo il primo lancio di un satellite in orbita bassa, lo Sputnik 1 dei sovietici. Avviare anche in Occidente un programma spaziale, con conseguente corsa allo spazio, perlopiù indossando fichissimi Wayfarer, era un atto dovuto. Ci ha regalato, tra le altre cose, la miniaturizzazione elettronica, le tute pressurizzate e la manipolazione di materiali ultraleggeri, al modico prezzo, per parte statunitense, di 25 miliardi di dollari degli anni Sessanta – un affare. Ma non ci ha regalato l’esplorazione spaziale. O meglio, ci ha mostrato qualcosa di disturbante. I viaggi spaziali, attualmente, si mantengono a distanza dallo spazio che esplorano.

La frontiera è uno stato di necessità. Se non siamo noi ad andare da lei è lei a venire da noi. È un retaggio genetico-culturale che ci appartiene in quanto specie cacciatore-raccoglitore. È un’istanza arcaica, non solo la metafora del colonialismo. Rispettiamola. Che cos’è? Sinceramente non lo so, quindi direi un orizzonte semantico. Scherzo. È un concetto antropologico, così va meglio? Una metafora. La conquista coloniale delle Americhe è stata la rincorsa a una frontiera, per esempio; la migrazione dell’homo sapiens dall’Africa, l’immigrazione di massa europea della prima metà del XXI secolo, l’emigrazione di 10 mila anni fa dei sapiens verso le Americhe con annesso sterminio dei cavalli, la Tratta Atlantica tra XVI e XIX secolo. Sono tutte frontiere. Non mi viene ancora una definizione del concetto, ma grossomodo ci siamo capiti. Con la scoperta delle Americhe ci saremmo potuti mondializzare e mettere la parola fine alle frontiere, senza passare per gli imperi marittimi, ma il colonialismo le ha mantenute, inceppando il processo di mondializzazione. La civilizzazione del sudovest americano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo sembrava mettere la parola fine definitiva al meccanismo della frontiera, ma le crisi economiche e i totalitarismi l’anno mantenuta. Infine, è ritornata nelle sembianze di un’esplorazione spaziale. Ma senza i motori hawking, i portali, la nanotecnologia, la compressione spazio-temporale, la manipolazione genetica e tutti i necessaire che ci indicano i futurologi, l’esplorazione della frontiera spaziale è impossibile nei termini classici di una cavalcata nelle Grandi Pianure. Finisce per sprofondare nell’immaginario, si trasforma in un evento messianico, un iperoggetto, come il cambiamento climatico, l’inverno di Game of Thrones, l’apocalisse zombie, il Regno di Dio, Gesù. Una frontiera che rimanda continuamente l’arrivo della dogana. La si raggiunge talmente lentamente (quando andremo su Marte, tra quindici anni, tra cinquanta?) da non venire riconosciuta, come fosse già accaduta. È stato calcolato che l’energia solare del nucleo della nostra stella ci mette una decina di milioni di anni per raggiungere l’eliosfera e disperdersi nello spazio. Significa, per assurdo, che il Sole potrebbe essere spento da tantissimo tempo ma ci metterebbe così tanto a spegnersi che per noi la differenza tra un sole attivo e uno già spento non farebbe differenza. Non possiamo sapere se il Sole adesso è spento e saperlo non cambierebbe lo stato delle cose visto che non potremmo fare nulla per cambiarlo. Ma se lo sapessimo cambierebbe tutto. La frontiera spaziale somiglia a un casino di questo tipo. È lì, la attraversiamo pure, ma non possiamo raggiungerla.

La frontiera dell’astronauta è un’iperfrontiera, da valicare tenendosi al di fuori di quello che c’è oltre, al sicuro nella navicella, nella tuta, perché un qualsiasi contatto con l’ambiente esterno è annichilente.

In quanto sapiens cacciatori-raccoglitori in continua migrazione, la frontiera ci appartiene. Siamo da sempre in fuga dall’esaurimento delle risorse e dai cambiamenti climatici, insieme a tutti gli esseri viventi. La frontiera è una figurazione del modo con il quale rilanciamo una civiltà, ne sterminiamo un’altra – ma solo per mantenere il livello di ricchezza della nostra, mica per cattiveria – o ne inventiamo una nuova, com’è accaduto all’Europa dal XV secolo in poi con l’emigrazione americana. È l’abbondanza coloniale. Quando è consapevolmente l’ultima assume un sapore crepuscolare, come nei western e in Red Dead Redemption 2. E se vi sta sulle scatole il cowboy c’è sempre il marinaio, il montanaro, l’ascoltatore di musica. La frontiera è ovunque. Ma la frontiera dell’astronauta e del cosmonauta attuali è un’iperfrontiera, da valicare tenendosi al di fuori di quello che c’è oltre, al sicuro nella navicella, nella tuta, perché un qualsiasi contatto con l’ambiente esterno è annichilente.

In realtà è la frontiera a portare ogni volta con sé questa tragedia. Ogni nuova scoperta è un passo verso la saturazione dei territori, un altro pezzo di immaginazione che se ne va (addio hic sunt leones). Dopo le Americhe, il mondo è diventato tondo, ha smesso di essere incognito. La modernità non è che la maturazione di questa delusione, di questa nostalgia: la Terra a un certo punto finisce e si esaurisce. La nostalgia appartiene alla modernità, è il rimpianto di dio e degli anni Ottanta. Modernità è una mazzata tremenda all’orgoglio umanista, alla sua naturale raffaelitica trascendenza. La modernità è anche questo. La corsa allo spazio avrebbe dovuto riparare a questa delusione, annunciare un nuovo Nuovo Mondo ma i pianeti, gli asteroidi e le lune si sono rilevati una cosa un po’ lontana, attualmente, dall’essere luoghi abitabili. La foto di Buzz Aldrin scattata da Armstrong è sotto un sole pieno di radiazioni letali, caldo oltre cento gradi. L’ombra è molto più fresca, oltre cento sottozero. Non c’è atmosfera. L’Extravehicular activity (EVA) non è una «passeggiata spaziale» ma una persona che deve restare ancorata alla stazione spaziale se non vuole fluttuare alla deriva senza controllo e che fra sé e il vuoto letale ha qualche centimetro di tessuto. Su Marte l’atmosfera c’è e il panorama spacca, ma l’aria è un centesimo di quella terrestre e al sole si è esposti a centinaia di radiografie ogni giorno. Cosa dovremmo esplorare? Sono mondi preclusi alla nostra abiogenesi. Una serie tv realistica sull’esplorazione spaziale, allo stato attuale evolutivo dell’essere umano, somiglierebbe a Chernobyl.

Il trauma della frontiera spaziale è che nello spazio non c’è nulla, nulla che si possa abitare, nulla che si possa incontrare, nulla che sia visitabile alla maniera tradizionale. Lo spazio al di là della frontiera terrestre è inospitale e ostile. Due eventualità connaturate all’esplorazione, il rischio a cui ci si espone quando si viaggia, ma nello spazio interplanetario sono il tessuto della realtà. Inospitale e ostile non è un predatore, un colono o l’ambiente naturale ma lo spazio stesso. Un hic sunt leones perenne, una terra incognita da visitare immunizzati nelle tute. L’apertura heideggeriana dell’animale uomo, la sua capacità di esporsi al mondo governandolo, fuori dalla Terra è improponibile, oppure al contrario è proprio la sua capacità di esporsi al mondo a portarlo in posti che non fanno per lui.

Abbiamo allunato ed è stato grandioso, e non possiamo fare altro, non c’è nulla sulla Luna che valga la pena e il costo per abitarla. Questo genera uno iato tra l’idea della frontiera a cui ci ha abituato il retaggio colonialista e una realtà dei fatti stretta tra l’immenso impatto tecnologico-scientifico dello sviluppo aerospaziale e le immense lacune tecnico-scientifico-antropologiche richieste per essere viaggiatori disinvolti. È un grande peccato. Brucia. Ma è anche ingenuo rammaricarsi, non è maturo, sarebbe come rimpiangere gli anni Ottanta invece di limitarsi a edulcorarli, come hanno capito i Duffer Brothers. La nostra abiogenesi, il nostro essere, è determinato dall’ambiente della Terra. Se dai batteri delle sorgenti idrotermali non si può pretendere un luogo diverso per loro dove trovarli se non le sorgenti idrotermali, come possiamo pensarci naturalmente fuori dalla Terra? La verità è che negli anni Sessanta i baby boomers, abituati al cocco ammunnato, erano in età della ragione e sognavano un’esperienza totalizzante (gli stessi 400 mila col cocco ammunnato che hanno organizzato missioni umane sulla Luna in pochi anni, sia chiaro, bitch). E invece la Terra è tonda, la scienza spacca e lo spazio cosmico è raccapricciante.

Il cyberpunk non è che la letteratura di questo trauma, di questa frontiera fallita. Un futuro disgustoso, ricchissimo, meraviglioso, distopico, un’occasione mancata, una schizofrenia culturale stretta tra i vecchi retaggi imperiali occidentali e il realismo dirompente della modernità. Un futuro caotico dove, rifiutandosi di trasformare le dinamiche intersoggettive tipiche della caccia e della raccolta, la società subisce la dirompenza tecnologica senza governarla. Nel cyberpunk lo spazio esterno alla Terra, incluso il cyberspazio, è inabitabile, terribile, alieno. Ci si passa attraverso senza stanziarsi. Ci sono mondi fuori dalla Terra abitati ma neanche Gibson si sforzava di immaginarli, troppo lontani. Simmons riesce a immaginare mondi alieni ma deve utilizzare i portali dell’Egemonia (talmente complessi da dover essere governati da un ecosistema di IA che non ha alcun interesse a dominare sull’uomo ma solo a farsi i fatti suoi), quindi in sostanza immaginare la colonizzazione di unico pianeta composto da centinaia di pianeti tutti raggiungibili senza continuità, senza entrare e uscire da nessuna atmosfera, senza attraversare frontiere. Le visioni del cosmo reale sono come le sublimi tempeste di Caspar David Friedrich da ammirare al sicuro. La visione del cosmo è una performance estetica, con l’astrofisica e la matematica a corollarne la bellezza.

Il complottismo sull’allunaggio può insegnarci qualcosa in questo senso. Non subendo il trauma, fornisce un’analisi più genuina dell’entusiasmo del divulgatore scientifico o delle promesse spaziali di Kennedy (che ci ha lasciato un discorso che ancora oggi fa venire i brividi, mixato qualche anno fa dai Public Service Broadcasting). Il complottista è arrabbiato per via del tradimento dell’immaginario. Ci è stata promessa la Luna ma alla fine ci è stata data qualche diretta televisiva. Della possibilità di esplorare un nuovo mondo, alla vecchia maniera, nulla. Delusione e rabbia, fino al rifiuto. È stata inaugurata una frontiera chiusa. Non è tanto quindi sostenere che non siamo andati (questo è insostenibile) quanto piuttosto non dargli importanza – questa è la tremenda verità del complottismo. L’impatto della corsa spaziale è stato enorme sulla nostra società, ma minimo sulla nostra evoluzione. È talmente distante dalla nostra esperienza vissuta da potersi ridurre a un atto di fede, crederci o non crederci. Nel caso non ci crediate, evitate di dirlo con insistenza in faccia ad Aldrin.

La verità è che è tutta colpa di Colombo e Newton. Si stava così bene prima. Il mondo era piatto, aveva confini, i marinai incontravano il Purgatorio appena fuori lo Stretto di Gibilterra. La scienza era come in Torre di Babilonia e Omphalos di Ted Chiang: certa, vera, sperimentale, divina e creazionista, l’universo era chiuso in sfere concentriche e dio amministrava il tutto da buon burocrate. È arrivato prima l’italo-spagnolo con una sindrome ossessivo-compulsiva per la navigazione, si è aperto un nuovo spazio, la terra è diventata rotonda, senza confini – che gli europei hanno subito ristabilito. Poi il matematico inglese ha deflagrato l’ordine del mondo in un caos senza centro governato da principi che valgono come leggi. Il soggetto viveva tranquillo e sereno nell’utero aristotelico ed è stato obbligato a uscire. Niente che abbia minacciato l’esistenza dell’uomo, piuttosto la sua salute mentale. La cura è consistita nel fare finta che le leggi naturali continuassero a esistere come se niente fosse. Funziona alla grande, anche con la fisica subatomica, basta però che ci si limiti, regola numero uno fin dal Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, a descrivere, a spiegare i come della natura via via sempre meno approssimativamente, fino ai pacchetti di Planck, senza mai azzardarsi a spiegare i perché. Un mondo con un senso senza scopo. Un bel trauma. Un contatto con una civiltà aliena potrebbe salvarci da questa decadenza (dovuta all’assenza di scopo, dovuta all’ossessione per un scopo, chissà). È una delle attese messianiche che abbiamo interiorizzato. Ma in realtà è altrettanto scientifico ipotizzare un universo con una sola forma di vita. Saremmo soli, e questo potrebbe renderci di nuovo speciali agli occhi di dio, semmai fosse interessato a noi. Comunque sia, la cosa che ti frega in tutto questo è che non si torna indietro, fare cose edipiche come andare a letto con Aristotele non risolverebbe alcunché. Il trauma è fatto, il dado è tratto. Ci si sente un po’ abbandonati e ci si rifiuta di accettare lo stato delle cose. Si tende a essere conservativi, e anche verso i nuovi mondi cosmici si prova a spacciare Progresso, Fede e Civiltà.