Avremmo voluto nascere tutt3 in una casa senza televisione, dove il tempo veniva trascorso intrecciando cesti di paglia e discutendo della teoria dell’entanglement quantistico durante la cena. Invece, ci hanno messo davanti a uno schermo per permettere ai nostri genitori di tornare alle loro ossessive e futili occupazioni, come andare a lavorare, e noi abbiamo imparato ad amare le Ambre Angiolini, le Hilary Duff e le Britney del momento. Fast forward, eccoci a googlare foto di Valeria Marini per le nostre moodboard, a rispolverare le soffitte in cerca delle magliette Monella Vagabonda senza capire bene il perché. Confus3, frugavamo nelle scatole dei ricordi della nostra adolescenza, forse spinte da un’immagine vista su Instagram, il selfie allo specchio di una ragazza col lucidalabbra rosa vestita Juicy Couture su cui campeggia una citazione di Slavoj Žižek scritta in stile wordart. Ma da dove arriva l’immagine della ragazza online come modello di ribellione al sistema? Si tratta solo di pinkwashing letto male? Bimbocore, nymphet, new age bimbo: queste sottoculture sono accomunate da un insieme di stilemi estetici e comportamentali facenti parte della raunch aesthetics (da raunch: volgare, osceno in inglese).
Velluto rosa, glitter, cristalli, logomania (in particolare case di moda francese e coniglietti di Playboy) pantaloni a vita bassa e perizoma in vista, ma anche fantasie leopardate fluo, unghie lunghissime che rendono ogni atto della vita quotidiana impraticabile e litri di lucidalabbra sono gli elementi visivi imprescindibili di questa sensibilità. Nell’immaginario pop le sue icone passano da Paris Hilton a Nicki Minaj, senza disdegnare Pamela Anderson. Volendo inserire qualcuno del panorama nostrano, l’ossessione per i glitter di Valeria Marini e quella per i balletti di Ambra Angiolini agli esordi gli permettono di entrare a tutti gli effetti nel pantheon delle dive raunch. Il termine è stato inizialmente utilizzato per definire il modo “volgare” di certe artiste hip-hop di vestirsi e esprimersi, facendo leva su testi sessualmente espliciti e un’estetica particolarmente provocante, al punto di risultare osceni per la cultura americana facile ad indignarsi quando le espressioni della sessualità sfuggono a quelle addomesticate, come furono la Britney Spears di Hit me Baby one more time e la Christina Aguilera di Genie in a Bottle. Basta pensare all’intera discografia di Lil’ Kim, ad album come “S&M” di Rihanna o “Partition” di Beyoncé: la logica del “sex sells” ha permesso a queste artiste di sopravvivere in un mercato musicale ancora male-dominated come quello dell’hip-hop, ma è stato anche una prima occasione di rappresentare una donna nera come soggetto desiderante e non (solo) come oggetto del desiderio in un contesto che tendeva a deumanizzarle.
In modo complesso e ambivalente, il raunch è stato e continua a essere, soprattutto nella cultura queer e black, uno strumento di affermazione identitaria, soprattutto nel suo essere esageratamente femminile, marcatamente artificioso e decisamente non addomesticato. Così le lunghissime unghie assomigliano a degli artigli, gli stessi che citando Clarice Lispector spesso ci si vede costrett3 a tagliare per “adattarsi all’inadattabile” e modellare il proprio coefficiente desiderante entro i limiti imposti dalla società. Ariel Levy in Female Chauvinist Pigs fa una caustica analisi del contesto culturale americano dei primi anni 2000 e ci parla del momento in cui si afferma la figura femminile apparentemente emancipata, in realtà addomesticata allo sguardo maschile, tramite l’ appropriazione da parte della macchina mediatica neo-liberista del concetto di corpo libero portato avanti dal femminismo. Qui, Samantha di Sex & The City e Britney Spears sono elette a baluardo del girl power in cui si canta di sesso ma non si pratica, in cui si è sexy ma solo per essere guardate, oppure si fa sesso “come un uomo”: anche questo è cultura raunch, il femminismo spacciato come bene di consumo, il potere delle logiche di mercato ad insinuarsi fin sotto la pelle. Per Levy una ragazza con la maglietta di Playboy grida la sconfitta del femminismo sotto il peso inarrestabile del capitalismo a cui non pare esserci alternativa.
Giocando con il conflitto irrisolto tra rivoluzione sessuale e lotta femminista, questo insieme di capelli biondi, fiocchi rosa, perizomi decorati con strass e balletti ammiccanti ci attrae tanto quanto ci offende, ci colpisce dritto nelle viscere
Oggi, come testimoniano la proliferazione di profili sulla stregua di @everyoneisagirl, @donne_patateconpiedi e il lavoro di autrici come Tea Hacic, il raunch è più forte che mai e grazie alle dinamiche agglomeranti del post-internet sta emergendo come una controcultura che, pur germogliando dal terreno scivoloso della cultura pop dei primi anni ’00, presenta caratteristiche e intenti diversi. Più che essere l’immagine della ragazza “innocua come un coniglietto” come temeva Levy, il raunch è diventata la sua antitesi, quella di un soggetto che rivendica la sua alterità e ne fa sfoggio, satireggiando l’impossibilità di soddisfare gli standard contemporanei di femminilità ed esibendoli in modo aggressivo. Giocando con il conflitto irrisolto tra rivoluzione sessuale e lotta femminista, questo insieme di capelli biondi, fiocchi rosa, perizomi decorati con strass e balletti ammiccanti ci attrae tanto quanto ci offende, ci colpisce dritto nelle viscere con un senso di contrasto. La new age bimbo si veste come Paris Hilton ma è consapevole di trovarsi nello scenario ideologico del realismo capitalista in cui vige “la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze”.
Chrissy Chalpeka, una delle pioniere del bimboism su TikTok è arrivata alla viralità creando contenuti per “girls, gays and theys” che descrive come “anti-capitalisti” e “anti-Trump”. La configurazione di TikTok, che incoraggia l’adozione di trend da parte di ogni utente della piattaforma, ha permesso che creator dalle diverse identità di genere, aspetto, corporatura, etnia o classe partecipassero e dessero forma a questa contemporanea estetica (ed etica) raunch, risultando in una proliferazione di sotto-categorie fino ad arrivare a essere una sorta di versione aggiornata del cyborg, immagine sacra del transfemminismo. Sulla stregua della metafora Hawarayana la bimbo non ha classe, genere, etnia o abilità: l’unico requisito per far parte della grande famiglia è quello di accettarsi nelle proprie contraddizioni e senza compromessi, richiamando ancora una volta le parole di Lispector: “rispetta te stessa più di quanto rispetti gli altri, rispetta le tue esigenze, rispetta anche ciò che c’è di brutto in te.”
Crescendo in un contesto culturale che ci ha cacciato giù per la gola stereotipi di femminilità viene da chiederci: che fare di tutto quel materiale intrecciato alle fibre stesse del nostro essere? Che fare di tutte quelle pose, quelle strofe di canzoni, quei comportamenti e abitudini che sono penetrati nel nostro corpo plasmandolo persino nella sua espressione fisica, nei movimenti, nei gesti, nelle voglie? Domande e affermazioni come “Can you be a feminist and still enjoy being mouth-fucked?” e “Sometimes I worry that I wouldn’t be such a Feminist if I had bigger tits” colpiscono esattamente dove fa male e ci dicono che il nostro meccanismo desiderante è perverso — ma ha sicuramente qualcosa da insegnarci. Cert3 artist3 raccontano questa contraddizione attraverso l’evocazione delle pornotopie più fantasiose: dall’arte multimediale al teatro, il raunch si investe di nuovi significati grazie all’unione inscindibile con il grottesco e il mostruoso. Le loro pratiche sono degli esorcismi, delle fagocitazioni di icone incise nella memoria collettiva, atte a sondare la natura complessa, contraddittoria e perversa del nostro desiderio che, per quanto si possa nascondere sotto infiniti strati di tulle, rimane irrimediabilmente legato alla morte.
Sulla stregua del camp presentato da Susan Sontag nelle sue famose note, il raunch non è solo un’estetica, quanto una sensibilità. In questo senso non è meramente caratterizzata da elementi visivi, ma anche da comportamenti, mosse, diagrammi — quelli della femminilità da vetrina, dalla schiena inarcata all’infantilismo — che nell’educazione delle ragazze giocano un ruolo fondamentale. Jessica Murano ci porta dall’antica Grecia il concetto di schemata come “quell’insieme di gesti, atteggiamenti, pose, portamenti, in grado di restituire un ethos e un pathos specifici – ossia determinati comportamenti e significati emotivi […] ritenuti importantissimi poiché potevano influenzare l’educazione dei giovani, i valori condivisi da una società, il pubblico apparire.” Murano ci fa notare come il capitalismo della sorveglianza agisca contemporaneamente sia sul corpo vissuto che su quello fisico tramite un disciplinamento delle pratiche reso possibile non solo dalla ripetizione quanto anche dalla saturazione visiva. Immagini ripetutamente associate a ciò che socialmente è riconosciuto come femminile innescano un addomesticamento che può influenzare la diffusione delle ideologie, amplificandole o neutralizzandole. Tramite gli schemata il sistema agisce facendo sì che “ l’oggettificazione del proprio corpo sia percepita come modalità di empowerment”.
Oltre che adottarne l’estetica, la compagnia di arti performative italo-argentina Las Berthas nasce proprio dalla volontà di far esplodere gli schemata raunch che ci si porta dietro da un’educazione etero-normata e di guardare nel loro abisso. “Ci sono due strategie per uscire dal destino che ci è stato assegnato in quanto portatrici di vulve: disconoscere completamente questa eredità o appropriarcene. Sono tutte e due valide, ma per noi funziona meglio la seconda.” Quello de Las Berthas è un “percorso di riappropriazione a partire dal fucsia” attraverso la drammaturgia, in cui il corpo è strumento non solo perfomativo ma anche conoscitivo. Il raunch nei loro spettacoli è parte dei costumi e dei continui richiami alla Barbie, ma soprattutto esplorata nella sua parte gestuale. Lavorando sul concetto di autosabotaggio come forma di liberazione si pratica una sorta di auto-esorcismo su corpo collettivo (idea ispirata da Luther Blissett). El Maravilloso Mundo de Las Berthas è un percorso di ri-creazione del desiderio e del corpo: attraverso l’esercizio agonico dei diagrammi interiorizzati del femminile, si rappresenta il “lavoro doloroso e sanguinoso” che costruisce il corpo femmina nell’adolescenza e nell’infanzia, vissuto come un fardello da non voler rinnegare ma comunque far esplodere – per poi partire a ricostruire.
Evoca, Venera, Divora è una performance-laboratorio in cui l3 partecipant3 stess3 fanno parte di un rituale in cui giocare con le proprie contraddizioni, che richiama le pratiche del cannibalismo e dell’antropofagismo come forme di riappropriazione della violenza imposta. Assemblaggi di mosse e pose incarnate da un pantheon di dive squisitamente raunch (da Britney a Viola Valentino) vengono ricomposti in forme animali o grottesche, diventando “una mandria di cavalli, delle attrici porno gonzo, conigliette”, creando un baccanale in cui sul corpo e nel corpo una forma normata mangia l’altra e la manda in cortocircuito. Mettendo il dito nella piaga ancora aperta tra cosa il nostro corpo ha appreso a desiderare e la nostalgia di un futuro perduto in cui si libra un desiderio libero da condizionamenti, il lavoro de Las Berthas tiene a mente e lavora con questi fantasmi, costituendo un tentativo pratico di svelamento, poiché, nell’impasto informe di precarietà ontologica del tardo capitalismo, “dimenticare diventa una strategia di adattamento”, sempre per citare Fisher.
ci si ubriaca di decostruttivismo e cultura pop per vomitare nella piscina un liquido arcobaleno in cui galleggiano pezzi di Judith Butler e Hugh Hefner
La ricerca di Arvida Byström è fortemente votata all’esplorazione del concetto di femminismo come bene di consumo e in questo senso si muove la sua esplorazione delle estetiche iper-femminili. “Verso i vent’anni mi sono distaccata e ho effettuato una sorta di riformulazione del femmineo — un atto che non vedo come qualcosa di rivoluzionario, ma come una sorta di meccanismo di difesa”. La necessità di riformulare l’infanzia in rosa può passare dalla strada della rinnegamento o da quella della riformulazione; per Byström, quest’ultima avviene grazie al grottesco, che permette di restituire con più prossimità “l’effettiva sensazione di avere un corpo e muoverlo nel mondo […] mi permette di esprimere il contrasto che vivo, di mantenere degli elementi da cui sono ancora attratta ma che in certi contesti possono essere molto oppressivi”. Al centro dell’arte di Arvida sta proprio l’esplorazione e la riproposizione della natura del desiderio contemporaneo, profondamente condizionata dalla storia e dal capitalismo, e dei sentimenti di tristezza, malinconia e bellezza dolorosa che ne derivano, richiamando l’attitudine distaccata e allo stesso tempo spietatamente analitica del bimboism.
Abitano in questo spazio progetti come Disembodied daughter, video-installazione in cui si sovrappongono l’idea dell’economia estrattivista dell’industria tecnologica, nascosta sotto la metafora del “cloud immateriale” in cui la voce femminile è esplorata in quanto forma meno minacciosa, accanto a nature morte in cui pesche e ciliegie vestono mutandine di raso rosa. Loghi di Chanel ricreati con il glitter, parrucche lilla, stampe leopardate arredano una cameretta virtuale, luogo intimo per eccellenza, in cui ci si ubriaca di decostruttivismo e cultura pop per vomitare nella piscina un liquido arcobaleno in cui galleggiano pezzi di Judith Butler e Hugh Hefner, componendo una creatura frankensteiniana glamour che batte i piatti nel nostro cervello. In A Cybernetic Doll’s House, Byström si confronta con i meandri più oscuri del desiderio etero-normato rapportandosi a Harmony, una bambola iper-realistica realizzata da Realdolls capace di parlare e fare sesso. Byström posa con la sua compagna cibernetica con abiti, capelli e trucco coordinati: giocando sull’ambiguità tra l’umano e la bambola, crea assemblaggi in cui corpo naturale e artificiale si uniscono, in una poetica incarnazione del post-umano da cui traspare una certa malinconia.
Il progetto In The Clouds è altrettanto articolato nelle spesse trame della relazione tra corpo, mondo digitale, mercificazione e realtà. È una profonda riflessione sul deepfake porno, di cui il 99% dei contenuti generati hanno come protagoniste delle donne. Utilizzando un’app che, servendosi di tecnologie di machine learning, promette di poter “svestire chiunque”, l’artista ha creato dei finti nudi di sé stessa che ha messo in vendita su una piattaforma simile a OnlyFans. Vendere foto di nudo generate da IA è un atto paradossale, che va contro la funzione primaria per cui quest’app è stata probabilmente progettata: svestire le persone in maniera non consensuale. In un ulteriore cortocircuito, i nudes generati si allontanano marcatamente da un’immagine di corpo naturale, per andare verso la mostrificazione, l’orrido e l’alieno. Nelle foto, Byström è perfettamente truccata, veste un completino di raso rosa e sandali con tacco a spillo con i cinturini intrecciati sulle gambe. È piegata in avanti, in una posizione che vorrebbe essere provocante; il nostro sguardo si muove sulla figura e ci accorgiamo che la gamba destra esce fuori dallo sterno e dalla spalla, la mano che tiene il sandalo sinistro è attaccata a un braccio che spunta dal bacino che a sua volta è unito a un torso pressoché assente. La moltiplicazione di arti e il sovvertimento delle normali quantità e proporzioni dei seni e di altre parti del corpo diventano un modo per depotenziarne, o forse ampliarne, il potenziale erotico.
Il collettivo francese Youpron è una casa editrice, fanzine e duo artistico che esplora le istanze delle culture pornografiche intese come atti politici, nato dalla volontà di di creare uno spazio in cui si potesse guardare al mondo della pornografia con uno sguardo transfemminista e militante. Nato cinque anni fa, il progetto si definisce “autonomo, pirata e autogestito… umido e disordinato”. Il lavoro di Youpron è pensato come una “cameretta”, intesa come spazio simbolo dell’intimità, “dove guardiamo i nostri porno preferiti così come i video delle nostre pop-star preferite.” In questa camera, riempita di oggetti della quotidianità che ogni girl online che si rispetti possiede (telefoni, vestiti di marca e contraffatti, sex toys, vari dispositivi elettronici con schermo tattile e ovviamente un letto, su cui si fa tutto dal mangiare al dormire al registrare i tutorial per il proprio canale YouTube) si condensa la dimensione esistenziale dell’intimo-pubblico attivato dai social media, fino ad arrivare al parossismo di OnlyFans e delle camgirl la cui l’intimità più intima diventa una performance inscenata ad arte.
Le installazioni Room Services e Boom Boom Boom raccontano questa finzione di finzione, eliminando le protagoniste e lasciando lo sfondo vuoto. L’installazione è costituita da un video proiettato sulle pareti di una cameretta ricreata ad arte. Il video mostra le foto di migliaia di stanze di camgirl prese dal sito Chaturbate, in cui la presenza delle ragazze aleggia come un fantasma ed è intuibile dai dettagli dell’arredamento, in cui il rosa regna sovrano. La volontà di Yourpron è quella di creare uno spazio di visibilità, e anche di sostegno reciproco (economico, materiale, creativo e psicologico), per tutt3 coloro che si interessano e partecipano alle culture pornografiche. L’impegno si concretizza anche in attività di mediazione e sensibilizzazione in centri familiari, scuole e altri spazi pubblici. Un mélange di cultura pop e sex positivity che, con umorismo e ironia, grazie alla lente d’ingrandimento fornita dalla parodia, dallo straniamento e dal cringe, cerca di indagare il ruolo dell’oscenità oggi, rappresentando le aporie di un desiderio costituitosi sotto l’influsso del consumismo e della mercificazione.
Il sottotitolo del progetto è “pornographie, capitalisme et honeymoon”, a sottolineare l’amore indissolubile tra porno e capitale. Protagonisti di questa narrazione sono spesso, nei progetti fotografici e video del collettivo come Lonely Moon e Ton amour derrière les barbelés, una coppia di innamorati con corpi umani e teste di vulva e pene, con una passione per l’abbigliamento anni ’80 e il kitsch, colti in varie attività, dal viaggio per le città d’Europa alla scoperta della porno-urbanistica agli incontri amorosi nei boschi accompagnati da suoni di cascate e disturbanti rombi di motore. I contenuti di Youpron veicolano un paesaggio iconografico in cui imperversa il cringe come dispositivo di riappropriazione e decolonizzazione del femminile: le immagini a volte sono troppo brutte per essere guardate, richiamano al morboso, e ne siamo attratt3 proprio in virtù del loro essere estremamente fuori da ogni definizione, ci seducono tramite la repulsione e per questo ci parlano. Il raunch come estetica ed estetizzazione del rifiuto, dello scarto, del nascosto sotto il tappeto si serve di quei congegni visivi ormai inservibili, mette le mani nella spazzatura per scovare i pezzi con cui comporre un’immagine, quella dell’alterità quasi mostruosa su cui l’ideologia eterosessuale capitalista ha costruito la donna.
Prendendo ispirazione dalla riflessione di Noura Tafeche sulle contemporanee dinamiche di colonizzazione e deresponsabilizzazione attraverso l’eccessivo uso di parole anglofone, raunch potrebbe essere tradotto con il neologismo femmirancido, che mi sembra particolarmente adatto alla cultura che ho analizzato qui. Il raunch è, dall3 artist3 contemporane3 fino alla girl online, elemento di disturbo, di errore; riprende l’appello del Femminismo Glitch che, ispirandosi al glitch informatico come errore sovversivo di un movimento perenne e pre-determinato, incoraggia ad abbracciare la propria natura di elemento disturbante. L’iper-femminilità innocua della bambolina viene associata a elementi “perturbanti” per l’occhio benpensante di umani e algoritmi addetti allo shadowban, tratti squisitamente corporei come cicatrici e peli, fino ad arrivare all’aggiunta di arti, dita e teste, creando assemblaggi che richiamano la fantascienza e l’orrido. Questi elementi evidenziano le patologie inerenti alla macchina capitalista e mostrano la normalizzazione dei suoi sintomi, tra cui sessismo, xenofobia, razzismo e omofobia.
Liberandoci da ogni fatale astrazione, questi nuovi bellissimi mostri smantellano una volta per tutte l’idea distorta che la liberazione sessuale possa, da sola, portare avanti il treno del cambiamento, configurandosi come una risposta e reazione al pinkwashing galoppante. Se “il capitalismo è […] un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”, è il suo fantasma che traspare dalla Barbie che viene autosabotata, cannibalizzata, alterata e rimodellata in un processo di morte e rinascita. Femmirancido ha insita in sé la decomposizione, capace di esalare odori proteiformi che da lezzi soffocanti a volte diventano profumi inebrianti; l’ambivalenza di una forza vitale che persevera nel suo dinamismo. In una non così stoica accettazione del “there is no alternative” introiettato dall’inconscio collettivo, i simboli dello sfruttamento del corpo femminile vengono mangiati e vomitati, sudati, fanno crescere protuberanze inaccettabili, diventano cornice e mezzo per dichiarare senza parole il proprio essere felicemente, piacevolmente altro, altro dall’idea di donna e anche di umano compresa nella scatola nera del cyber-capitalismo. I nostri desideri femmirancidi sono contraddittori teatri anatomici, maschere che mostrano il vero volto dei nostri immaginari nello sforzo di trovare nuove strade e tendersi verso nuove espressioni e forme d’essere, di volere, di godere, di amare.