Spettri jungle

Un classico di Mark Fisher su Goldie, Rufige Kru, e la distopia utopica dell’hardcore continuum inglese

Pubblichiamo un estratto da Spettri della mia vita – Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, l’antologia di Mark Fisher pubblicata in Inghilterra nel ?2014? e recentemente tradotta in italiano da minimum fax, ringraziando l’editore per la disponibilità.

Doveva essere il 1994, quando ho visto per la prima volta Ghosts of My Life di Rufige Kru sugli scaffali di un grosso negozio di dischi in centro. L’ep con quattro tracce in realtà era stato pubblicato nel 1993, ma a quell’epoca – prima del clamore di internet e delle discografie online – le tracce dell’underground emergevano molto più lentamente. Era un esempio perfetto di darkside jungle. La jungle costituiva una manifestazione di ciò che Simon Reynolds avrebbe in seguito definito «hardcore continuum»: le serie di mutazioni nell’underground della musica dance britannica innescate dall’introduzione del breakbeat nel rave, passando dall’hardcore rave alla jungle, allo speed garage e al 2-step.

Personalmente ho sempre preferito il nome jungle al termine più esangue e abbastanza fuorviante di drum and bass, visto che gran parte dell’attrattiva del genere nasceva proprio dal fatto che in realtà non c’era nessuno che suonava né batteria né basso. Invece di simulare le qualità dei «veri» strumenti, la tecnologia digitale veniva utilizzata per produrre suoni privi di correlati preesistenti. La funzione del timestretching – che consentiva di modificare l’armatura temporale di un suono senza alterarne l’intonazione – trasformava i breakbeat campionati in ritmi che nessun essere umano era in grado di suonare. I produttori sfruttavano anche la strana escrescenza metallica che si generava quando i campioni sonori venivano rallentati e il software interveniva a riempire i vuoti. Il risultato era una furia astratta che rendeva la chimica quasi superflua, e accelerava il metabolismo, intensificava le aspettative, riorganizzava il sistema nervoso degli ascoltatori.

Vale la pena di tenersi stretti il termine jungle anche perché evoca un terreno: quello della giungla urbana, o meglio della faccia nascosta di una metropoli che stava cominciando a subire un processo di digitalizzazione. Spesso l’uso del termine urbano è sembrato un sinonimo più educato per indicare la musica «nera». Si può però anche considerare l’uso del termine non come un tentativo di disconoscimento delle implicazioni razziali, ma come un appello alle forze della convivialità metropolitana. Allo stesso tempo, va detto, la jungle non era affatto una celebrazione univoca dell’urbano. Se celebrava qualcosa, si trattava della seduzione dell’oscuro. La jungle liberava la libido soppressa nell’impulso distopico, rilasciando e amplificando la jouissance che deriva dall’aspettativa di annichilimento di ogni attuale certezza. Come ha a affermato Kodwo Eshun, nella jungle avveniva una libidinizzazione dell’ansia stessa, una trasformazione in piacere degli impulsi di aggressione e fuga.

Si trattava di un’operazione profondamente ambigua: a un certo livello, stavamo assistendo a una sorta d’intensificazione sonora fittizia e di estrapolazione della distruzione della solidarietà e della sicurezza sociale da parte del mondo neoliberale. La jungle respingeva in blocco la nostalgia per l’intimità della vita provinciale, ma la sua città digitale non era di alcun conforto al forestiero: là non ci si fidava di nessuno. La jungle ha tratto molti dei suoi spunti dagli scenari hobbesiani di film degli anni Ottanta come Blade Runner, Terminator e Predator 2. Non è un caso che tutti e tre i film presentino situazioni in cui si dà la caccia a qualcuno. Il mondo della jungle era un luogo in cui entità, umane e non umane, si davano la caccia a vicenda per sport e per sopravvivenza. Eppure la darkside jungle esprimeva tanto il fremito della preda in fuga, l’euforia-ansietà da videogame nel riuscire a eludere gli spietati predatori, quanto l’eccitazione di abbattere la preda inseguita.

A un diverso livello, la darkside jungle raffigurava esattamente il genere di futuro che il capitale può soltanto ripudiare. Il capitale non potrà mai ammettere apertamente di essere un sistema basato sull’avidità disumana, e il Terminator non rinuncia mai alla propria maschera umana. La jungle non soltanto strappava via la maschera, ma s’identificava attivamente con la circuitazione inorganica sottostante: ecco il perché dell’androide-testa di morto utilizzato come logo da Rufige Kru. L’identificazione paradossale con la morte e l’equazione tra morte e futuro disumano era qualcosa di più di un semplice gesto nichilista a buon mercato. A un certo punto, l’incessante negatività dell’impulso distopico si trasforma in un gesto inaspettatamente utopico, e l’annientamento diviene il presupposto di qualcosa di radicalmente nuovo.

Nel 1994 studiavo all’università, e non avevo né il coraggio né i soldi per ciondolare nei negozi di dischi e comprare tutte le ultime novità. Così scoprii le tracce jungle nello stesso modo discontinuo con cui avevo seguito i fumetti americani negli anni Settanta. Le mettevo insieme dove e come potevo, generalmente attraverso compilation su cd pubblicati parecchio tempo dopo che la vivacità degli acetati originali si era raffreddata. In generale, era quasi impossibile imporre una qualsiasi narrazione al flusso implacabile di quella musica. In sintonia con il suono depersonalizzato e deumanizzato, i nomi degli artisti si riducevano spesso a criptici tag cyberpunk, slegati da qualsiasi biografia o luogo. La jungle andava più che altro gustata come una corrente elettrolibidinale anonima che sembrava transitare attraverso i produttori, una serie di affetti ed effetti speciali disconnessi del tutto dagli autori. Sembrava una forma di non-vita sonora, un’intelligenza artificiale feroce e animalesca involontariamente evocata in studio di registrazione, dove breakbeat simili a cani da caccia geneticamente potenziati strattonavano per liberarsi dal guinzaglio.

Rufige Kru era uno dei pochissimi artisti jungle di cui sapevo qualcosa. Grazie ai ferventi pezzi pubblicati da Simon Reynolds sul defunto Melody Maker, avevo scoperto che Rufige Kru era uno degli alias utilizzati da Goldie, il quale, praticamente unico nell’anonimato della scena jungle, stava già diventando un volto riconoscibile. Se proprio doveva esistere una viso per quella musica senza volto, allora quello di Goldie – un ex graffitaro mulatto con i denti d’oro – era il candidato perfetto. Goldie si era formato sulla cultura hip-hop, ma era stato irrimediabilmente trasformato dal delirio collettivo del rave. La sua carriera è diventata l’esempio di una lunga serie di impasse. Per qualsiasi produttore emerso dallo scenius  dell’hardcore continuum, la tentazione è sempre stata quella di rinunciare alla natura essenzialmente collettiva delle condizioni di produzione della propria musica. Si è trattato di una tentazione cui Goldie non ha saputo resistere, anche se, fatto significativo, i suoi dischi sono peggiorati nel momento esatto in cui ha cessato di utilizzare nomi collettivi e impersonali per i suoi progetti e iniziato a pubblicarli sotto il nome (peraltro falso) di Goldie. Il suo primo album, Timeless, ha smussato gli spigoli non-organici della jungle attraverso l’utilizzo di strumenti analogici e di un allarmante buongusto jazz-funk. Goldie è diventato una piccola celebrità, ha preso parte alla soap opera EastEnders della Bbc, e ha fatto uscire soltanto nel 2008 il genere di album che avrebbe dovuto pubblicare quindici anni prima sotto il nome di Rufige Kru. La lezione era chiara: gli artisti urbani britannici possono raggiungere il successo soltanto a patto di abbandonare lo scenius, di lasciarsi il collettivo alle spalle.

I primi dischi pubblicati da Goldie e dai suoi collaboratori sotto il nome di Rufige Kru e Metalheads erano ancora pieni dell’eccitazione da circo del rave. «Terminator», del 1992, era il pezzo più epocale: irrequieto e punteggiato di nervose pugnalate rave, pieno di beat sfasati e sottoposti a timestretching che suggeriscono aberranti geometrie improbabili, e campioni della voce di Linda Hamilton in Terminator che citano paradossi temporali e strategie fatali. Il disco suonava come una riflessione su se stesso: come se le anomalie temporali descritte dalla Hamilton («Tu parli al tempo passato di cose che io non ho ancora fatto») fossero rese fisiche dal suono che implodeva vertiginoso.

Col passare del tempo il suono di Rufige Kru divenne sempre più tirato a lucido. Se i primi dischi ricordavano un assemblaggio di organi smembrati e cuciti insieme alla bell’e meglio, i dischi seguenti ricordavano dei mutanti prodotti per mezzo della manipolazione genetica. Gli elementi ribelli e volubili del rave erano poco alla volta scomparsi, sostituiti da texture più desolate e malinconiche. I titoli – «Dark Rider», «Fury», «Manslaughter» – dicevano tutto. All’ascolto provavi l’impressione di essere inseguito da qualcuno attraverso un portico brutalista del futuro prossimo. I campioni vocali erano diminuiti di numero, e si erano fatti più sommessi e minacciosi. «Manslaughter» riporta una delle frasi più elettrizzanti pronunciate da Roy Batty, il replicante di Blade Runner: «Se solo tu potessi vedere quello che ho visto io con questi tuoi occhi». Lo slogan perfetto per i nuovi mutanti della jungle, programmati dalla scienza di strada per possedere dei sensi più acuti ma un arco di vita più breve.

Compravo tutti i dischi di Rufige Kru su cui riuscivo a mettere le mani, ma «Ghosts of My Life» mi è sembrato particolarmente affascinante a causa del titolo, del suo possibile riferimento a «Ghosts», il capolavoro art pop prodotto dai Japan nel 1981. E quando nalmente ho ascoltato il 12” di «Ghosts of My Life», ho scoperto con un brivido di eccitazione che la voce calata di tonalità che ripeteva la frase del titolo era in effetti quella di David Sylvian dei Japan. Ma non era l’unico indizio di «Ghosts». Dopo una serie di fiotti atonali e di nervosi breakbeat, il pezzo barcollava fino a fermarsi, poi – in un passaggio che ancora oggi trovo emozionante – un breve squarcio dell’elettronica filiforme e astratta subito riconoscibile del disco dei Japan fa irruzione nel vuoto, prima di essere immediatamente consumato dalla fanghiglia viscosa del basso e dagli stridori sintetici che costituivano la firma sonora della darkside jungle.

Il tempo si era ripiegato su se stesso. Una delle mie prime ossessioni pop riemergeva con piena giustificazione in un contesto del tutto inaspettato. Il synthpop dei New Romantics dei primi anni Ottanta, vituperato e schernito in Gran Bretagna ma venerato dalle scene dance di Detroit, New York e Chicago, si era alla fine rivoltato contro le proprie origini grazie all’underground britannico. Kodwo Eshun, all’epoca impegnato nella scrittura del suo More Brilliant than the Sun: Adventures in Sonic Fiction, avrebbe sostenuto che il synthpop aveva svolto nei confronti di techno, hip-hop e jungle lo stesso ruolo fondante che il delta blues aveva svolto nei confronti nel rock. Fu come recuperare una parte disconosciuta di me stesso, uno spettro emerso da un’altra parte della mia esistenza, anche se in una forma ormai permanentemente alterata.