Noise, neoplatonismo e rapimenti alieni

Conversazione con Spencer Clark, gran maestro della musica weird, appena uscito col nuovo progetto Avatar Blue

Il nuovo disco di Spencer Clark si chiama Avatar Blue ed è una colonna sonora immaginaria del fantomatico e ancora irrealizzato Avatar 2. Il film di James Cameron del 2009, Avatar, raggiunse il maggior incasso della storia del cinema, mantenendo il primato per ben dieci anni (scavalcato proprio pochi mesi fa da Avengers: Endgame), un po’ perché la tematica aliena è sempre stata il suo forte, un po’ perché fece tornare di moda per un breve periodo il cinema in 3D, e poi soprattutto perché venne a costare 387 milioni di dollari tra produzione, promozione e marketing. Il film, nonostante la banalità della trama, venne accolto in maniera generalmente positiva dalla critica, quantomeno per aver ricordato al cinema mainstream la possibilità di sfruttare la tecnologia non solo in fase di post-produzione: Avatar fu infatti girato con la Reality Camera System, un sistema di ripresa che impiega due telecamere ad alta definizione e che permette di cogliere maggiore profondità visiva.

Nonostante questo, Avatar Blue, il mastodontico doppio album di Spencer Clark, ha davvero poco a che vedere con l’alta definizione – d’altronde, stiamo pur sempre parlando di un personaggio che è stato autore di alcune delle musiche più inascoltabili degli ultimi venti anni. Assieme al suo caro amico James Ferraro, Clark mise a ferro e fuoco la scena neonoise americana dei primi Duemila con il progetto The Skaters, valanghe di rumore puro soffocato da una coltre di altro frusciante rumore prodotto da un modo di registrare che più che casalingo sarebbe giusto chiamare primitivo. Tra i progetti solisti di Spencer Clark (Monopoly Child Star Searchers, Tarzana, ecc.) spicca invece Fourth World Magazine, con il quale ha dato alle stampe due dischi: The Spectacle of Light Abductions e Pinhead in Fantasia. Quest’ultimo è senza dubbio una delle cose più stranianti e affascinanti uscite in ambito psichedelia/esotica, ma descrivere la musica di Spencer senza addentrarsi nell’architettura concettuale dei suoi dischi, nella sua stravagante costruzione di mondi fittizi, significherebbe non godere pienamente della sua straordinaria potenzialità lisergica. Si scoprirà che alla base dei suoi lavori sottostà un amore indescrivibile per il Rinascimento italiano, la new age, la library music, il weird e tutto ciò che è di serie B. Noi l’abbiamo incontrato a Roma e questo è quanto ci siamo detti.

Spencer Clark in azione

Come è stato suonare qui?
Nella mia mente Roma è veramente un posto dove suonare, con una sua mistica. Io e Milan [Warmoeskerken, alias Milan W.con il quale Clark sta conducendo il tour per Avatar Blue, ndr] ce la faremo in macchina, andata e ritorno, dal nord Italia, per cui possiamo dire che Avatar Blue è ammarato a Roma. Da un lato Roma è analoga a Tokyo, Los Angeles o New York, ma al tempo spesso è anche un luogo dotato di uno strano potere, proveniente da una certa era, come Città del Messico. Per certi versi Roma è proprio come Città del Messico, per il modo in cui ti senti quando ci suoni… È uno di quei posti caratterizzati da una storia talmente assurda che è impossibile eliminarla, per quanto la società e la cultura cerchino di normalizzarli. Qui a Roma si possono ancora sentire certe maestose, oscure vibrazioni…

Vivendoci si ha però la percezione che vada un po’ stretta, certe volte.
Capisco molto bene: ho lasciato la mia città natale quando avevo diciassette anni, dicendo «fanculo». Io vengo da San Diego, California, che è una bella città, però bisogna lanciarsi e partire…

Di sicuro tu hai fatto il giro lungo. Vorrei partire da un quesito di una certa ampiezza. Ci sono, nella tua discografia, alcune tematiche ricorrenti. Una di quelle che secondo me è abbastanza caratteristica è quest’idea della musica come strumento in grado di creare mondi. È così?
Ti dirò, penso che, nonostante il termine esista da sempre, esso sia divenuto di uso piuttosto frequente nel giornalismo musicale quando io avevo già cominciato a fare musica, e senza dubbio chiunque può definire la mia musica come vuole. Penso però che qualunque mondo tu intenda, sia comunque da considerarsi come in primo luogo il mio – o di chiunque stia facendo musica – e che sia quindi situato lungo un percorso storico. Io stesso seguo le orme di persone che prima di me hanno reso il mondo un posto migliore, come P. D. Ouspensky o Roberto Matta. Al momento sto piuttosto in fissa con autori neoplatonici come lo Pseudo-Dionigi, Giamblico e Swedenborg.

Per me il massimo del divertimento è farmi venire in mente nuove idee e modi di visualizzarle per produrre nuovi dischi. C’è appunto questo tema che opera simultaneamente e che cerco di rendere reale con il mio lavoro. Un modo in cui lo faccio è prendere tutto questo immaginario molto oscuro – come in Pinhead in Fantasia, che appunto ha a che fare con Hellraiser – e cercare di renderlo un’esperienza positiva e durevole. Tutto ciò viene dal mio lavoro onirico. Nonostante abbia avuto numerosi incubi in vita mia, non ne ho mai avuto troppa paura – o meglio, mi sono allenato ad apprezzare questa paura – e questo mi ha portato a rendermi conto di come certi temi orrifici non siano altro che barriere, o porte d’ingresso che si devono attraversare, per poter raggiungere il livello successivo. In Spectacle of Light Abductions ho voluto trattare i rapimenti alieni e le grandi adunanze dei mormoni negli stadi, in modo da integrare le questioni relative agli alieni e al fanatismo religioso con un approccio più teosofico. Ho voluto prendere il fenomeno rappresentato da questi rapimenti, che è interessante ma spesso limitato, ed espanderlo, così che le persone potessero rendersi conto che vi sono numerosi modi di percepire presenze aliene, e che il contenuto spirituale che caratterizza queste apparizioni e queste esperienze potremmo tranquillamente essere noi stessi da un’altra dimensione. Nel momento in cui si pensa al mondo in una chiave un po’ meno positivista, quando ci si ricorda che l’universo non può veramente essere limitato a ciò che di esso pensavano i nostri primi fisici, ci sono un sacco di esperienze differenti che possono essere considerate in modi nuovi…

C’è un altro esempio, più profondo, con cui posso illustrare quelli che sono i miei obiettivi artistici. A me piace giustapporre realtà e periodi storici per vedere che cosa ne viene fuori. Pinhead in Fantasia è la combinazione tra il Rinascimento e i miti moderni sui mostri. Per me è stata una grande combinazione. Però io non mi sono limitato a pensare a come combinare queste cose: hanno cominciato ad apparirmi in sogno, obbligandomi a realizzare questo lavoro. E ciò è senz’altro un lavoro di fantasia ma, a seconda del periodo storico, i limiti tra il mondo della fantasia e quello della realtà sono stati disegnati in modi diversi dalla percezione comune. La mia arte è sempre un modo di approfondire me stesso e i miei temi, nel continuo tentativo di provocare i miei ascoltatori e il mondo della musica, per farli interessare ad argomenti che io tendo a considerare un po’ più validi di quanto non avvenga comunemente.

Nel momento in cui ho inserito i mostri di Hellraiser nel Rinascimento si è aperto nella mia mente uno spazio di libertà per entrambe le ere. Nonostante alcuni sostengano che io celebri la cultura trash degli anni Ottanta e Novanta, quello che io faccio in effetti è accostare due periodi storici (comunemente considerati del tutto differenti) e allinearli, rendendoli uguali. Fare in modo che le tendenze gerarchiche dei movimenti artistici di moda vengano fatte esplodere, cancellate, e lasciare che gli esseri umani considerino ogni materiale come proveniente dal divino, e relativo a esso. Questo l’ho imparato negli Skaters, suonando con James [Ferraro], e ho provato a estendere questa esperienza formativa e a trasmetterla ad altre persone, che potrebbero voler imparare queste cose di prima mano, attraverso i miei dischi e la mia arte.

A questo punto possiamo dire che la tua musica non crea mondi fittizi verso i quali fuggire: è più un modo di riarticolare questo stesso mondo, magari rendendolo migliore. A proposito di neoplatonismo e Rinascimento: in un’intervista passata hai nominato Joscelyn Godwin, che è un importante studioso dell’argomento, e il suo The Pagan Dream in the Renaissance.
In realtà non penso che questo mondo necessiti di essere migliorato. Nel senso: sarebbe meglio se facessimo del nostro meglio perché la vita ci sorrida, ma io penso che la vita lo faccia, e voglio solo esserne all’altezza. Il miracolo della vita è qualcosa che voglio emulare e al cui livello voglio innalzarmi, non qualcosa che voglio svilire.

Il pensiero di Joscelyn Godwin ha avuto una grande importanza nella creazione di due miei lavori: Pinhead in Fantasia e H.R. Giger’s Studiolo. La sua tendenza a essere romantico ma al tempo stesso a descrivere accuratamente, trasportando il lettore all’epoca del primo Rinascimento italiano, è veramente qualcosa di speciale. Mostra chiaramente quello che tutti in qualche modo già sanno o sentono, cioè che l’Italia ha dato inizio a tutta quella roba. La versione italiana era molto più pagana, e mentre viaggiava verso l’inferno, in Germania e nei Paesi Bassi, si trasformava e diventava grottesca… magari è stato un processo intenzionale. Non lo so con certezza, però è vero che in Italia il sole pagano splende e penetra le nostre anime. Hai mai parlato con Godwin?

No, a dir la verità, anche se mi da l’idea di essere un personaggio interessante. Che tipo è
Gli ho scritto una mail pensando che non mi avrebbe mai risposto. Tutto sommato è un professore universitario, un accademico, e io gli ho scritto una cosa tipo: «ehi, ho letto il tuo libro, sono andato in tutti i posti in Italia che hai menzionato e ci ho scritto su un disco, H.R. Giger Studiolo, ti andrebbe di ascoltarlo». Lui mi ha risposto «oh, grazie». Tra l’altro gli ho chiesto anche se avesse qualcosa da consigliarmi di musica classica inerente all’argomento, perché non ho veramente modo di leggere tutti i suoi libri. Sono stato davvero nei luoghi di cui parla nel libro: Villa Lante a Viterbo, il Parco dei Mostri a Bomarzo, Palazzo Farnese a Caprarola, tutti posti stupefacenti. Sono anche stato alla Rocca di Soragna, a Parma. Quello è stato il mio posto preferito perché lì ci sono quelle grottesche, tipiche del paganesimo. Veramente uno spettacolo. E poi a Mantova: il Palazzo Ducale è strabiliante, fuori di testa. Avrei potuto tranquillamente non sapere nulla di tutto ciò: è incredibile vedere questo lato nascosto dell’Italia, e sapere che in fondo non è interamente nascosto.

Se può esserti di consolazione, in molti casi ho scoperto posti di questo tipo in Italia leggendo roba di studiosi stranieri.
È veramente un miracolo che riusciate a mantenere tutti questi posti.

E li manteniamo nascosti, purtroppo.
Dopo aver visitato l’Italia sono andato in Svizzera, più o meno quando H. R. Giger è morto. Sono andato a visitare il suo museo e l’ho trovato molto bello. Ho sempre apprezzato molto il suo lavoro, ma trovo che la sua crescita artistica sia stata oscurata, nella percezione comune, dall’universo pop-fantasy in cui è stato inserito. A un certo punto però sono andato a visitare la parte del museo che ospita le opere d’arte che lui aveva acquistato nella sua vita e non mi è piaciuta molto. Non riesco a liberarmi dalla sensazione che quelle opere fossero state scelte in realtà dalle persone che lavoravano per lui, con l’idea di dover impressionare i visitatori, senza rispetto per lo Studiolo. Gli oggetti, anche se non provengono da qualcuno di specifico, tantomeno da un artista degno di una galleria, possono comunque essere preziosi dal punto di vista dell’ispirazione. Per cui ho pensato: «facciamo un album di colonne sonore sugli oggetti fittizi, immaginari, che dovrebbero essere nella H.R. Giger’s Collection (o appunto Studiolo)», e appunto ho realizzato due ore e mezza di colonna sonora di oggetti che ho immaginato fossero nello H.R. Giger’s Studiolo.

Parlando di altri artisti. Non so se lo pronunzio correttamente, ma Joël Vandroogenbroeck
… si dice esattamente così.

Davvero?
Guarda, vengo dalla California del Sud, per cui posso essere abbastanza analfabeta, ma quella è la pronuncia corretta.

Quasi stento a crederlo! Comunque, a proposito di lui, e di altre cose di cui abbiamo già parlato: molta della sua produzione è fatta di library music, con dischi come Biomechanoïd, Middle Ages, Mesopotamia Egypt, Lost Continents, e vari altri. Trovo che questo tipo di musica sia un buon modo per viaggiare attraverso lo spazio e il tempo, per vedere e (magari) creare nuovi mondi. Anche qui di nuovo: non luoghi verso cui fuggire, ma versioni migliori.
Vero, ma chi è che non lo fa, al giorno d’oggi? Per quanto riguarda Joël, non voglio certo parlare a nome suo, però il suo lavoro tocca alcuni dei modi in cui io penso alle cose. Per un certo periodo di tempo con Monopoly Child Star Searchers ho fatto un sacco di musica che suonava africana, indonesiana, o comunque «etnica», e chiaramente ne ero cosciente. Ma il mio obiettivo era immaginare che cosa volesse dire andare in quei luoghi, visto che non potevo andarci veramente con i miei mezzi. Quello che di bello e di interessante c’è in quella musica, è la mia impressione su qualcosa che non conosco, per cui ho dovuto usare i miei personali poteri speciali per intuire mondi reali. In questo processo di intuizione finisci per ideare una nuova e potente – e al tempo stesso molto reale – versione del mondo. È come quando Kafka o Nabokov hanno scritto dell’America: pur non essendoci stati (Kafka in assoluto, Nabokov essendovi arrivato da poco), sono riusciti in qualche modo a farlo in maniera molto precisa e molto realistica. Lì ti rendi conto che la visione remota è super-reale… Joël conosceva quel principio e penso che la sua intenzione fosse quella di creare la propria musica, ponendola in determinati contesti così che un’etichetta si interessasse a lui. Il suo era un in un certo senso un inganno, condotto attraverso lo schema della library music.

Sul fatto che ciò sia molto frequente hai sicuramente ragione, però è vero pure che molta della musica che viene prodotta oggi si limita a descrivere il «qui e ora» circostante. Anche tenendo presente la personale prospettiva dell’artista, non è roba che aggiunga molto alla discussione.
Immagino di sì, anche se penso che ci sia in giro musica interessante fatta da gente che non sa che cosa sia un techno-publicist.

Però per fare una cosa del genere, per offrire un contributo valido, ci deve essere, almeno potenzialmente, un riferimento a come le cose potrebbero essere.
Ma se faccio riferimento a come le cose potrebbero essere, da un certo punto di vista esse lo sono già. Io penso che qualunque cosa tu faccia non venga fuori dal nulla. Viene comunque da un luogo che è nel mondo. Se una cosa la posso pensare, allora è parte del mondo.

Indubbiamente, e una volta che la pensi, la metti attivamente in relazione con le cose che le stanno attorno, e anche se è un semplice respiro, finisce per influenzare tutto il resto. Ma di nuovo, quel respiro lo devi fare.
Be’, devi avere il coraggio di fare queste cose. Penso che una componente decisiva per realizzare cose interessanti sia proprio il coraggio. Anche il coraggio di fare cose che gli altri ritengono di cattivo gusto, non sofisticate, che magari non suonano come la Yellow Magic Orchestra o qualunque altra cosa vada di moda. Questo è ciò da cui provengo: a volte penso a qualcosa che è veramente fuori dall’ordinario e poi trascorro due anni cercando di realizzarla.

Visto che hai nominato cose ritenute comunemente di cattivo gusto, parliamo di come con la tua etichetta, la Pacific City Sound, ti dedichi anche a (ri)stampare cose legate al mondo del surf, come Tradewind: The Wavesailing Film, o dello skateboard, come Shredder Orpheus o Curb Dogs, di prossima uscita.
Per un po’ sono stato in fissa con quella roba.

Beh, la cultura surf è spesso considerata di cattivo gusto. Eppure Tradewind suona come la colonna sonora di un buon film di fantascienza.
Questo è perché negli anni Settanta registi e surfisti erano attratti da roba fica. Cioè, è roba legata all’oceano, ocean art. Quando le persone sono connesse alla terra producono cose interessanti. È per questo che me ne sono interessato. Personalmente non faccio surf ma sono cresciuto vicino all’oceano, e il mio ultimo disco – Avatar Blue – è connesso strettamente all’oceano, perché è ciò di cui in questo momento avverto maggiormente la mancanza. La cosa mi sta portando sempre più a comporre musica basata sull’acqua.

Il tema dell’oceano – le possibilità che offre e che tu esplori, come anche le narrazioni alternative e altri elementi presenti – mi fa pensare ai Drexciya e alle loro civiltà subacquee. Che cosa ne pensi?
In Avatar Blue parlo di come rigenerare una sensazione, un’intuizione dell’oceano, immaginando un’altra Terra, un Oceano-Terra parallelo a questa. Avatar Blue è un’esperienza che permette all’ascoltatore di udire i movimenti natatori segreti dei pesci e della vita marina, suonati però attraverso le mie tastiere e le tavolozze sonore che creo sotto ipnosi. Senza far troppi giri di parole: non so nulla della musica dei Drexciya. Quello che so è che quando mi è stato fatto notare come ci fosse addirittura una somiglianza fonetica nella canzone «Wetsuits of Wiwaxia», la mia risposta è stata «Facciamo attenzione. Wiwaxia è il nome di una cosa che viveva nell’oceano prima dei dinosauri, cazzo». E questa è la questione: la gente è così presa dalla techno che si dimentica anche dei dinosauri.

Guarda, stai toccando un punto che mi sta veramente a cuore. Non credo che esista nulla di più importante dei dinosauri, cazzo.

Ok, perfetto! Penso che la musica dei Drexciya sia molto cool, molto creativa. Non voglio mancare di rispetto a nessuno. Però quello che so, quello che mi interessa, riguarda il Precambriano. E la wiwaxia risale al Precambriano: è una specie di conchiglia ma con queste foglie/tentacoli che fuoriescono dal guscio. Nel Precambriano c’erano essenze di tutti i tipi, sparse nell’oceano, e la vita creava queste cose che non avevano troppo senso. Trovo che tutto ciò sia profondamente creativo, direi quasi speculativo. Per cui ora sappiamo che i Drexciya e io e migliaia di altri artisti stiamo in fissa con l’oceano e i suoi mondi.

Qual è il «Fourth World» a cui ti riferisci con Fourth World Magazine?
Per quel progetto avevo in mente la Fourth Dimension di cui parla Ouspensky. Il primo Fourth World Magazine parlava di UFO, mentre il secondo era appunto su Pinhead. Avevo quest’idea di inventarmi cose che non erano accadute, e di farle interagire con altre che di solito sono connotate negativamente, inserendo implicitamente roba che avevo imparato dalle mie letture neoplatoniche, come Swedenborg o Rudolf Steiner. Entrambi questi autori hanno trattato il tema del rapimento in una prospettiva multidisciplinare.

La questione degli UFO e dei rapimenti alieni è uno dei miti del nostro tempo, sebbene la letteratura sull’argomento sia spesso deludente.

È anche questione di trovare i titoli giusti. Ci sono libri come Outer Gateways di Kenneth Grant, in cui l’autore descrive la capacità degli esseri umani di aprire passaggi verso altri luoghi, senza bisogno di astronavi, ma c’è anche altra roba. Tutto ciò ha un fascino inesauribile su di me, ma non perché io voglia necessariamente credere che queste siano cose reali. Quello che voglio io voglio sentire è il TORBIDO, voglio sentire ciò che la gente ha dentro.

Nel sito della tua etichetta c’è un riferimento a un terzo «numero» di Fourth World Magazine, Etrusca 3D: di che cosa si tratta?
Non sarà in effetti Fourth World Magazine ma si intitolerà effettivamente Etrusca 3D. Siamo io e Francesco [Cavaliere] insieme. È finito ed è in uscita, probabilmente a gennaio. Ci abbiamo lavorato su per un anno.

Tra tutti i tuoi progetto ce n’è uno cui sono particolarmente affezionato, ed è Egyptian Sports Network. Da dove è venuta l’idea?

Volevo fare qualcosa che suonasse come musica interstiziale, televisiva, ma che al tempo stesso avesse a che fare sia con lo sport, sia con l’Egitto. Quel disco lo abbiamo fatto insieme con Matt Mondanile dei Ducktails.

La cover di Avatar Blue ha molto in comune con i lavori di Jean-Luc Bozzoli per Joan Ocean, a cui si è ispirato particolarmente Lieven Martens/Dolphins Into the Future…
Oh, non lo sapevo, e non sapevo neanche questa cosa di Lieven. Volevo che la copertina sembrasse un logo. Qualcosa che provenisse dal Precambriano, ma attraverso un passaggio differente, connesso al film Avatar.

A proposito: il secondo capitolo di Avatar lo aspettiamo in tanti…
Ti dirò, alla fine il primo film non mi è piaciuto particolarmente. A essere onesti non era molto bello.

Devo dire però che il dispiego di tecnologia era sbalorditivo.
Normalmente funziona così: James Cameron inventa una nuova tecnologia, totalmente superiore, che viene poi adottata da Hollywood per tutte le sue nuove porcherie. In questo caso è stato invece come se qualcuno l’avesse migliorata un anno dopo. Ciò significa che Cameron è al di sotto del suo stesso livello. Di solito lui inventa e gli altri si limitano a usare le sue invenzioni.

Effettivamente la cosa che mi è piaciuta di più sono stati i contenuti speciali dell’edizione Blu Ray. Vedere come hanno girato e realizzato tutto il film è un’esperienza.
Lo stesso vale per il libro. Hanno anche fatto un largo uso di una terminologia inventata appositamente.

Quello che di solito viene chiamato technobabble, il finto gergo tecnico tipico della fantascienza.
Sì, esatto.

Tra l’altro a James Cameron è stato chiesto più volte se e quanto avesse preso ispirazione dai lavori di Roger Dean, finendo addirittura in tribunale per poi vincere la causa.
A dirla tutta, tutti i contenuti derivano da qualcos’altro. Le stesse creature volanti del film sono ispirate alle macchine da corsa. C’è una cosa che trovo abbastanza assurda, ne parlo anche nelle note di copertina dell’album: c’è questo romanzo che ha molto in comune con Avatar, Reefsong di Carol Severance. L’autrice, che viene dalle Hawaii per cui riesce a sovrapporre la prospettiva femminile a quella isolana, inventa moltissime cose e dedica molto tempo alle creature inventate. Invece in Avatar è come se Cameron non si fosse dedicato abbastanza a questi aspetti. Nel senso: tutta la questione delle corporation è interessante, ma avrebbe potuto essere resa in maniera di gran lunga migliore. Tra l’altro, io e James [Ferraro] abbiamo assistito insieme alla cerimonia di apertura del film. Era un giovedì sera, e io James eravamo in giro in macchina, seguendo una map to the stars – una di quelle mappe che segnalano i luoghi dove vivono le star di Hollwood – e ascoltando la radio. Di solito le prime dei film sono di venerdì, per cui non ci stavamo pensando troppo, quando a un certo punto vediamo questo cinema, con tanto di tappeto rosso e con la prima di Avatar. Arriviamo lì in macchina e praticamente siamo solo noi e i fotografi. Poco dopo cominciano ad apparire tutte queste celebrità, tipo il tizio che interpreta George Costanza in Seinfeld [Jerry Alexander], Bill Paxton, Sigourney Weaver, ecc. Noi eravamo chiaramente molto eccitati, per cui a un certo punto ho pensato bene di cominciare a urlare «JERRY!», ed essendo io molto alto tutti quanti mi sentono, e cominciano a pensare che Seinfeld sia lì, e quando vedono George Costanza si animano ancora di più. Il tutto reso più divertente dal fatto che Jason Alexander ha quest’espressione un po’ miope, e insieme a lui c’è anche suo figlio, che è praticamente identico ma ha queste basette assurde, e insieme fanno abbastanza ridere.

Il giorno seguente io e James siamo andati a vedere il film e la nostra impressione è stata più o meno «facciamone una colonna sonora alternativa», anche se poi la cosa non si è realizzata.

In chiusura: prima dello show di stasera hai fatto riferimento a un potenziale progetto, insieme con James, da registrare qui a Roma. Puoi dirmi qualcosa di più?
Io e James vogliamo registrare un nuovo disco degli Skaters qui a Roma nel 2021. È da quando suonavamo insieme che parliamo sempre di registrare a Roma. Sarebbe veramente cool, e penso che avverrà.

Riccardo Papacci è condirettore della rivista accademica di medievistica DROGA. Nato nel 1987, è laureato in filosofia e vive a Roma. Ha collaborato con Noisey e il suo Elettronica Hi-Tech – Introduzione alla musica del futuro è uscito per Arcana nel 2019.
Manlio Perugini è nato nel 1985, è dottore di ricerca in filosofia e vive a Roma, dove lavora come bibliotecario. Si occupa di filosofia del Rinascimento, di information literacy e spesso lavora come editor.