Il Dead Media Project è un archivio digitale che raccoglie le forme mediatiche inventate dall’umanità nel corso della sua storia e poi definitivamente abbandonate: dai messaggi di fumo dei nativi americani al diorama di Daguerre, dal telegrafo ai piccioni viaggiatori. Il progetto, fondato dallo scrittore di fantascienza cyberpunk Bruce Sterling negli anni Novanta, è ospitato su un vecchio sito HTML che oggi si può consultare soltanto tramite la wayback machine: l’ultimo medium della lista, il nastro magnetico, è stato aggiunto del 2001. È un destino ironico, e forse inevitabile, che lo stesso progetto che ambiva a tracciare una genealogia dell’obsolescenza delle tecnologie mediatiche sia diventato a sua volta un “dead medium”.
Del resto, tutti i linguaggi, le estetiche e le culture che hanno popolato la rete nel corso della sua breve storia sono nati già morti: ogni tentativo di scriverne una cronaca in tempo reale si trasforma subito in una forma di necromanzia. Nel 2011, su Tumblr, girava lo screenshot di un’intervista in cui un dj sconosciuto, tale Lil Internet, si fregiava del titolo di “seapunk historian”. A farci ridere allora era il pensiero che una sotto-sottocultura digitale, nota a una decina di persone o forse mai esistita, potesse avere una storia; tredici anni dopo non è più solo il seapunk, ma la stessa immagine di Lil Internet (insieme alla piattaforma su cui circolava) a essere diventata un reperto archeologico. La nostalgia è un sentimento scivoloso: mentre ci offre il conforto di un rifugio in mondi più innocenti e paradisi perduti, ci intrappola in un passato senza fine e ci sottrae la capacità di immaginare altri futuri.
La nostalgia, in questo senso, è il sentimento che più di ogni altro ha caratterizzato l’esperienza online negli ultimi anni. Per citare una frase sempre più ricorrente nelle comment section sui social, Internet ci ha costretti ad accorgerci che “viviamo tutti la stessa vita”: le estetiche digitali, dalla Vaporwave all’ASMR, dal Frutiger Aero al Traumacore, manifestano e collettivizzano i nostri incubi più spaventosi, i nostri ricordi più privati e le nostre vibe più indescrivibili. Frughiamo tra le macerie di Internet alla ricerca di una narrativa coerente per frenare la frammentazione entropica delle nostre identità, ma al core delle nostre vite digitali troviamo soltanto una sensazione familiare e sfuggente a cui non riusciamo a dare un nome.
Esiste un modo per sopravvivere a questa fine-senza-fine di Internet senza restarne schiacciati, ma senza nemmeno ricadere nel rifiuto luddista di tutte le tecnologie digitali? Ora che le strategie di hacking del secolo scorso hanno definitivamente fallito, esiste una via di uscita tecno-poetica dalle paludi delle piattaforme? Esiste una backroom davvero inespugnabile, oppure dobbiamo rassegnarci a staccare la spina?
Che “gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone” è un insegnamento senza tempo, ma Internet ha dimostrato una capacità senza precedenti di disarmarci. Ogni forma di resistenza nei confronti delle tecnologie digitali è immediatamente fagocitata dalle logiche di profitto delle piattaforme. L’entropyposting esemplifica meglio di qualunque altro trend questo fenomeno: la pratica di postare contenuti caotici, in contrasto con i profili ultra-curati degli influencer (o aspiranti tali), è in realtà un’altra tattica di autopromozione, in cui il contenuto “brutto” e imprevedibile funge da copertura per la forma più esclusiva e artefatta di identità social.
La nostra immaginazione, ormai, è infestata di parassiti: nemmeno i nostri sogni sovversivi sono più davvero nostri. Chi controlla gli strumenti digitali ha tutto l’interesse a continuare a dipingere la tecnologia come un mostro esoterico e autocosciente, ma queste narrazioni sono soltanto bullshit: le intelligenze artificiali generative non hanno sogni, allucinazioni o trip psichedelici, ma gli stessi bias delle società che le hanno prodotte. C’è, però, anche chi sceglie di utilizzare l’oscurità programmata delle tecnologie digitali per lanciare contro-incantesimi. Figlie tanto degli hacklab degli anni Novanta quanto dei sabba dei tempi che furono, queste cyberstreghe sovvertono gli strumenti digitali per costruire alternative al potere totalizzante del capitalismo patriarcale.
Davanti al caos digitale, alla tirannia degli algoritmi e al buco nero della nostalgia ricorsiva possiamo scegliere soltanto due strade: quella del disincanto o quella del reincantamento, l’illuminismo o la stregoneria. Tu che pillola scegli?