Slumification globale

Le ricche metropoli dell’Occidente si tirano a lucido nel tentativo di cacciare i poveri e ripulirsi dalla «feccia». Ma guerre, migrazioni e crisi climatica ci dicono che il futuro delle città è negli slums, che lo vogliamo o meno

Tra le varie raffigurazioni che hanno tentato di mostrare dei prototipi urbani provenienti dal futuro, quelle che compongono l’universo di Ghost in the Shell mi hanno sempre colpito per la loro capacità evocativa: gli edifici, le strade, passaggi chiusi e fondali sembrano essere quasi rilevati dal vero, ridisegnati direttamente sul luogo per poi poter essere animati una volta tornati in studio.

Tra tutte, le più interessanti scenografie sono senza dubbio quelle ambientati nell’isola artificiale di Dejima, attrezzata come campo profughi per tre milioni di persone, attorno cui ruota un intero arco narrativo. Gli eventi precipitano proprio dallo scontro politico tra alcune fazioni conservatrici, che vorrebbero liberarsi dei profughi, e quelle progressiste, che invece sono in procinto di preparare un piano per naturalizzare gli abitanti del ghetto. Le strade dell’isola sono piene di vita, ovunque sciami umani sono impegnati in mille attività, mentre i vecchi edifici vengono modificati e rattoppati con il materiale a disposizione, trasformando l’ordinato insieme di grattacieli in una favelas verticale non dissimile dalla spettacolare città murata di Kowloon.

I fatti narrati rappresentavano la vetta di un’escalation di eventi che avrebbe portato a una crisi avviata nel 2031, quando, dopo l’ennesimo conflitto mondiale, le nazioni vincitrici hanno firmato una convenzione che ha previsto l’accomodamento di milioni di vittime civili di questi scontri, uomini e donne che hanno perso tutto. Ma la barriera di quindici anni che ci dividono da quanto mostrato è infranta dalla contemporaneità a cui assistiamo: ad oggi, circa 60 milioni di esseri umani vivono all’interno di un campo profughi, con l’aspettativa di risiedervi in media circa 17 anni, spesso senza possibilità di uscire dal recinto che dovrebbe definire i confini del campo, e senza la possibilità di occupare il proprio tempo alla ricerca di un’attività o progettando di vivere in una nuova abitazione – insomma, di dar corpo a sogni che al massimo potranno rimanere tra le pagine dei propri diari. 

Condannati a sopravvivere, i residenti di questi campi profughi spesso tentano di dare una parvenza di urbanità ai luoghi messi a disposizione. A volte viene eletto un portavoce, che va a fare le veci di leader o di sindaco, in questo gioco in cui tutti si illudono di poter vivere all’interno di una città. Le poche regole imposte ai rifugiati vengono riempite con la creazione di disparate attività, barattando merci ottenute chissà come, oppure cercando di rendere più confortevole l’area che si va ad abitare. Non esistono regole: spesso i campi assumono il triste aspetto di un accampamento militare, altre volte di un campo nomadi (a conti fatti, un campo nomadi equivale a un campo per rifugiati), altre volte ancora viene data in «gestione» un’area di città ben delineata, come ad esempio nell’area di Yarmouk, a Damasco, abitata da cittadini di origine palestinese, tristemente nota per essere stata nell’aprile del 2015 l’ennesimo bersaglio di incursioni dell’ISIS (in modo tristemente ironico, anche gli abitanti di Dejima dovranno affrontare le conseguenze di un bombardamento, donando tinte ancora più grottesche alla lucidità dello sceneggiatore della serie). 

Altre volte, come recentemente sta accadendo in Italia, viene richiesto l’intervento di strutture ricettive per poter alloggiare rifugiati e profughi, creando ancora più confusione sullo statuto giuridico che questi individui dovranno incarnare. Proprio il caso italiano è esemplare di come il confinamento sia una delle conseguenze più immediate della totale incapacità di pianificare l’allestimento di alloggi per i rifugiati: in modo asimmetrico, la popolazione locale preferisce l’autosegregazione nella restante parte del corpo urbano per paura di venir contaminato dallo straniero. Forse, la causa primaria di questa anomalia è dovuta alla diffidenza dei governi a impegnare sforzi maggiori al semplice adempimento delle convenzioni internazionali.

È molto importante soffermarci sull’unica reazione progettuale che gli attori in campo sono riusciti a trovare. Cancelli e mura sono diventati l’emblema dell’ultima moda in fatto di trasformazione urbana, sintetizzabile nella situazione palestinese. Forse potrebbe apparire una trovata d’effetto, ma a conti fatti l’utilizzo di una Barriera, con le dovute proporzioni, sintetizza localmente (anche se a scala geografica) ciò che sta accadendo al livello globale (anche se a scala urbana), e che non riguarda esclusivamente la questione dei profughi e dei rifugiati.

Nell’ormai lontano 2003 UN-Habitat diffuse uno studio dall’emblematico titolo The Challenge of Slums: global report on human settlements, nel quale si prendeva atto che ormai «un terzo della popolazione urbana mondiale, oltre un miliardo di persone, vive in quelli che chiameremo genericamente slums». Il periodo analizzato da UN-HABITAT è racchiuso nei dieci anni che concludono il millennio scorso, fornendo dei dati che restituiscono una cartina tornasole dei trend avuti tra il 1990 ed il 2001 – tendenze che, seguendo le proprie linee di evoluzione, avrebbero dovuto portare la demografia degli slum a una cifra superiore ai due miliardi di individui nel 2030.

Eppure, nonostante il catastrofismo dei numeri riportati in The Challenge of Slums, simili proiezioni hanno finito col risultare addirittura ottimistiche; da una parte le tensioni create dalla reazione militare in seguito all’11 Settembre, le cosiddette Primavere Arabe, lo strapotere locale delle legioni affiliate a Daesh e la polveriera di proteste che stanno incendiando diverse aree del pianeta hanno spostato sempre più verso Occidente il baricentro delle ondate migratorie; dall’altra, l’applicazione di leggi sulla prevenzione dei crimini urbani ha dato vita a una nuova e più sottile forma di gentrificazione. Non è più semplicemente la grande città la valle dove questo gorgoglio umano va a riversarsi, ma la città occidentale, al cui cuore l’ingresso è vietato a quella parte di umanità che si ritrova d’un tratto indesiderata. I nuovi «rifiuti» urbani vengono quindi spinti dove risultano meno visibili, lasciando i centri sicuri e protetti dalla Crime Prevention Through Environmental Design. La dimensione securitaria che la città-carcere occidentale sta acquistando è lo specchio delle insicurezze che il crollo della modernità positivista ha portato con sé: dietro le scintillanti torri di vetro che capeggiano sul trono dell’urbe, dietro le mura e i recinti che proteggono un’élite basata sul censo, dietro le saracinesche dei centri commerciali, pasteggia una parte della società che teme tanto l’imprevisto quanto la contaminazione.

Londra si è dimostrata all’avanguardia in questa particolare forma di lotta al «crimine», attivando un progetto ad ampia scala dedito a rintracciare ogni riparo non progettato, seduta improvvisata o angolo buio, per poter eliminare la possibilità che qualche reietto potesse usare questi lacerti di spazio per una improvvisata sosta. Così, vetrine, davanzali e fioriere sono state «decorate» con borchie e spuntoni che attendono di poter mordere le membra di chi è in cerca di un riparo. È una guerra, e il nemico si riconosce facilmente dalla divisa: null’altro che un insieme di stracci, ultima difesa contro il freddo inglese. 

La cosa fu molto sentita, tanto che in pochi giorni gruppi di cittadini, armati di secchi di cemento, hanno reagito con forza alla tracotanza di un capitalismo urbano ormai il cui unico scopo è l’autoconsevazione. #Peoplenotpigeons: questo è il grido di battaglia consegnato agli utenti di Twitter e Facebook. Un grido che per un breve periodo ha raccolto la risposta di cittadini da tutto il mondo. Le autorità, ovviamente, hanno esteso la loro purga dal crimine urbano allo spazio virtuale, cercando di limitare la diffusione di tale virus, proprio come veniva limitato l’accesso ad aree determinate della città. Ad oggi, non rimangono che rimasugli di quell’hashtag. Eppure, quel motto raccolto in forma di link ha lasciato il segno: se è vero che la cancellazione di post e account ha eliminato gran parte dei volantini virtuali, è altrettanto vero che molti di questi dispositivi per la dissuasione alla permanenza sono stati estirpati dalle loro sedi.

I cambiamenti climatici diventeranno nel prossimo futuro la maggiore causa di spostamento delle popolazioni sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali.

Alle varie spinte verso la periferia delle città occidentali se ne aggiunge un’ultima, ossia il cambiamento climatico. Secondo un rapporto rilasciato da Legambiente, intitolato Profughi Ambientali: Cambiamento climatico e migrazioni forzate, «i cambiamenti climatici diventeranno nel prossimo futuro la maggiore causa di spostamento delle popolazioni sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali». Era il 2012, anno in cui furono calcolati flussi migratori per un totale di più di 32 milioni di individui costretti ad abbandonare le loro case a causa di calamità naturali. Tali numeri hanno fatto sì che i rifugiati climatici surclassassero, alla data di stesura del rapporto, gli allora 5 milioni di profughi fuggiti dalle loro terre per salvarsi da guerre, epidemie e persecuzioni politiche. Ma è proprio qui che nasce un paradosso burocratico degno del più ispirato Terry Gilliam: non esiste tuttora alcuno statuto giuridico per il rifugiato climatico. Mentre chi fugge da una guerra o da una persecuzione può, di fatto, richiedere di essere ospitato in un campo profughi allestito per l’occorrenza, chi fugge da inondazioni, innalzamento dei mari o desertificazione della propria terra non ha garantita alcuna forma di riconoscimento dalla Convenzione di Ginevra del 1951, né dai suoi successivi Protocolli supplementari.

Questo cambia completamente la condizione dei rifugiati climatici, che non avendo altra prospettiva che il nulla giuridico, sono condannati a vivere in clandestinità pur di fuggire da una terra che si scrolla di dosso l’infezione umana, ardendo o affogando. Sempre Legambiente riporta stime che vedono circa un miliardo di individui esposti a crisi climatiche entro il 2050, dei quali 250 milioni si trasformeranno in eco-profughi transnazionali, pronti a cercare di farsi strada in luoghi più ospitali. Le coste strappate alle maree torneranno a Gaia, così come centinaia di ettari adibiti a terreni agricoli torneranno a essere polvere, non appena le fortune finanziarie abbandoneranno l’attenzione di quella determinata area.

Sarebbe sciocco pensare che l’intera quota ipotizzata si sposterebbe in blocco verso Occidente, ma è comunque necessario riflettere attentamente sulla portata di tali numeri, soprattutto rapportandoci alla situazione attuale. Il Mediterraneo è un ottimo caso studio per riuscire a comprendere, su scale ridottissime, quali saranno i problemi che dovranno risolvere i pianificatori alla data del 2050 ipotizzata da Legambiente. Se da questo laboratorio liquido estraessimo il solo vetrino rappresentato dal sud Italia, vedremo una situazione in cui profughi di diversa natura tentano pericolose traversate su imbarcazioni al limite della precarietà verso un’unica meta con in tasca la speranza di riuscire ad approdare verso uno scoglio con un apparato burocratico che ne riconosca l’esistenza giuridica. Il governo italiano ha istituito nel 2006 delle particolari strutture chiamate Centro di Primo Soccorso ed Accoglienza per fronteggiare il crescente numero di profughi che fuggivano dall’instabilità politica del Medio Oriente: in questo caso, la meta principale per un profugo partito dal Nord Africa è il Centro di Primo Soccorso ed Accoglienza di Lampedusa, progettato per una capienza di 381 individui, espandibile all’occorrenza ad 804. Numeri lasciati sugli appunti del collaudatore, dato che l’emergenza è continua e che la capienza massima è stata spesso superata anche di cinque volte, generando spirali di proteste trasformatesi in assalti allo stesso centro, come accadde nel 2011, quando un’ala del centro dovette arrendersi alle fiamme. Una mappatura delle altre residenze SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) disseminate per l’Italia non è ancora stata fatta, ma decine di indagini mostrano un sistema nato da poco eppure già al collasso.

È evidente quanto l’attuale politica, italiana ed europea, sia impotente e cieca di fronte a questo fenomeno: da un lato, la proposta italiana è avvitata attorno ai due estremi dell’accoglienza e del rifiuto, dall’altro, il bizantinismo europeo allontana il problema a data da destinarsi. Ma questa data è alle porte, e se finora ci siamo (come continente) sbracciati per poche decine di migliaia di uomini, è chiaro che ogni politica di chiusura si rivelerà inefficace di fronte alla flotta di umanità che fuggirà da una terra putrefatta e marcia, consumata proprio da noi che ci illudiamo che sia possibile chiudere la porta dei confini (a differenza dell’Europa e di altri paesi, gli Stati Uniti, nella loro estrema magnanimità, hanno a loro tempo preferito «l’aiuto in loco», ma tale soluzione diviene fallace dato che nessun campo profughi può essere attrezzato nei luoghi dove i cavalieri della crisi climatica si riversano per razziare). 

La difficoltà dell’Occidente di risolvere per vie burocratiche e politiche la condizione dei rifugiati climatici sta già stimolando una condizione di clandestinità che finirà col depositare una massa umana enorme ai margini tra città e provincia, in interstizi grigi che già stanno raccogliendo un miscuglio di individui appartenenti alle più diverse classi di reietti. Questi interstizi allargano sempre più i loro confini; da semplici linee diventano dense aree di pattume abitativo, circondando quelle che un tempo erano chiamati «centri», ma che ora sono aree protette in cui i bravi cittadini sono costretti a nascondersi. È la stessa città a dover essere sacrificata all’altare della sicurezza: nelle metropoli del nord del mondo, come in quelle del sud, vengono cancellati gli spazi pubblici e tracciati i nuovi confini che le sezionano secondo criteri razziali e di classe.

La trasformazione è già in atto: a Parigi, dove i senzatetto sono dissuasi a permanere nel centro della città tramite l’arredo urbano; a New York, dove il piano POPS rende gli spazi pubblici inaccessibili fuori dagli orari concessi; a Firenze, dove vige un divieto costante di sedersi nelle aree monumentali (aree progettate proprio per accogliere gli individui) e dove gli spazi sociali del centro vengono chiusi; a Venezia, dove il centro urbano è ormai da circa un decennio trasformato in una Disneyland progettata per offrire servizi e opportunità di svago unicamente ai turisti; a Padova, dove un muro alto tre metri e lungo ottanta divide una sezione di città.

La cinematografia come al solito ci aiuta a chiarire in modo radicale il problema. Neill Blomkamp, nel suo Elysium, ci mostra, attraverso la paradossale esasperazione di una bidonville estesa all’intero dominio terracqueo, l’incubo che Mike Davis preconizzava nel suo Il pianeta degli Slum. La superficie terrestre ormai non è altro che un’immensa sacca di pus pronta ad esplodere proiettando il suo liquido verso la più estrema delle Gated Community: il satellite artificiale che dà al nome al film, Elysium, è una ciambella di metallo costruita per offrire il maggiore comfort possibile ai propri abitanti, il cui orizzonte è pianificato attentamente da un governo che non si fa troppi problemi a estirpare l’imprevisto anche nel più fatale dei modi. Ma l’autosegregazione non è ovviamente una strada razionalmente percorribile, poiché Elysium, come anche le nostre città, ha da tempo rinunciato all’autosufficienza alimentare ed energetica: il contatto con l’esterno è necessario, e le masse si accalcano alle mura. Anche se queste sono collocate in orbita attorno alla terra…

Le soluzioni tardano ad arrivare: architetti e pianificatori sembrano impreparati ad affrontare la crisi che uno stato di guerra perenne, crisi sociali ormai sparse su tutto il globo, cambiamento climatico e crisi economiche stanno portando con sé, incapaci anche solo di riuscire a vedere l’onda che si sta per abbattere sull’intero Occidente. Architetti e urbanisti dovranno a breve raccogliere queste sfide, o gli eventi li supereranno, relegandoli, ancora una volta, al ruolo di meri decoratori di Palazzo.