Settimane in cui accadono decenni

Il mondo che ci troveremo davanti quando rimetteremo piede per strada non sarà più il mondo che abbiamo lasciato: sarà un campo di battaglia

La mattina del 9 marzo sono andato a fare la spesa ed è stata l’ultima volta che ho messo piede fuori dal mio appartamento. Come me, in una forma o nell’altra, hanno fatto moltissimi italiani, chi prima e chi dopo, e tutti comunque a partire da quella stessa sera quando il premier Conte ha decretato la quarantena del paese – una decisione che ci sembra normale, che anzi giustamente critichiamo come insufficiente nel momento in cui rimangono aperte attività produttive non essenziali, causando scioperi spontanei

E pensare che solo un mese fa la vita era «normale», e se pensiamo a cosa facevamo allora, oggi quasi non riusciamo a ricordarcelo. Il coronavirus ci sembrava una cosa distante, una cosa in corso in Cina – quindi praticamente su un altro pianeta – e in via di contenimento. E anche quando si è avvicinato – anche quando era a Codogno, o a Lodi – è rimasto una cosa lontana, che non impattava realmente sulle nostre vite; la discussione al riguardo era sorprendentemente astratta. Come sono lontani i tempi in cui di fronte alla quarantena non ci preoccupavamo di andare a far la spesa ma di vedere nei decreti del governo l’ombra della biopolitica, come si è dissolta presto l’atmosfera #milanononsiferma. 

L’esperienza più interessante che si possa fare in questi giorni è rileggere quello che scrivevamo due settimane fa – due settimane, non due anni – e constatare come oggi paiano uscite da una capsula del tempo. Il 25 febbraio i Wu Ming parlavano di emergenza «pompata e montata», «buona per stabilire un precedente» la cui funzione sistemica aveva «a che fare con la biopolitica». Meno di un mese dopo i nostri social sono intasati di cose come il video del giornale locale di Bergamo con 11 pagine di necrologi o i video della gente che suona e canta dai balconi, di «consigli per superare la quarantena» e di dirette su Instagram, mentre il nostro ministro degli Esteri chiede aiuti umanitari alla Cina. Capiamo finalmente, perché lo viviamo in prima persona, cosa vuol dire il famoso adagio di Lenin: «ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni».

Ma soprattutto siamo dentro qualcosa di inedito, e non solo come esperimento di governance (la quarantena nazionale, la cui durata è ancora indefinita ma che probabilmente andrà oltre la data del 3 aprile). In breve: quella che stiamo vivendo è ben più di una crisi sanitaria. È molto probabilmente l’evento che definirà il decennio che si apre, così come l’Undici Settembre ha definito gli anni Duemila; l’Undici Settembre dei nati dopo l’Undici Settembre. 

Il paragone è banale. Primo: così come l’Undici Settembre è stato per gli statunitensi il giorno della scoperta della loro vulnerabilità come popolo e come nazione, lo stesso si può dire sia stato il coronavirus per il mondo occidentale in generale – e in entrambi i casi, l’evento ha messo in crisi una pretesa di invulnerabilità figlia dell’avere introiettato la propria posizione di dominio mondiale. Fino all’Undici Settembre, gli Stati Uniti non pensavano che sarebbero mai stati colpiti sul loro territorio, perché il possesso monopolistico di una serie di strumenti di dominio – in breve: lo status di unica superpotenza – lo rendeva implausibile. Allo stesso modo, finché le cose non sono realmente precipitate, abbiamo: 1) continuato a minimizzare l’epidemia di SARS-CoV-2 come poco più di un’influenza; 2) continuato a considerarla come qualcosa di alieno, «roba da cinesi» – al punto da reagire o con razzismo sinofobico, o andando tutti a mangiare nei ristoranti cinesi per solidarietà. Allo stesso modo, gli altri paesi europei hanno reagito con grande lentezza nonostante ci vedessero già in quarantena, passando per le stesse fasi che abbiamo attraversato noi, pensandosi invulnerabili fin proprio al punto di non ritorno, con i maxi raduni di cosplayer dei Puffi a prendere il posto di «Milano non si ferma» – al punto che ci è sembrato di star guardando un incidente stradale al rallentatore. 

La contraddizione principale dei prossimi decenni rimane la stessa: l’ascesa del mondo ex coloniale che reclama la rottura del monopolio occidentale.

E poi: così come l’Undici Settembre, la pandemia ha cambiato radicalmente la governance globale – fin da subito. Il Patriot Act, l’homo erectus di quello che viene oggi chiamato «capitalismo della sorveglianza», e l’invasione dell’Afghanistan, che ha inaugurato il periodo della (tentata) ricolonizzazione manu militari del mondo da parte del complesso militare-industriale statunitense, sono dell’ottobre 2001. Certo, quella stagione era in preparazione almeno dagli anni Ottanta, ma l’Undici Settembre è stata la scintilla che ne ha accelerato il dispiegamento: non fosse stata al-Qaeda sarebbe stato qualcun altro. Allo stesso modo, la stagione che si prepara dietro la pandemia è in preparazione almeno dalla Grande crisi, e la funzione del virus sarà solo quella di dare un calcio alla storia per farla camminare. 

Che forma avrà la nuova stagione che si prepara? Circa un anno fa, sempre su queste pagine, avevo provato ad abbozzarne uno schizzo in un pezzo molto frainteso. Partivo dal tentato colpo di stato in Venezuela e dal discorso di Soros a Davos in cui si esplicitava la cosiddetta «seconda guerra fredda» tra Stati Uniti e Cina; un anno dopo, potrei ripetere lo stesso identico ragionamento cambiando gli esempi e partendo dalla lotta di classe in corso nelle periferie del pianeta o dalla controrivoluzione appoggiata dagli Stati Uniti in Bolivia qualche mese fa. A dimostrazione che la contraddizione principale dei prossimi decenni rimane la stessa: l’ascesa del mondo ex coloniale che reclama la rottura del monopolio occidentale di quegli elementi – economia, tecnologia, potenza militare, produzione culturale – che gli consentono di mantenere il suo dominio sul resto del mondo. 

È una «nuova, titanica lotta di classe» che si concentra in «specifiche regioni del pianeta», un processo che non riusciamo a distinguere nei suoi caratteri fondamentali per il semplice fatto che viviamo dalla parte sbagliata del fronte. Così, quelli che sono in realtà passi avanti della lotta di classe ci sembrano passi indietro – perché, livellando la divergenza globale, peggiorano la nostra situazione materiale –, mentre quelli che sono effettivamente passi indietro ci appaiono per quello che sono, perché osserviamo il ripristino della stessa divergenza dal punto di vista ideologico, non da quello materiale. 

L’epidemia di SARS-CoV-2 fa emergere ancora di più questa linea di faglia, ed è già facile vederne i risultati. La sinofobia che qualche settimana fa portava i passanti ad aggredire i cinesi in diverse città italiane si trasforma in affetto per la Cina che ci manda – in parte in regalo, in parte a pagamento – aiuti umanitari e medici per fronteggiare il virus (un post sulla pagina Facebook dell’Ambasciata cinese in Italia che annunciava la cosa ha fatto 200.000 like, e di solito la pagina ne fa poche migliaia). E di fronte all’emergere di un modello diverso dal capitalismo neoliberale occidentale, la principale preoccupazione delle classi dominanti – apparato mediatico al seguito – è mantenere le posizioni calcando sui classici stilemi della guerra di civiltà: la superiorità della democrazia liberale occidentale sul totalitarismo illiberale non-occidentale. 

Da una parte della barricata, quella della stampa borghese, lo scontro è molto chiaro e lo sintetizza bene una recente paginata del Foglio: da una parte l’Occidente, «i buoni», e dall’altra «i cattivi», «i governi ostili che hanno dei conti da regolare con l’Occidente» – ovvero Russia, Cina e, al loro seguito, il resto del mondo che mette in discussione la sua propria posizione di subordinazione all’ordine esistente. È una visione del presente impregnata di suprematismo occidentale, non così diversa da quella degli stragisti di estrema destra contemporanei – quel fenomeno che, sempre su queste pagine, ho chiamato «terrore bianco» – con l’unica differenza che per loro la minaccia è materiale/etnica e qui ideologica/valoriale. 

A chi sta dall’altra parte della barricata, tocca riconoscere la linea di faglia per quello che è, oltre le nebbie dell’ideologia con cui viene avvolta – vale a dire vedere cosa si nasconde dietro lo scontro democrazie-totalitarismo, tra «Occidente buono» e «autoritari cattivi». Riconoscere il processo di convergenza per quella «titanica lotta di classe» che è, appunto, e che non ha luogo qui ma là fuori. Se lo scontro è tra «buoni» e «cattivi» che hanno «conti da regolare» come sostiene la stampa borghese, i buoni non siamo noi e questi «conti» attingono a 500 anni di storia in cui l’Occidente ha svolto il ruolo di centro di un processo di accumulazione per espropriazione del resto del mondo tramite il colonialismo e l’imperialismo. Lo scontro non è tra il mondo libero e il mondo non libero – come viene dipinto, con toni da guerra fredda –ma tra l’istituzione di quello che Samir Amin ha definito un sistema di «apartheid su scala globale» e l’idea dell’umanità come «comunità dal futuro condiviso».

Non so quando uscirò di nuovo di casa, quando tutti quanti usciremo di nuovo di casa alla fine della quarantena – un memorandum riservato delle autorità sanitarie britanniche pubblicato dal Guardian domenica scorsa sostiene che la pandemia potrebbe durare fino alla primavera del 2021. Ma quando finirà, la fragile architettura dell’economia globale degli ultimi vent’anni sarà profondamente sconvolta, e da questo sconvolgimento la linea di faglia – la contraddizione principale – risulterà profondamente acuita. Il mondo che ci troveremo davanti quando rimetteremo piede per strada non sarà più il mondo che abbiamo lasciato: sarà un campo di battaglia.